domenica 30 novembre 2008

Incontri Chitarristici del Mediterraneo XIII edizione

Lions Club
Villa S. Giovanni Fata Morgana Reggio Calabria
11-14 Dicembre 2008



Programma:

Giovedì 11 Conservatorio Di Musica "F. Cilea"
Ore 09.00 Master Class
Ore 12.00 Concerto (si esibirà uno degli allievi partecipanti)
Ore 15.30 Master Class
Ore 18.45 Concerto di Javier Garcia Moreno
Ore 19.30 Concerto di Giorgio Albiani

Venerdì 12 Conservatorio F. Cilea
Ore 09.00 Master Class
Ore 12.00 Concerto (si esibirà uno degli allievi partecipanti)
Ore 15.30 Master Class Auditorium "Il Cipresseto"
Ore 20.30 Concerto di Agatino Scuderi e Ciro Carbone

Sabato 13 Palazzo Della Provincia
Ore 09.00 Master Class
Ore 12.00 Concerto (si esibirà uno degli allievi partecipanti)
Ore 15.00 Master Class
Ore 18.00 Concerto di Angelo Barricelli
Ore 18.45 Concerto di Laurent Boutros

Domenica 14 Palazzo della Provincia
Ore 09.00 Master Class
Ore 12.00 Concerto (si esibirà uno degli allievi partecipanti)
Ore 15.00 Master Class
Ore 18.00 Concerto degli Allievi
Ore 18.45 Concerto di Nicola Oteri

La Mostra di Liuteria si terrà Sabato e Domenica presso il Palazzo della Provincia.

"Itinerari culturali con la chitarra" Taranto dal 4 al 9 dicembre

L'Associazione Jonica della Chitarra
organizza

"Itinerari culturali con la chitarra"
un evento musicale che si terrà a Taranto dal 4 al 9 dicembre 2008, fatto di Master Classes, Laboratorio di Musica d'Insieme e Concerti, così come di seguito specificato:
Master Classes
Saranno tenute dai

Maestri Lorenzo Micheli, Matteo Mela, Antonio Rugolo e Vincenzo Zecca: gli incontri sono rivolti a chitarristi di ogni livello senza limiti di età e si svolgeranno dal 5 al 9 dicembre. Gli allievi ritenuti idonei si esibiranno nel concerto finale (9 dicembre). Le iscrizioni verranno accettate in ordine di arrivo fino ad esaurimento dei posti disponibili.Il contributo d'iscrizione alle Master Classes è di euro 100 ed il corso, che prevede 4 lezioni, è gratuito.

Laboratorio di Musica d'Insieme

Tenuto da Lucia Pizzutel, si rivolge ai chitarristi di ogni livello che vogliano scoprire e affinare le possibilità espressive del proprio strumento in contesto d'insieme. Gli incontri in ensemble si svolgeranno dal 5 al 9 dicembre con concerto finale il 9 dicembre.Il contributo d'iscrizione al Laboratorio è di euro 25 ed il corso, che prevede 4 lezioni, è gratuito.
Concerti

"Quartetto Santorsola" (Rugolo, Zecca, Gillo, Grasso) - 4 dicembre h.19.30

"Solo Duo" (Mela-Micheli) - 7 dicembre h.19.30

Concerto degli Allievi - 9 dicembre h.19.30
Tutti i concerti, ad ingresso gratuito, si terranno nella Sala "Don Bosco" dell'Istituto S.G.Bosco di Taranto, viale Virgilio 97.

Tutti gli interessati potranno richiedere la brochure informativa in formato pdf o chiedere informazioni ai seguenti recapiti :
email: ass.jonica.chitarra@gmail.com

Download Programma

info: tel: 0997305512; 3287213238; 3387364448.

Video: Robert Fripp - Crafty Guitarists









sabato 29 novembre 2008

Recensione di Musicofilia di Oliver Sacks di Empedocle70


Musicofilia di Oliver Sacks


Adelphi, traduzione di Isabella Blum 2008

3ª ediz. , pp. 434 euro 23,00


Oliver Sacks è un neurologo e un eccellente scrittore che nel corso della sua lunga carriera ha scritto diversi saggi dove con una scrittura semplice e elegante ha saputo raccontare le bizzarrie e le curiosità che si celano nella mente umana. Musicofilia è il suo ultimo libro ed è una raccolta di ventinove saggi in cui Sacks esplora il rapporto tra la musica e la mente concentrandosi su casi neurologici che sono in parte nuovi e in parte derivati da libri precedenti come “L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello” e “Un antropologo su Marte”.
C'è quello del musicologo inglese Clive Wearing a cui un'infezione cerebrale azzera continuamente la memoria, il quale ogni volta che vede sua moglie la saluta come se fosse il loro primo incontro, ma se si siede al piano riesce a suonare un intero preludio di Bach. Ci sono malati di Alzheimer o persone affette da sindrome di Tourette che trovano pace solo quando suonano o ascoltano brani musicali. Ci sono persone torturate dalla musica come Schumann che da vecchio era tormentato da allucinazioni musicali che degeneravano in una singola nota prolungata. E altre che vengono prese dalle convulsioni come la moglie di un compositore moderno che ha una crisi epilettica ogni qual volta sente una musica simile a quella del marito. Ci sono anche casi di amusia: quello di Nabokov, per cui l'alfabeto era colorato come un arcobaleno, ma che pativa qualunque melodia come «una successione arbitraria di suoni più o meno irritanti». E quello di un neurologo francese che di qualsiasi brano musicale gli confessa di saper dire soltanto se sia o non sia la Marsigliese.
Bellissima l’analisi del fenomeno delle “infezioni musicali”, quei motivetti che improvvisamente ci entrano nella testa e che non riusciamo a scacciare nemmeno se vogliamo, e quella sull'influenza dell'IPod sulla vita delle persone: “A prima vista sembrerebbe una cosa fantastica, se pensa che Darwin doveva viaggiare fino a Londra per sentire un concerto. Ma mi chiedo se questa esposizione costante alla musica non abbia una responsabilità nell'aumento delle allucinazioni musicali”.
Le conclusioni del libro sembrano essere che questa 'musicofilia' sia un dato di fatto della natura umana: può essere sviluppata o plasmata dalla cultura in cui viviamo, dalle circostanze della vita o dai particolari talenti e punti deboli che ci caratterizzano come persone ma allo stesso tempo sembra essere così profondamente radicata nella nostra natura da imporci di considerarla innata.
Libro consigliatissimo per chi ama la musica e ama suonarla e anche per chi vive a contatto con un musicista o un musicofilo .. imparerete a capire meglio questa meravigliosa passione!

Empedocle70

Liutai sul Portale Blog Chitarra e Dintorni

E' stata aperta la sezione Liutai sul Portale Blog Chitarra e Dintorni, i primi a essere pubblicati sono i Maestri Lorenzo Frignani e Sauro Malagodi
E'stata anche pubblicata la recensione di Lorenzo Frignani del bel libro di RICARDO MONUZ "100 CHITARRE A CONFRONTO dei grandi costruttori storici (Torres, M. Ramírez, García, Arias, Hernández, Simplicio e altri)

Reportage fotografico dal Festival Andres Segovia di Madrid: Liutai Italiani a Madrid 2008





























venerdì 28 novembre 2008

Kurtag: Perpetuum Mobile (A piece for glissandos only)

Kurtag: Quarrel (from the Jatekok)

Recensione di Jatékok di György Kurtág, Stradivarius di Empedocle70




English Version

La bellezza è una cosa per me estremamente difficile da definire …. con una certa obiettività. Bellezza e gusto dell'osservatore sembrano infatti due fattori inscindibili, due lati della stessa medaglia, pensare a una bellezza indipendente da un qualche osservatore … è come pensare a un’opera d’arte, a una meravigliosa partitura che viene gelosamente custodica in cassaforte e che nessuno riuscirà a suonare.
Credo però che la ricerca della bellezza comporti la cognizione degli oggetti come aventi una certa armonia intrinseca oppure estrinseca, con la natura, che suscita nell'osservatore un senso ed esperienza di attrazione, affezione, piacere, salute. Penso che possa essere il caso di questo disco dove possiamo ascoltare musica nuova, fresca, originale, lontana da certi aspetti di perfezionismo fine a se stesso. Ne deriva una registrazione di impagabile bellezza come questa che riunisce una scelta dei didattici Jatékok (Giochi) suonati da Kurtág stesso con la moglie, un pezzo magico per il Cimbalon di Ildikó Vékony e il classico Grabstein für Stephan per chitarra e strumenti, solista del quale è la musicalissima Elena Càsoli.
Jatékok (Giochi) non è un metodo per lo studio del pianoforte concepito per i giovani allievi, bensì un’opera - secondo le parole del compositore contemporaneo ungherese - “suggerita dal bambino che si dimentica di se stesso mentre suona; quel bambino per il quale lo strumento è ancora un gioco.” Si tratta infatti di un’opera che prende le mosse dall’osservazione delle esperienze infantili intorno alla musica e che cerca di esorcizzare tali esperienze attraverso il recupero della memoria dei traumi di chi si accosta alla musica ancora in giovane età.
Szálkák è dedicato alla musicista Martha Fabian, che ebbe grande influenza non solo su Kurtag ma anche su altri musicisti ungheresi, ed è per cimbalon, il dulcimer ungherese, mentre Grabstein für Stephan per chitarra e gruppi di strumenti, è un pezzo singolare in un unico respiro, caratterizzato da una notevole dinamica, una “lapide musicale” in cui la chitarra di Elena Càsoli gioca un ruolo di cornice con arpeggi semplici e lineari su cui corrono gli altri strumenti, in un quadro di grande suggestione emotiva.
Lasciatevi conquistare.


