venerdì 28 dicembre 2007

Note su "L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica" di Benjamin di Walter Falciatore parte prima

Con molto piacere pubblichiamo questo intervento in quattro parti di Walter Falciatore, dedicato a "L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica" di Benjamin.


Norman Czabo


L’arte e la tecnica, la percezione estetica, la funzione politica dell’arte, più esattamente la politicizzazione dell’arte per combattere l’estetizzazione della politica. Per molti versi si tratta di temi irrimediabilmente invecchiati quando li si osservi come circoscritti all’epoca storica a cui si riferiscono, strumenti di una battaglia allora attuale tra le due avanguardie contrapposte, quella aristocratica del fascismo e quella rivoluzionaria del comunismo. Marinetti contro Brecht, per intenderci, futurismo contro realismo socialista, scontro tra fazioni apertamente contrapposte, scontro di guerra che prevede chiare la vittoria e la sconfitta. E invece così non è stato, da quel conflitto quale debba essere la la funzione sociale della attività artistica non è emerso in modo più chiaro, ma è certo che la fiducia in un’arte il cui agire e significato si tramuti in azione sociale è nozione che ha perduto gran parte del suo significato, inversamente sembra piuttosto che l’altro aspetto, quello dell’estetizzazione o del trasferimento dell’estetica nella vita e nella sua dimensione politica abbia finito per caratterizzare l’epoca contemporanea e che i processi che Benjamin aveva anticipato siano andati in buona misura verificandosi in quell’arte di massa che egli fu tra i primi ad analizzare. E’ a tale aspetto della sua riflessione, ancora attualissimo , che faremo riferimento in questo articolo che apre la nuova serie di contributi sull’estetica e la società del nostro Caffè.


La riproducibilità, secondo Benjamin, distruggerebbe quella che egli definisce “l’aura” dell’opera d’arte. Egli la concepisce come qualcosa di irripetibile che era presente nelle opere antiche, un qualcosa di originario che ne garantiva l’autenticità, proveniente da manipolazioni tecniche che gli dovevano apparire ogni volta uniche e non totalmente imitabili e dal fatto che l’espositività dell’opera, quella che oggi si chiamerebbe la sua fruizione, era limitata a pochi, non percepita come oggi da ognuno e ovunque, come accade per ogni immagine che sia realizzata in serie.


Per chiarezza Benjamin cita ad esempio il simulacro che riposava nascosto nella cella dei templi, che pur visibile per il solo sacerdote possedeva integro il suo valore per tutta la comunità.


La tecnica della riproduzione, afferma Benjamin, sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione e la crisi della tradizione è necessaria alla democratizzazione della massa (per i tempi a cui risale lo scritto diremo anche ai movimenti di massa). Agente esemplare di questo fenomeno è il cinema. Per Benjamin il cinema non impone il raccoglimento nell’attenzione estetica, una esigenza che egli ritiene specifica dell’arte tradizionale perché legata al rituale, ma invita ad una sorta di partecipazione che si potrebbe definire, come egli fa, una attitudine alla ricezione sospesa o all’esaminare distratto (oggi si direbbe “effetto subliminale”) che nel contempo sembra poter consentire una maggiore identità dello spettatore con l’opera e, in particolare , l’accesso a quel nuovo modo di percepire la realtà che prima la fotografia e che poi la fotografia in movimento hanno inaugurato presso la grande massa del pubblico. Così il cinema sarebbe diventato lo strumento privilegiato della diffusione della cultura politica democratica tra le masse, ammesso che a utilizzarne le potenzialità fossero forze democratiche anziché oscurantiste. Benjamin si riferiva alle caratteristiche nuove e specifiche della tecnica cinematografica che, come si è visto, fu manipolata con non minore efficacia dai nazionalsocialisti che dai compagni di strada dello stesso autore, anzi, sarà proprio nella Germania dell’epoca che l’arte del film conoscerà le basi delle sue metodologie future.


Le osservazioni di Benjamin sulle peculiarità della tecnica cinematografica sono in effetti illuminanti e vertono sostanzialmente su due aspetti che contribuirebbero a mutare la risposta percettiva dello spettatore nei confronti dell’opera: si tratta naturalmente della illusione di realtà generata attraverso il movimento dalla serie di fotogrammi giustapposti nel montaggio (che Benjamin definisce una “natura di secondo grado”) e la particolare conoscenza empatica che la capacità di indagine della macchina da presa consente attraverso primi piani , ralenti, l’acuta oggettivazione del dettaglio e in genere gli artifici tecnici propri del mezzo, i quali permettono allo spettatore di “entrare “ nella realtà stessa della immagine filmata come a farne parte. A corollario di questa analisi Benjamin osserva, ed è una profonda osservazione, che tutto ciò produce un interscambio tra il film, opera d’arte, e lo spettatore, di un genere che mai prima era avvenuto nella storia della percezione e della società. E’ una questione di distanza: mediante la tecnica cinematografica l’arte perde tutta la sua ieraticità, la sua “aura”,filtrata attraverso il realismo del film,si ravvicina allo spettatore e diviene materialità, fenomeno autenticamente democratico. Similmente egli ritiene debba accadere in letteratura, come in effetti accadrà, quando prevede che nel futuro tenderà a scomparire la tradizionale distanza che separava chi scrive da chi legge e scorge l’origine del processo anche qui di scambio reciproco nell’ abitudine che andava allora diffondendosi di manifestare il proprio pensiero non professionale per mezzo delle lettere al direttore dei quotidiani.


(..segue..)



Walter Falciatore
http://www.kore.it/CAFFE/caffe.htm

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