Empedocle70

giovedì 27 novembre 2008

Duo Ad libitum: F. Carulli - Serenata op. 96 n. 3 (1/2)

Fauvel presenta 'Il liuto scomparso', un racconto di Sergio Pes

A pochi chilometri da Oxford il cielo scialbo di mezza estate s’è fatto d’improvviso immobile, si è teso, come la membrana di un otre ricavato dalla vescica di una pecora. Ed è venuta giù in frantumi una pioggia torrenziale, fitta e pesante, perpendicolare al terreno.

Nel fango del viottolo un gruppo di viandanti. Procedono in silenzio, a testa china, qualcuno alla cavezza conduce un asino appesantito dal basto e dall’acqua. Chi ha poco bagaglio è una cosa sola con l’asino che cavalca. Procedono in un giorno di luglio, senza scorta, la vita racchiusa nel mantello fradicio, non si conoscono. Li ha uniti casualmente la pioggia, la speranza della meta li sostiene. C’è un mercante, e c’è un ebreo, c’è forse un francese che non se la passa bene, o forse uno spagnolo, non sempre è possibile distinguere il sussiego di uno da quello dell’altro. C’è una donna giovane e brutta, con un muso da maiale, a cavalcioni sull’asino, i capelli scialbi disfatti dalla guazza, in compagnia di un riformato dal viso tetragono che la precede a piedi, a capo scoperto, con la barbetta a punta da capra, e la bibbia foderata dentro il mantello.

Tra loro John Dowland. Il XVI° secolo sta per tirare le cuoia, anche Dowland, il più grande liutista della terra, prigioniero della strada e della pioggia. Ha un grande cappello con larghe falde sulla testa, la pioggia ci gioca sopra e si rovescia a tratti nel fango del viottolo, come da una sorgente sbuffante, come da una grondaia garrula. Sbuffa ed ansima anche John Dowland, oppresso dall’idea della morte, dall’immenso fiume di lacrime che scivola dalle gote del cielo. Oh semper Dowland, semper dolens. Ogni goccia è una tortura, ogni singola goccia, un ostinato battere. Scoccasse la folgore, qui tra questi alberi lungo il sentiero, salisse per la via e incenerisse l’anima nera e malinconica dell’artista depravato. Ma non teme così la vita chi non teme così la morte, e intanto il liuto panciuto, leggero, il più bel liuto di Bologna, con la bandora più piccola e una vihuela spagnola, sprezzante pure se stonata, sta chiuso in una cassa caricata sul mulo, e soffre, soffre, con i suoi musici amici soffre l’umido che si insinua sotto la mantella di cuoio e l’altra in pelle di vacca. Previdente, lo ha avvolto con una stola di giaguaro, regalo di un nobile che ha amato accanto al fuoco di un caminetto. Un amore proibito che ora lo sconvolge in un quell’oceano che s’è fatto il cielo e la terra. Lacrime, lacrime sulla sua anima nera e viziosa. Farewell.

Addio, addio, che può esserci ancora celato tra le vibrazioni allusive degli intestini d’agnello tesi su una tavola di pino. Immagina il sangue di un animale vergine, sventrato, la linfa di un albero che spilla da un tronco che verrà piallato senza pietà. Anche il suo strumento così non è che una morta natura che dorme senza sogni in una cassa, e ora oscilla tintinnando sgraziato. Allunga l’orecchio per cogliere la vibrazione. Forse no, forse non sogna, si lamenta. E’ vivo e morto quanto lui, anima senza pace. Lacrimae lacrimae, pioggia pioggia senza pace. E, previdente, tutto intorno alla pelle maculata ha disposto i suoi manoscritti, quelli terminati e pronti per la stampa, i moltiplicatori della sua malinconia, e della fama che lo lusinga e lo bracca come una animale selvaggio. E intorno ancora ha stipato la carta con i suoi pensieri musicali abortiti e altri scartafacci che potrebbe riempire, se non piovesse così sulla sua vita, di note. Non è tranquillo, spia i rigagnoli dell’acqua che scorrono sulle mantelle che ha steso sulla cassa.

Quell’acqua è mortale, trovasse la strada per intrufolarsi, il liuto morirebbe. Ma adesso un nano, gli sembra l’ultima malinconia della giornata, a cavalcioni dell’asino più grosso, spunta dal gruppo, accelera nel fango e conquista la testa della spedizione, e ne diventa il leader. All’improvviso alza le mani, senza proferir parola udibile al più fine orecchio ( e quale fine e nobile orecchio è mescolato all’inesausta brigata ), dalla manica lercia del saio fradicio che lo copre spuntano dita deformi, volteggiano nell’aria in quel modo goffo proprio dei nani, sembrano quasi danzare, ma anche indicare qui e là.

Adesso è chiaro anche per Dowland, la voce corre tra i viandanti: “Per grazia di Dio un’osteria a pochi passi di cammino conforta i pellegrini, qui dritti e poi per que-sta via traversa”.

E infatti si sbuca ad un incrocio. In un marasma di fango e pozze d’acqua, di fatto esattamente al centro, si erge un palo ad indicare la via: di qua per Oxford, di là per… prodigio! un minuscolo gatto o forse donnola, col pelo rosso ruggine, spunta da un lato, si lancia su una pozza e lambisce l’acqua con una lingua che sembra una scintilla. Alza la testa, e fissa temerario la piccola folla macchiata di pioggia. E’ inevitabile provare un brivido. Fa un balzo e sparisce. In direzione per Oxford. Si sceglie senz’altro l’altra strada, si va per l’osteria.

Ho visto il diavolo, e non è la prima volta” pensa Dowland e a noi è lecito ipotizzare che non sia il solo. Oxford ora aspetterà, impensabile azzardarsi per quella via per la quale il diavolo già marcia sinuoso ( alla prossima tappa, per il viandante che osasse temerario seguirlo, la donnola si trasformerebbe in una donna bionda, col seno nudo, turgido per la pioggia ).

La compagnia ora comincia in modo impercettibile a sciogliersi, da quell’unico corpo che un attimo prima appariva. Compare già la sagoma dell’edificio scuro, col tetto che fuma, la grondaia allegra, garrula d’acqua che scorre giù per un canale e poi sparisce ingoiata in una fessura di pietra, laggiù nella cisterna. Ora la comitiva si spezza in un disordine fumigante, sul viottolo che si restringe la sciagurata insolenza di sempre: chi ostenta una spadino può passare per primo.

E’ sufficiente uno sguardo e il gentiluomo franco spagnolo è davanti e già imbocca con la sua povera cavalcatura la stalla. Il nano è l’ultimo e soffia le sue bestemmie, ma piano perché il riformato, impassibile, è accanto a lui. Dowland reprime l’ansia di primeggiare, primeggiare sempre, dall’infanzia. Ma ora può farlo, gli si forma una smorfia al lato delle labbra mentre, la mano nella tasca, palpa il sacchetto pieno di ducati. Il mondo è volgare, e lui, volgarmente, ne ha la chiave. Può lasciarli scorrere tutti, troverà una pergola anche per il suo somaro, e il fieno.

A lui, al riparo, va benissimo un angolo buio, e non fa il difficile se non è proprio pulito. Ma avrà il vino migliore, e selvaggina, e il pane bianco, e l’indifferenza accorta e rispettosa di tutti. Ad uno ad uno vede i pellegrini sparire chi nella stalla, chi in certe botteghe affumicate ai lati dell’osteria, chi, come il nano, quasi rotolasse sulle gambette, dritto e diretto alla canna della botte, a succhiare il sangue come un pidocchio d’inverosimile dimensioni.

Dowland ha il tempo di guardarsi intorno: l’osteria è modesta, si vede che i padroni succedutisi nel tempo ( sempre così in queste terre misere, pensa, chi può resistere a lungo? ) hanno ingrandito in modo disordinato il nucleo centrale con celle irregolari, dove si immaginano, oltre i muri sforacchiati di muffe e radici che li scavano, cubicoli popolati da puttane pidocchiose, giacigli sporchi dove si ammassano viandanti ubriachi, strozzini ebrei ossuti e abbarbicati alle bisacce e al coltello che fanno scintillare ( sottratto con l’inganno ad un nobile, si sa, a un giocatore incallito ). Palpa i ducati silenziosi chiusi nel sacchetto di pelle: per lui troveranno un angolo discreto, e i ladri staranno alla larga, e anche le puttane. Confida sul suo spadino, il suo vero angelo protettore. Ma ora può darsi che spiova. John osserva la cappa grigia che fascia il cielo su di lui, piega le labbra, cerca un sol come fa quando accorda il canto del liuto, e fischia. Dalle falde del cappello di cuoio si abbatte un rovescio d’acqua, ed è attraverso quello che gli appare. Gli appare di colpo, rapido come un tempo di giga, sembra già che sia esistito da sempre, ovvio come il pianto del temporale. Sa già di mallo di mandorla, umido e poco amaro, addentato un giorno in un giardino. Il bambino sguazza nelle pozzanghere e ride, impercettibilmente, mentre accorre al suo fischio, per tirar via l’asino del più grande liutista del mondo al riparo della stalla. John osserva il bambino col viso di sbieco e leggermente inclinato ( è così che lo tiene mentre suona, serio, gli occhi fulminanti dritto negli occhi di chi lo ascolta), ma ora tra le ciglia gli si sono impigliate lacrime di pioggia che domani fioriranno sulle intavolature dei più nobili incisori. Per ora è solo un attimo, il balenare luminoso di questo bambino scalzo, con i polpacci che sguazzano, i capelli castani disegnati dalla pioggia sulla testa perfettamente tonda. L’asino scrolla le lunghe orecchie mentre il bambino lo porta via. E così al grande liutista sembra portato via un dente, una costola, qualcosa gli viene lacerato e sottratto dal bagliore del polpaccio che la pioggia amplifica. Per questo schiocca ancora le labbra a trattenere il ragazzo e nel palmo fa comparire una piccola moneta brunita, una moneta bambina. Con le dita affusolate che hanno fatto tremare l’anima di depravati cardinali, di tetragoni e cupi principi riformati, fa ruotare su e giù la moneta sotto il sorriso del bambino che abile l’afferra. E ringrazia, la voce sottile che gli vibra nella gola madida. E si allontana, e più volte si gira mentre l’asino, che sente la paglia ed assapora l’asciutto della stalla, la cosa che più desidera al mondo, raglia e sospira. I corti calzoni rappezzati troppo larghi per quel corpo così minuto portano via l’ultimo amore di Dowland. Ci sarà tempo, dovrà esserci tempo, qualcosa dovrà pure bucare la tetra malinconia dell’artista. Rabbrividisce e osserva il cielo. Il tragitto è stato lungo e faticoso, incessante il temporale. Come l’asino, pensa, è ora di darsi a ciò che il corpo più desidera al mondo: s’avvia verso l’asciutto tepore dell’ostello.

Già prepara un’altra piccola moneta per il ragazzo che spingerà la seggiola a un desco adeguato al suo rango. E invece, come ha varcato la soglia della casa che lo accoglie buia e fumosa, lo sfiora una pelliccia. E’ sorpreso e d’istinto gli cade la destra sull’elsa della spada. La figura che l’ha sfiorato esita: è minuta e dritta sulle gambe, eppure non è del tutto umana. Ora s’avvede che è una donna, una ragazza esile, ma ricoperta di una insolita peluria persino sul viso, anzi una vera pelliccia, che tende al rossiccio. L’animale-ragazza sa bene la reazione, dà all’ospite giusto il tempo d’intendere e d’intuire. Solleva le braccia sottili foderate di peli castani, che sfiorano l’artista mentre lo spogliano del mantello ormai fradicio. Dowland toglie il cappello e accenna ad un inchino. L’ animale-ragazza è seria, non sorride, accenna un goffo inchino e trascina via gli indumenti dell’artista, senza girarsi, chiusa nell’odore ferino della sua bizzarra natura menomata. Il vino, un vino che si immagina torbido e limaccioso ha già preso a scorrere tra le panche che circondano quattro o cinque modeste tavolate. Mescolati in apparente disordine rispetto alla sequenza che tenevano sotto il bordone della pioggia, Dowland scorge i suoi compagni di strada. Il tossico veleno che riempie rozzi boccali di legno scalda e ammorba gli umori naturali di quella gente. Persino il riformato addolcisce il grugno impassibile in una smorfia da ebete, e così non può vedere i grandi cucchiai di fagioli sfracellati che la donna-maiale a cui è accoppiato si ficca nella bocca. Né può vedere come gli occhi piccoli e acuminati della donna impudicamente si impiglino qui e là sulle forme dei servi che rimestano il vino nelle brocche. L’ebreo invece è soddisfatto e rutta incurante delle tre puttane che gironzolano tra i tavoli sbocconcellando tozzi di pane in un scia di odori muffosi e ripugnanti.

Dowland si avvicina al camino: più tardi, se ne avrà voglia, farà ballare tutti al ritmo di una giga. Ora gli basta fare un cenno col palmo teso della mano ai due ragazzetti ( uno è il suo nuovo amore, Ben, sente che lo chiamano Ben, Ben il suo nuovo insperato amore!) che ritornano dalla stalla con il suo prezioso bagaglio. Piano, qui delicatamente, così indica la sua mano sottile.

Le due casse che fanno il suo bagaglio sono deposte al suo fianco. E Ben si accuccia accanto a lui e gli sorride docilmente. Gli dà subito un ordine per metterlo alla prova. Vuole una seggiola, mangerà pochi bocconi di lesso accanto al fuoco, se Ben gli porterà una seggiola e uno sgabello dove poggiare alternativamente lo stivale e il piatto. E poi una brocca d’acqua, ma che sia fresca e non limacciosa, e che non sia la brocca da cui beve il gatto, suvvia Ben, la brocca.

Stai qui, stai qui, ragazzo. Non vuoi sapere che cosa c’è in quella piccola cassa decorata e tutta chiusa dal cuoio? Non vuoi, Ben? Ma il tramestio frusciante e il bisbigliare del liutista più famoso della terra non passa i-nosservato, né alle puttane, che sputano innervosite sull’impiantito coperto di segatura, né all’oste che fa un cenno con l’indice all’animale-ragazza.

Lasciami, Margaret, piagnucola Ben. John Dowland alza un sopracciglio e fa cadere una moneta lucente sul palmo dell’animale-ragazza. E, sorpresa! scopre che il palmo è privo di peli. Ben serve un signore rispettabile, soffia Dowland, sottile come una serpe, dritto nell’orecchio dell’infelice Margaret. E da quale altra sorpresa il liutista è colto nell’osservare il piccolo e delicato orecchio ricoperto da una fitta pelliccia che l’animale-ragazza nasconde sotto una chioma fulva odorosa di rosmarino. Margaret non sa che fare, lancia un’occhiata all’oste, e intanto chiunque può vedere che gli brilla la moneta tra le mani. L’oste la richiama, ormai tranquillizzato, e tutti, mescolati al fumo d’alcol e di legna umida, possono riprendere il pasto e caricarsi d’indifferenza, il cliente ha pagato con una buona moneta d’argento un servizio esclusivo. Ma Margaret ancora tentenna, non riesce a staccarsi, anche se l’oste si sbraccia perché vuole la moneta, e subito. Margaret osserva la cassa, è curiosa e forse ( quante ne avrà viste di simili ) sa già cosa contiene, e vorrebbe stare ancora lì. A fatica si stacca e consegna il dovuto al padrone. Ma non può levare gli occhi dalla coppia che sta ora isolata e parlotta nel calore e nella luce del camino, mentre lei è costretta a versare il vino nei boccali. Tende le piccole orecchie graziose che hanno così stupito il grande maestro, e lancia infelici occhiate. Non ode una parola nella confusione dei mestoli di legno che si abbattono sui fagioli e dei boccali di coccio fetidi di feccia. Quasi piange in silenzio come le è solito dall’infanzia, e quando si passa il dorso della mano, con un gesto inavvertito e abituale, sulla bocca e sul volto, piccole gocce rimangono impigliate come minuscole perle alla pelliccia castana che corre sino alle dita. Alza ancora gli occhi nell’atmosfera fumigante. La luce diurna sui campi d’Inghilterra sta lentamente spegnendosi, le scialbe meridiane si abbandonano al buio, il pianeta ruotando su se stesso s’oscura. Da un pezzo le imposte sono scure e le lanterne avvolgono ogni cosa di fumo e luce rossastra. Le ombre si moltiplicano confuse e deformate, e anche il liuto, che Dowland ha estratto dalla custodia, triplica per un attimo la sua enorme pancia sulle pareti prima che il maestro lo imbracci. Ora lo tiene saldamente contro di sé, lo forza ma non lo sforza come vorrebbe con il suo piccolo Ben. Lo tasta e lo prova, ma deve accordarlo. Tende i piroli e saggia gli intervalli. Il liuto singhiozza, si scrolla di dosso il sonno angoscioso dell’acqua che lo opprimeva da ogni lato, i suoni ora alti ora bassi sembrano inseguirsi, disarmonici e balbettanti.

Ma ora è pronto, suona e subito canta. Il piccolo Ben sorride, trema dal piacere che prova per il dono, questo Ben l’ha capito, che il signore gli fa suonandogli il liuto. E’ un emozione che non aveva mai provato: i piccoli e angelici squilli del liuto capovolgono la realtà, annullano il marasma e il chiasso che hanno oppresso le orecchie di Ben, sono più forti. Fluiscono gli armonici, lavano via gli stracci che coprono malamente lo sfortunato bambino, sulla pelle nuda del piccolo i lividi si sciolgono, e le sferzate. Si torce le mani, tende gli avambracci, li stringe tra le gambe, sgrana gli occhi, si lascia prendere dagli occhi neri, dallo sguardo profondo del liutista, e poi li distoglie, e poi è ancora preso. Il preludio si inerpica sul cantino, si abbatte sul bordone, e Dowland ora canta. Flow my tears fall from your springs, exilde for ever. Let mee mourne where nights black bird hir said infamy sings
La musica cresce di volume, occupa tutto lo spazio, raggiunge ogni angolo della stanza: da quale spiraglio della vita penetra e s’impone all’attenzione di quella combriccola di esseri volgari, distraendoli dal miserabile desco su cui pasteggiano? Conquista l’attenzione e il silenzio, rivela la vera natura degli uomini: il nano non beve più, l’ebreo allenta le corde della borsa e schiude le labbra sottili a forma di O, il riformato russa mentre la sua compagna dagli occhi porcini si sfiora il seno piccolo e irregolare. La pelliccia della ragazza-animale-Margaret si copre di piccole gocce di sudore, ha il viso stravolto, strofina i boccali a testa china e copre gli occhi con lo straccio. Indistinti commensali nell’ombra oscillano la testa e poggiano i boccali con insolita delicatezza, e persino il nobile franco-spagnolo perde parte del suo sussiego, si alza dalla panca e abbozza un bizzarro inchino sventolando il largo cappello macchiato dalla pioggia che s’era tenuto in testa, solo l’oste continua a contare le monete. La canzone all’improvviso finisce e il desiderio di Dowland vibra tenue e grave nell’ultima corda del liuto, s’adagia sull’onda calda che soffia dal camino, lambisce le labbra morbide e rosse, socchiuse per la sorpresa, del piccolo Ben, l’apprendista stalliere. Dowland ora gli sorride. Vuoi vederli girare come delle scimmie, Ben?

Il liuto s’anima di colpo, imperioso detta legge al tempo. La giga che il liutista suona provoca una danza improvvisa e sfrenata a cui nessuno può sottrarsi: ombre animalesche si intrecciano sulle pareti dell’osteria, si accoppiano selvaggiamente, eppure sempre d’uomini si tratta che nel mondo reale dei corpi battono le mani, si sfiorano appena senza toccarsi davvero.

Ma non così, non così per chi dal basso della sua piccola statura, dal punto di vista del nano, anzi per il vero ancora più in basso poiché siede appoggiando la pancia piena di vino al suolo, così in basso osserva la scena: le ombre si intrecciano, si sovrappongono, creano forme fantastiche di animali a tre teste con sei braccia e altrettante mani che ingigantiscono nella frenetica danza, si poggiano su fianchi enormi, calano come schiaffi su sagome ipertrofiche. Ben ride, ride, non può smettere di ridere, mentre Dowland gli strizza l’occhio e cambia ritmo: una severa pavana costringe la compagnia ad una serie infinita di inchini e riverenze, a Ben sembra una processione di Orsi nella foresta intontiti dal letargo. Ma poi sull’onda della gagliarda la donna-maiale si lancia con una furia insospettata, afferra la gonna a piene mani e mentre la strattona soffia come un cinghiale mostrando insospettate gambe e cosce tornite. Il grande liuto ape-regina guida la danza di quello sciame, ora una saltellante allemanda e una sfrenata e disarticolata sarabanda, e quando il maestro infila la corrente i ballerini danzano in tondo tenendosi per mano. E nessuno ha tempo per osservare Margaret che non ha lasciato la sua postazione accanto all’oste. Da un pezzo il suo pelo è un insieme di chiazze madide, qui e là dei ciuffi sembrano asciutti ma appaiono dritti e tesi in modo innaturale. Ha il volto disfatto da una ressa di emozioni che non riesce più a comprimere, da un po’ muove le dita impellicciate mimando sgraziatamente i gesti sapienti del liutista, alza il mento e schiude la bocca. Finché, quando la musica cessa di colpo, con uno strappo secco sulle corde, che è una parola d’ordine per quell’esercito di matti, e tutti i ballerini cadono di colpo, chi sulle seggiole chi direttamente a terra, come se il vento li avesse lasciati di colpo a se stessi, in quell’istante brevissimo che precede le rida e gli schiamazzi, la gola di Margaret si contrae, le è impossibile evitarlo, così di seguito la bocca si apre, rovescia gli occhi e lancia un verso.

E’ un suono così improvviso e penetrante, animalesco e inarticolato, quasi un muggito ma più acuto. Quando l’infelice si accorge di sé, lo strozza in un raglio. Non c’è nessuno che possa trattenere, dopo l’iniziale sgomento, uno scoppio irrefrenabile di risa, che non cessa anzi aumenta quando il nano, rotolandosi dal ridere, imita il verso. Persino il maestro solleva un sopracciglio e piega la bocca amara. La derisione generale si abbatte sulla ragazza-animale con la potenza di un dardo o di una mazza. Oscilla su se stessa, sotto gli occhi indifferenti dell’oste che ha poggiato la guancia sul pugno chiuso e ha solo voglia di andare a dormire. Ma si controlla, si controlla, è scossa a tratti da fremiti, si è un po’ incurvata ma ha ripreso il suo inutile lavoro ( ora è chiaro ) su quei boccali incrostati. Il chiasso si spegnerà, pure le risa, la notte chiama al sonno e i commensali vanno infatti a raggiungere uno dopo l’altro i loro giacigli. Anche Ben sparisce e Dowland è l’ultimo a lasciare la scena. Si alza con una certa scontentezza nel cuore. I facchini gli han già depositato i bagagli nella sua celletta dove potrà riposare, se potrà, e sa già che non potrà. Si alza e osserva la sala immersa in un disordine irreale. Sulle pareti le ombre continuano a danzare selvaggiamente, anche ora che la sala è vuota e la musica del liuto tace. Una nidiata di demoni lo accompagna da sempre, fa da sfondo alla sua vita. Lo stare là, impalpabili come ombre, è la loro sottile perfidia, poiché Dowland sa bene che un giorno verranno a prenderlo. Istintivamente gli cade la mano sull’elsa dello spadino, prima di infilare l’oscurità del corridoio. Con l’altro braccio avvolge la pancia fragile del liuto e avanza. La luce è poca e a metà del cammino, ad una svolta, il buio lo avvolge interamente. Perché non ha trattenuto Ben con sé?

Lo avrebbe guidato con una lanterna, avrebbe potuto contemplare la sua nuca nell’arco di luce saltellante. Muove ancora qualche passo, tastando il terreno. O morte, tenebra infinita.

Stringe a sé ancora di più il suo prezioso liuto, le doghe leggere della cassa quasi scricchiolano coinvolte loro malgrado in quella tensione lugubre che fiacca il loro padrone. Ora tende davanti a sé il braccio con la mano aperta. Una corrente sottile e fredda lo raggiunge da uno spiraglio invisibile. Il silenzio innaturale lo circonda, una punizione d’inferno, previsione del suo domani, così pensa. Lo circondano nell’incubo liuti di fogge diverse e diverse dimensioni: liuti francesi piccoli e sinuosi, liuti tedeschi tristi e grigi, eleganti liuti di Bologna, gigantesche bandore alte come alberi di cui le corde non sono che rami diritti. E tutti quegli strumenti tacciono, le corde visibilmente allentate oscillano al vento freddo e pungente, senza produrre suono di sorta.

E i caviglieri, dove le corde si intrecciano e si aggrovigliano a centinaia e in certi grandi e mostruosi liuti a centinaia di migliaia, rivelano fogge demoniache che strabuzzano gli occhi, piegano le labbra orribilmente, a volte paiono visi anneriti di marinai, che nulla promettono di buono, col viso scheggiato, il naso o le orecchie perforate dai lunghi piroli delle corde.

Niente di più inquietante, sinistro o ridicolo quanto una danza priva di musica che l’accompagni, e così uno strumento musicale che, pure scosso, pure se occasionalmente e casualmente scosso, non produca alcun rumore. La corrente d’aria fredda cessa all’improvviso, e questa assenza lo distoglie dalla sua fervida fantasia. In fondo al corridoio oscilla una piccola luce che gli viene incontro. E’ Ben! il suo piccolo Ben che viene in suo soccorso con un piccolo lume. Il piccolo sorride mentre Dowland lo accarezza sul collo e sulla nuca. Conducimi, Ben, portami in salvo. Ben s’avvia in un labirinto oscuro di svolte e di scale. Il pavimento ora sale ora scende, a volte sembra scabro e irregolare, e a Dowland sembra di percorrere un lungo intestino, il ventre di un animale mostruoso. Eppure deve in qualche modo ingannarsi: come può una costruzione, apparsa di giorno, sotto la pioggia, così modesta, risultare di notte smisurata al suo interno? Ben socchiude all’improvviso davanti a lui una porta, e apre la cella che l’oste ha preparato per il suo illustre ospite. Una modesta luce vi brilla, quanto basta per avere cognizione di uno spazio dove l’angoscioso desiderio di Dowland, un lago intero scuro e notturno, tracima violento e improvviso, incontenibile, rabbioso, ansimante. Il liuto cade rovinoso e squilla, è tanto che non si spezzi. Ben è afferrato per le spalle, non ha tempo che di avere paura, paralizzato dalla forza devastante che su lui minaccia di straboccare. Le mani convulse, quelle stesse mani che affusolate accarezzavano angelicamente le corde poco prima, strappano i calzoni del ragazzo che ha dovuto mollare il piccolo lume. E questo cadendo sbieco affoga lo stoppino nell’olio, e smorza la luce. Ben geme, ma non c’è spazio: su di lui preme la grande figura del maestro. Che con la sinistra furiosamente sbottona gli eleganti calzoni per estrarre il suo lungo coltello. Nella furia ha appena il tempo di percepire il bagliore della carne messa a nudo contro cui ora allunga la sua verga nera.

Signore, che accade, demonio che fai? Il cuore si impenna, e allenta la presa stretto dall’angoscia. Potrebbe darsi che siano, i suoi occhi, semplicemente ingannati dal tenue gioco delle fiammelle che affumicano l’aria. Eppure questa è la visione: contro quella pelle bianca e luminosa il suo coltello è apparso più nero della pece più nera dell’inferno. Già lui è insinuato dal demonio, che stia già trasformandosi in demonio? Lo lascia, lo lascia di colpo, e Ben che sente allentarsi la stretta ritrova se stesso, tira su i calzoni piangente, fugge via dalla stanza.

Trambusto, confusione, un sudore freddo percorre la schiena di Dowland, e allora si raffazzona alla meglio, raccoglie il piccolo lume di Ben, in preda alla paura ( la forca, la forca, ricordatelo, John Dowland ) e corre a inseguirlo, a calmarlo, ucciderlo, perdio, ora che lo afferra una rabbia cieca e stringe convulso lo spadino. Sale, scende, gira, fiuta l’affannosa corsa della preda, la scia di lacrime e di singhiozzi, di passi e colpi…sveglierà la casa, mi scopriranno! Ora desiste, e il ragazzo con la sua onda sonora di umiliazione e di paura scompare nell’ombra. Nessuno è in vista e nessuno potrà raccontare alcunché. Può tranquillizzarsi, sfiora la borsa dei ducati sonanti, torna indietro. A ogni passo si calma sempre più, ritorna in sé, ritorna nella sua malinconia.

E così si accorge finalmente che la casa è piccola, e non c’è nessun labirinto davanti a lui. La sua cella è dietro l’angolo, la fioca lucetta che la illumina lo richiama facil-mente e senza fatica la raggiunge. Si chiude dietro la porta, poggia il lume di Ben, si guarda in giro. La prima cosa che nota gli sembra persino ovvia, gli sembra di averla come dire sempre saputa: il liuto è scomparso. Farewell. Era un bel liuto di Bologna. Al diavolo. Chiude la porta della cella. Può averne quanti ne vuole, di tutte le fogge che crede, e quindi al diavolo. Dovrebbe dare importanza ad un pezzo di legno digrossato da un artigiano? Lui è un artista, sulla punta dei suoi polpastrelli si raccoglie, quando vuole, quando canta, la sua anima grande, vasta. Ai mediocri i liuti intarsiati, i liuti pazzescamente inchiavardati, decorati da infiniti ponticelli che non portano da nessuna parte se non li anima un grande. E lui lo è. Farewell, quindi, a buon rendere la dolcezza del suono del suo liuto migliore, il suono rotondo e caldo del mezzogiorno. Qualcun altro se lo goda, da stolto, oltre che da ladro. Le sue mani potrebbero percorrere la tela di un ragno e farla suonare. E mentre lo pensa, apre uno dei suoi bauli, ed estrae la piccola vihuela spagnola. La cassa piatta e rigida risveglia la nostalgia della curva del liuto panciuto. Traccia due note, ma lo strumento è del tutto scordato. Disarmonico ed arrogante. Se devi spuntarla tu, nel futuro, pensa, allora davvero Farewell. Addio al liuto e anche al suonatore. Eppure… chi può avere “ereditato” il suo liuto, spoglio s’intende della sua arte? Mette via la vihuela: ora comprende. S’insinua una angoscia fredda e lucida, quasi calma: chi ha rubato il liuto ha assistito alla scena, e forse neppure passava là per caso. Pensa queste cose mentre si sfila gli stivali. Ben, ragazzino, avessi portato un po’ d’acqua calda ad uomo stanco. Pensa proprio questa parola, uomo. Quasi la pronuncia.

Ora che nessuno può vederlo, deposta la vihuela, privo del suo liuto, distratto, banale a se stesso, ripetitivo, maniacale, non è che un uomo. I piedi arrossati, madidi, hanno fatto svanire l’arte.

Lo assale una stanchezza ovvia, che lo costringe al giaciglio. E la forza delle cose lo costringe a sdraiarcisi. A dormire. Dormire. L’Io del più grande liutista della terra per un po’ svanisce, per riapparire a tratti in un improvviso fremito delle membra, nella palpebra che svela di colpo l’iride, nell’occhio fisso. E poi di nuovo svanire. Per lunghi tratti di tempo non se ne sa nulla. Dell’Io nessuna traccia, sparito proprio. Neppure di quell’Io dislocato, quell’io differito, in trasferta, quasi irrigidito come un mimo in uno spettacolo di saltimbanchi, che occhieggia dalle sigle delle intavolature ( il baule è aperto, e i fogli di musica spuntano fuori ), quell’io di carta macchiata d’inchiostro, neppure di quello può dirsi nulla. Soltanto un poeta, tra i più pedanti, potrebbe conferire con quell’io cartaceo, considerarlo sul serio presente, forse percepire l’Io forte e tenue dell’artista che svolazza sfiorando le corde degli strumenti, gli strumenti anch’essi in riposo, in sonno…ci vorrebbe una dose di romanticismo, nel secolo di Dowland purtroppo assente. Il liutista si gratta un fianco si gira più volte, un po’ russa e un po’ parlotta. Sogna certamente,
ma non sappiamo dei suoi sogni, e neanche a lui, al risveglio, sarà dato di ricordarli. Ed è già mattina, e quel risveglio è adesso. Dowland si sveglia di colpo, si alza sul letto.

Quella faccenda sta ancora lì con lui, sparita con l’Io, è ricomparsa: il liuto no, quello è proprio svanito. Raccogliere le idee è un attimo, la scarsa igiene del tempo anche l’aiuta, ed è subito in piedi. Aggiusta il farsetto e riflette il suo volto in un piccolo specchio francese. Si tira la barbetta rossiccia. E’ già mortalmente triste. Tira via un’imposta: una vecchia pergamena sdrucita separa la campagna grigia, dilavata, dalla cella del più grande liutista di ogni tempo.

Il trambusto, o meglio uno scricchiolio diffuso, rivela il rianimarsi dell’osteria. Gli fosse ancora data l’infanzia. Ricorda benissimo la quiete dei campi, in lontananza macchiati di greggi silenziose, e lui chiuso nella musica, col piccolo liuto che gli ha donato il padre. Di nient’altro ha bisogno, seduto nell’erba, di nient’altro che della musica. Nient’altro, nient’altro… e quasi piange di rabbia mentre gli bussano alla porta. Ma non apre perché attirato dallo spettacolo che gli offre la finestra. E’ combattuto: qui bussano piano e ribussano ancora, ma di là lui osserva Margaret. Qualcuno, non sa dire chi, la tira via con una cavezza, quasi fosse un’animale. La bocca della ragazza-animale si contorce, ma Dowland non sente alcun suono articolato, né un ringhio o un muggito. Ancora bussano, piano, e la ragazza è tratta in ginocchio, le strappano la veste lurida e sul mantello che le ricopre la schiena si abbatte ( e questo lo sente ) un frustino. La battono selvaggiamente. Ben! nella stanza il ragazzetto. Ha il viso annuvolato, non ha più voglia di ridere. E’ venuto a prendere i bagagli, e a un cenno leggero del maestro se li tira via per il corridoio. Il maestro lo segue, lancia l’ultima occhiata alla finestra, si chiude dietro la porta. Nel refettorio, grande e osceno, quasi gonfio, sul tavolo centrale, giace il suo liuto. A Dowland non tocca che raccoglierlo, avvolgerlo nella pelle, riporlo stancamente nel baule più grande, donare una moneta all’oste sussiegoso, che in una selva di inchini si scusa per il furto maldestro. Farewell. I fatti, ora, ammettiamolo, dilagano sconnessi, si sovrappongono, evaporano, si diluiscono. La carovana perenne del liutista riprende il cammino, e ancora il nano, vinta la sbornia, la può guidare e il riformato in coda saggiamente conchiudere. E il frustino cadere, ancora e ancora, sulle spalle di Margaret, che, a occhi chiusi, non può che prenderli e tacere.

mercoledì 26 novembre 2008

Arturo Tallini e Eugenio Becherucci: H. Lachenmann: Salut für Caudwell

Arturo Tallini e Eugenio Becherucci: Sylvano Bussotti "Ultima rara" per chitarra e voce recitante

Iper-strumenti



Quando si parla di iper-strumenti non si fa riferimento ai nostri comuni strumenti migliorati bensì a nuovi strumenti, evoluti.
Per fare musica l’uomo da secoli ricorre a interfacce, a corpi esistenti in natura o da lui stesso costruiti: nel caso degli iper-strumenti l’interfaccia è rappresentata dallo stesso corpo umano, attraverso l’impiego di dispositivi gestuali touchless.
Il Cnr di Pisa lavora da anni al miglioramento di questa tecnologia, in particolare tramite il lavoro svolto da Leonardo Taraballa, che si preoccupa di rivelarne il più possibile il lato artistico.Gli esempi del loro impiego sono diversi: il Palm Driver, una tavoletta a infrarossi che tramite il gesto è in grado di plasmare il suono. Una curiosa barra di plexiglass: il suono viene regolato tramite le angolazioni che si fanno assumere alla barra nello spazio, con i movimenti letti da una lampada Uv.. Il pianoforte immaginario: i movimenti delle mani del musicista vengono rilevati da una normale videocamera e i suoni del pianoforte elaborati dal computer. Piccolo particolare: il pianoforte .. non c’è. Ovviamente non ci si deve aspettare una riproduzione così attendibile del suono originale né di potervi eseguire tutto il repertorio conosciuto: l’obiettivo è quello di esplorare nuove possibilità sonore. Pensate solo al cambiamento nella spazialità: le macchine ci consentono di decidere da soli a quale gesto e a quale luogo nello spazio assegnare un suono.. un iper-strumento è quindi uno strumento dinamico, con possibilità di taratura sonora pressoché infinite, in base alle necessità dell’artista e rivalutandone e ampliandone il ruolo dello spazio nella performance musicale.


Empedocle70

martedì 25 novembre 2008

MILONGA DE LOS AFICIONADOS


IL TORCHIO

presenta
MILONGA DE LOS AFICIONADOS

Venerdì 28 Novembre

h.22.00
presso

SpazioTorchio

via colonnello Aliperta

Parco degli Aromi

Somma Vesuviana (NA)

Ahead in the Sand (Fred Frith, Cover by Paolo Angeli)

Antonello Salis live in Sassari

"Sul tocco appoggiato" articolo del maestro Mauro Storti sul Portale Chitarra e Dintorni




L'impiego della parola "impostazione" riferita alle mani, ha spesso generato gravi fraintendimenti. Se infatti essa si addice alla postura del corpo e alla sistemazione dello strumento in quanto elementi pressoché statici, male si adatta a due elementi mobili per eccellenza quali sono le mani. Occorre dunque bandire l'idea che le mani debbano assumere e conservare una determinata postura fissa che avrebbe il merito, secondo alcuni, di garantire funzionalità e sicurezza, per porre invece in primo piano la ricerca delle azioni dinamico-gestuali più idonee a ricreare la realtà sonora dell 'opera musicale in tutta la sua pienezza formale ed espressiva.....................

lunedì 24 novembre 2008

My American Rhapsody, the Early Years

ken camden playing some robbie basho at home

III Festival Internazionale di Chitarra Città di Monterotondo


Venerdi 28 Novembre

con il II Concorso di Liuteria Palazzo Orsini, avrà inizio il

III Festival Internazionale di Chitarra Città di Monterotondo

Gli appuntamenti di questa settimana:

Venerdi dalle ore 11.00 prove del concorso di liuteria - premiazione la sera alle 21.00 Monterotondo, Palazzo Orsini

Sabato dalle ore 10 alle 14 a Roma presso Insieme per Fare (via pelagosa 3) Expertise e Valutazione Gratuiti di strumenti musicali ad arco e a pizzico a cura di Claudio Amighetti docente della Scuola Internazionale di Liuteria Stradivari di Cremona

Sabato alle ore 21.00 a Monterotondo nella Sala Consiliare di Palazzo Orsini, recital di Irina Kulikova, vincitrice del Concorso Internazionale M. Pittaluga di Alessandria 2008

Domenica mattina alle 11.00 in Sala Rodari a Monterotondo prima assoluta di Cajias Sonoras di O. J. Garcia e recital di Chiara Asquini (Conservatorio di Trieste) e Giuseppe Zinchiri (Conservatorio di Sassari)

Robbie Basho: una chitarra in volo sul Raga di Empedocle70



Robbie Basho è una figura di culto nel mondo degli appassionati della chitarra acustica e del fingerpicking. Uomo discreto e silenzioso, poco incline alla notorietà e alla teatralità del mondo musicale è stato un acuto e intelligente sperimentatore per sola chitarra riuscendo a coniare una etno-musica spiritualista che assimila musica bianca, musica nera, musica latina (flamenco) e musica orientale (indiana, persiana, giapponese).
Basho nasce a Baltimora nel Marryland nel 1940 e diventa ben presto orfano, viene adottato da Donald R. Robinson e consorte e cresce come Daniel R. Robinson in una tipica cornice middle class americana. Inizia la sua avventura muscicale dopo aver comprato un vecchia 12 corde da un marinaio per 200 dollari. Viaggia molto, diventa un beatnick e inizia a scrivere le sue poesie e a occuparsi di zen e letteratura giapponese, ed è proprio in seguito alla scoperta di Matsuo Basho, forse il più celebre poeta di haiku giapponese, che muta il proprio nome in Robbie Basho, ora musicista.
Incontra John Fahey nei primi anni 60 che lo introdurrà alla steel string, mentre Max Ochs lo aiuterà a scoprire il folk. Nel 1962 la vera svolta radicale dopo aver assistito ad un concerto di Ravi Shankar: Basho inizi un percorso quasi iniziatico e febbrile, va a caccia dei dischi di Shankar e li ascolta per ore, smette di suonare blues e protest songs per studiare i raga, applicandone gli insegnamenti sulla chitarra attraverso l’uso di accordature aperte, intonazioni particolari e già parla di “esoteric doctrine of color& mood” o di “zen buddist cowboy songs”.
In ogni caso si fa riconoscere come una one man band con le steel a 6 e 12 corde, diventa discepolo di Meher Baba e sarà in queste ocasioni che incontrerà e studierà con Ali Akbar Khan, maestro di sarod e influente quanto lo stesso Shankar. Tra il 1965 e il 1971 inciderà i suoi albums più importanti per la Takoma di John Fahey con la sola parentesi di Venus in Cancer uscito su Blue Tumb nel 1970 e ristampato di recente. Se i primi dischi come The seal of the blue lotus e The Grail and the lotus sono dischi con un sapore ancora acerbo e ruvido, pur celando una selvaggia bellezza, è a partire dai due volumi di Falconer’s Arm e Venus in Cancer fino al capolavoro di Song of the stallion che la poetica di Basho assume un carattere sempre più intenso e torrenziale.
La sua musica, magica combinazione di vecchia america fatta di blues, folk e country con scale modali arabe, persione, indiane non ha eguali ancora oggi, mentre il suo canto tenorile sarà un elemento singolare che qualcun mal sopporterà. La sua musica entrerà in una certa classicità con Voice of the eagle e Zarthus del 72 e 74 incisi per la Vanguard mentre passeranno 4 anni prima che la Windham Hill pubblichi Vision of the country e Art of acoustic guitar 6 & 12 l’anno dopo.
Dopo Rainbow thunder (songs of the american west) uscita per la minuscola casa discografica Silver Label nel 1981 Basho faticherà a trovare nuove case discografiche interessate alle sue musiche tanto che gli ultimi dischi Bouquet e Twilight peaks saranno delle semplici autoproduzioni su cassetta. Nel giro di un paio di anni si ammala gravemente di cancro, fino alla sua morte avvenuta nel 1986 a 45 anni, ufficialmente per la malattia.
Come Fahey, Basho applica un principio caleidoscopico alla propria ricerca creativa, assimilando musica classica europea, musica indiana, giapponese, cinese, medio-orientale, spagnola, forme folk americane, blues, cajun, cercando di tradurre poi il tutto in un proprio stile e in una propria forma poetica e musicale. E’ naturalmente impossibile e antitetico alla sua stessa essenza, poter racchiudere il senso della musica orientale in una definizione di poche righe, Basho metabolizza la musica indiana in modi diversi, talvolta con specifiche forme tecnico-armoniche derivate da strumenti indiani come il sitar o il veena, con l’uso del bordone e delle accordature modali, altre volte traendo dall'essenza del Raga un atteggiamento di estrema spontaneità nella creazione e nell'esecuzione, l'improvvisazione concepita come il mezzo per interpretare ogni volta in modo differente uno stesso 'mood' musicale.
Altro fattore interessante è il tentaivo di combinare le infinite variazioni ritmiche e melodiche della musica Hindu con parti più strutturate armonicamente, costruendo progressivamente uno stile strumentale ed una tecnica chitarristica propri: l'uso dei bassi alternati tipici degli stili tradizionali americani si combina con arpeggi più propriamente classici o flamenco, tecniche che vengono alternate ed evolute sempre in funzione del risultato più specificamente musicale.
Il suo obiettivo era di creare una musica classica per la "steel string guitar" e se il suo intento è rimasto largamente velleitario, è comunque servito a creare i presupposti per una maggior consapevolezza nella generazione successiva di chitarristi

Dimenticato per diverso tempo il nome di Basho è tornato in questi ultimi anni sull’onda di una nuova generazione di chitarristi folk e fingerpicking che hanno preso a modello la sua musica e le sue idee, riproponendo interesse attorno alla sua figura. Nomi come Steffen Basho Junghans, Jack Rose, Glenn Jones e James Blackshaws hanno più volte sia nei loro stessi dischi che nelle interviste sancito il loro debito culturale e musicale con Basho.

Discografia:
Takoma 1005 - The Seal Of The Blue Lotus (1965)
Takoma 1006 - Contemporary Guitar (1966) (antologìa)
Takoma 1007 - The Grail & The Lotus (1966)
Takoma 1012 - Basho Sings! (1967)
Takoma 1017 - The Falconer's Arm Vol. 1 (1967)
Takoma 1018 - The Falconer's Arm Vol. 2 (1967)
Blue Thumb 10 - Venus In Cancer (1970)
Takoma 1031 - Song Of The Stallion (1971)
Vanguard 79321 - The Voice Of The Eagle (1972)
Vanguard 79339 - Zarthus (1974)
Windham Hill 1005 - Visions Of The Country (1978)
Windham Hill 1010 - The Art Of The Acoustic Steel String Guitar, 6 & 12 (1979)
Silver Label 029 - Rainbow Thunder (Songs Of The American West) (1981)
Windham Hill 1015 - Windham Hill Records Samplers '81 (1981) (antologia)
Cassetta autoprodotta - Basho's Best (1982) (antologia)
Cassetta autoprodotta - Bouquet (1983)
Cassetta autoprodotta - Twilight Peaks (1984)

Link

http://www.bcmai.it/tlj/articolo.asp?IDArticolo=437
http://www.bluemomentarts.de/bma/rbasho/en/
Empedocle70

venerdì 21 novembre 2008

Maurizio Pisati Scarlatti's Sonata k141


Projection of the the FILM "Un gioco ardito" by Francesco Leprino and produced by Al Gran Sole.
Watch and listen to Maurizio Pisati's transcription on YouTube or LastFm.• In the film Elena Càsoli plays on her Panormo1846 guitar, at Auditorium di Milano on july 19th 2006, the "translation" by Maurizio Pisati of Scarlatti's Sonata k141
Rovereto-MARTauditorium, PremioBonporti
19-11-2008Milano, Cinema Anteo
23-11-2008Stockholm, Istituto Italiano di Cultura
27-11-2007 h. 18.30Prato, ContempoPratoFestival 2007
10-12-2007 h. 21.00
Messina, Teatro Annibale di Francia 13-01-2008 h. 11.00
Anghiari, Interno Musica 01-02-2008 h. 21.00
Milano, Amici del Loggione - Teatro alla Scala 02-2008 h. 16.00
Lisbona, Istituto Italiano di Cultura 1-03-2008 h. 21.00

H. W. Henze - Drei Tentos; Márlou Peruzzolo Vieira, Guitar

giovedì 20 novembre 2008

Giulio Tampalini - Simona Boni, Sabato 22 Novembre


Sabato 22 Novembre 2008, ore 16.30
Atmosfere liberty e ricordi musicali del primo Novecento

Giulio Tampalini - Simona Boni
chitarre e chitarre-lyra


Intervento musicologico a cura di Simona Boni

L'appuntamento offre una rara occasione d'ascolto con un programma di musiche originali che rispecchiano in modo assai vivace
il gusto raffinato ed eclettico del primo Novecento.

Saranno presentati al pubblico approfondimenti inediti sull'ambiente chitarristico italiano che in quegli anni proprio a Modena trovò un importante centro di riferimento, grazie all'attività di figure quali Romolo Ferrari (Modena, 1894-1959) e Primo Silvestri (Modena 1871-1960).


Protagonisti dell'incontro saranno i concertisti Giulio Tampalini e Simona Boni da tempo impegnati in questo suggestivo repertorio per il quale si avvalgono anche di preziosi esemplari storici originali, come le chitarre-lyra costruite dal noto maestro emiliano Luigi Mozzani, che si affermò
non solo come concertista di chitarra e come compositore, ma anche come liutaio

conferenze-concerto

Appuntamenti con la musica
all'Accademia Nazionale di Scienze Lettere e Arti di Modena

C.so Vittorio Emanuele II, n.59 - Modena


Gli incontri prevedono momenti di esecuzione e ascolto musicale alternati a spiegazioni e interventi di carattere storico-letterario.A conclusione di ciascun appuntamento è previsto un momento di confronto e di dialogo con il pubblico
sulle tematiche affrontate.

Ingresso libero

“Le Lombarde in Musica”: Rose-Marie Soncini, Elena Càsoli e Esther Flückiger Roma 26 novembre 2008

Fondazione Adkins Chiti:
Donne in Musica
Presenta
“ControCanto”
Celebrazioni per il trentennale delle Donne in Musica
(1978-2008)
Musiche da:
Albania, Argentina, Bosnia, Canada, Costa Rica, Cuba, Filippine, Grecia, Italia, Marocco, Messico,
Montenegro, Portogallo, Russia, Serbia, Spagna, Stati Uniti, Turchia, Uruguay, Venezuela

Sala Casella, Accademia Filarmonica Romana
Via Flaminia, 118 Roma
26 novembre, ore 20.30

“Le Lombarde in Musica”
Trio dell’Associazione “Suonodonne”, Milano
Rose-Marie Soncini, flauto,
Elena Càsoli, chitarra,
Esther Flückiger, pianoforte

Musiche delle Lombarde: Beatrice Campodonico, Emanuela Ballio, Caterina Calderoni, Esther Flückiger, Sonia Bo, Marcela Pavia, Barbara Rettagli

mercoledì 19 novembre 2008

Il Torchio vi invita a teatro il 22 e il 23 Novembre 2008


COMIZI
voglio perdere le elezioni

(e per andare sul sicuro mi sono candidato)
di e con Eduardo Ammendola
spazio teatrale IL TORCHIO

22 e 23 Novembre 2008, ore 21:00
IL TORCHIO - SPAZIO PER LE ARTI

via Colonnello Aliperta - Parco degli Aromi

Somma Vesuviana - Napoli
info:
spaziotorchio@gmail.com

Tel. 3337537731 (Mina)

Liuti, chitarre e mandolini a Bergamo domenica 23 novembre



Liuti, chitarre e mandolini a Bergamo percorsi di storia e cultura musicale tra città e provincia in terra bergamasca
Prima edizione - itinerario : maggio - dicembre 2008

domenica 23 novembre 2008, ore 21.00
Chiesa dei Cappuccini
ORCHESTRA DI MANDOLINI E CHITARRE "CITTA' DI BRESCIA"
prima interpretazione moderna in terra bergamasca musiche di autori bergamaschi
Claudio Mandonico direttore
organico tipo: mandolini mandole
mandoloncelli
chitarrec.basso
Claudio Mandonico (1957)
La Bergamasca, variazioni per orchestra a plettro sul basso ostinato
Angelo Mazzola (Bergamo 1887 - 1974)
Il pianto di Glauco, intermezzo sinfonico per orchestra a plettro"All'Accademia Mandolinisti Milanesi"
Angelo Bettinelli (Treviglio 1878-Milano 1953),
Notte di luna, tango
Alessandro Marinelli (Bergamo 1865 – 1951),
Serenade (brano obbligato al Concorso Internazionale Mandolinistico di Bergamo, 1912)
Eugenio Giudici (Bergamo 1874-1949),
Madrigale per mandoloncello e orchestra
Amedeo Amadei ,Canzone Andalusa "alla Estudiantina Bergamasca in caro ricordo" (1927)
Eugenio Giudici (Bergamo 1874-1949)
Nel salotto di Don Giovanni, fox-trot (1926)
Angelo Bettinelli ,
Petite gavotte
Emanuele Mandelli (Morengo (BG)1891-1970)
Momento musicale (1931) "a Lodovico Quadri benemerito presidente dell'Estudiantina Bergamasca"


ORCHESTRA DI MANDOLINI E CHITARRE "CITTA' DI BRESCIA
Direttore Claudio Mandonico

L'orchestra "Città di Brescia" nasce verso la fine degli anni '60 all'intemo del "Centro Giovanile Bresciano di Educazione Musicale. Nel 1974, su iniziativa dello stesso Giovanni Ligasacchi e di Rosa Messora, l'orchestra si costituisce come Associazione, con il preciso intento di rivalutare la tradizione mandolinistica, attraverso il recupero della letteratura originale antica e la diffusione delle composizioni originali moderne. Questo obiettivo viene perseguito in quegli anni dalle numerose iniziative di G. Ligasacchi. Fra queste ebbe rilevante importanza l'organizzazione nel1976 di corsi sui moderni linguaggio nella musica per orchestra a plettro, tenuti dal noto concertista e compositore Siegfried Behrend. Oltre al lavoro didattico e di ricerca, l'orchestra avvia una intensa attività concertistica esprimendosi sempre più a livello internazionale, partecipando con successo ai concorsi di Kerkrade (1974-1978) Ferrara (1979) ed ai festivals di Remiremont, Schweinfurt, Udine, Baden Baden, Logrono ed Atene.
l'Orchestra mostra pienamente il proprio impegno nella rivalutazione del patrimonio musicale del mandolino organizzando nel 1985, in occasione del suo decennale la prima "Mostra nazionale di Strumenti a Pizzico", con il patrocinio del Comune di Brescia e della Regione Lombardia , ripetendo l'iniziativa nel 1990. In ambito discografico l'Orchestra, diretta da Claudio Mandonico, produce un LP con brani di Roeser, Calace, Bartok, Joplin e Mandonico (1986), e un CD dedicato a Raffaele Calace (1990,fonè).
Fanno seguito importanti concerti, fra i quali quello per l'associazione Musicale "G.Carissimi" di Roma, per il Veneto Festival a Padova, alla Accademia di S.Rocco a Venezia e per il Teatro di S.Carlo a Napoli.
Le recenti produzioni discografiche comprendono:
"Musica per un Momento" ,CD dedicato a Lorenzo Bianchi (1996),
Giacomo Sartori, CD musica da camera per strumenti a pizzico (1996),
Raffaele Calace, CD opere per quartetto e per orchestra (1997, Nuova Era),
Circolo Mandolinistico Italiano, CD Vol. 1 Brescia (1997, Nuova Era),
Christmas with mandolins, CD (1999, Arts),
Claudio Mandonico, opere scelte, CD (Velut Luna, 1999),
"GOH", incontro casuale, CD (2000, Nuova Era),
Circolo Mandolinistico Italiano, CD Vol. 2 Bs Reprint (2001) ,
L'Adorazione dei magi al bambin Gesù Oratorio natalizio di C.Mandonico (2002, CMI-IMC)
"Spaghetti-Rag" (that Italian Rag)


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prossimi appuntamenti della rassegna 2008

Comune Bergamo lunedi 29 dicembre, ore 20.45 Ex-Sala Consiliare "Ciro Caversazzi", Via T.Tasso, Bergamo BassaVII Segovia Day Bergamasco 2008 : Relazione annuale dell'Associazione Bergamo Chitarracon la partecipazione di allievi chitarristi della scuole bergamaschee consegna del premio Segovia Day 2008


iniziativa in collaborazione con
Comune di Bergamo, Civica Biblioteca Angelo Mai Provincia di Bergamo Fondazione MIA , Fondazione Donizetti Banca Popolare di Bergamo
Comuni di Mornico al Serio, Martinengo e Pro Loco, Borgo di Terzo Gromo e Pro Loco , Azzano San PaoloChignolo d'Isola e Parrocchia , Romano di Lombardia

Direttore Artistico Maestro Giacomo Parimbelliprogramma della rassegna su : http://www.giacomoparimbelli.com/

Pollicino di Henze

Da 'Quasi come', di G.Almansi e G.Fink: ancora sul tema della parodia...

Riportiamo due passi tratti da un libro che può a giusto titolo essere considerato un classico sull’argomento
http://www.mieilibri.it/Saggi-sulla-letteratura/Quasi-come_617.html
Si tratta di una parte dell’introduzione e di una pagina della sezione dell’opera dedicata al tema del ‘falso sperimentale’. Chi ha avuto la pazienza di leggere gli articoli del sottoscritto e dell’amico Fausto Bottai, sparsi qua e là sul blog, sa che abbiamo entrambi parlato e riparlato della tendenza, così peculiare nella produzione artistica del ‘900, alla ‘citazione’. Si tratta anzi senz’altro di una delle (se non la) modalità di maggior successo e di più largo impiego da parte degli tanti artisti contemporanei. Naturale quindi rintracciare svolgimenti paralleli di questo stesso tema nelle opere storico-critiche e teoriche di quanti hanno dedicato le loro riflessioni all’arte del ‘900, in questa o quella disciplina. Quasi come, libro dedicato specificamente, come dichiarano gli autori, alla letteratura come parodia e alla parodia come letteratura è appunto una di queste opere, a cui è sempre utile ogni tanto, per rinfrescarsi la memoria, tornare. E ribadire che se ‘i testi sono sistemazioni provvisorie, tende da nomadi che si spostano da un luogo all’altro del deserto’ i falsari sono i beduini che assicurano la circolazione delle idee e assicurano alle opere (finite?) una metempsicotica vita, evitando loro di ammuffire in polverosi scaffali di biblioteca...

Fauvel

E’ possibile, anche se non probabile, che la scrittura sia cosa da non prendere sul serio. Come dice Lewis Carroll, noi non diciamo quello che vogliamo dire e non vogliamo dire quello che diciamo. Se già la distanza fra il dire e il pensare è invalicabile, lo è ancor più quella fra scrivere e pensare, che assomma alla discordanza fra emozione ed espressione quella altrettanto radicale fra parola e grafia. Scrivere è un fingersi diversi da ciò che si è, uno scrivere fra virgolette, in citazione, sulle spalle o a spese della tradizione, con invisibile tongue-in-cheek dove la scrittura si vuole seria, con visibile ammicco dove la si vuole scherzosa. E’ chiaro che il mondo è puramente parodico, ossia che ogni cosa che si guarda è la parodia di un’altra, oppure la stessa cosa in forma deludente, scriveva Bataille. Noi pensiamo che, in fondo, si siano da sempre scritti addosso, sbizzarrendosi in reciproci tatuaggi, o maquillages perversi, tesi a falsare sistematicamente testi presenti e passati per far loro dire cose che essi non sognavano neppure.
(….) La scrittura così non è tanto ‘dire’ qualcosa (infatti non c’è mai niente di nuovo da dire), quanto ‘far dire’ agli altri altre cose, rendere Virgilio cristiano o Dante risorgimentale o Shakespeare vittorughiano e così via. Se tutto è parodia il nostro libro ha un senso; se parodia è solo ciò che si definisce normalmente come tale, il nostro libro ha un altro senso, in quanto lungo il percorso abbiamo ripescato con al nostra rete a strascico un po’ di tutto; e anche naturalmente, un buon numero di parodie vere e proprie, legittimamente consacrate dalla tassonomia della letterature e dalla definizione vocabolariesca. In altre parole, abbiamo cercato di far fare un periplo stravagante nel mare delle lettere, issando a bordo tutto quello che ci sembrava suscettibile di essere qualificato come falso, o come parodistico: purché fosse dilettevole. Il diletto a volte era intenzionale nella mente dell’autore; in altre occasioni abbiamo invitato il lettore ad una lettura rovesciata, con il cannocchiale all’incontrario, per scoprire bellezze australi là dove l’autore intendeva farne risaltare di boreali (scegliendo quindi testi che risultano illeggibili se considerati seri, leggibilissimi e godibilissimi se posti di fronte allo specchio deformante della parodia). Abbiamo sempre seguito un criterio di sconsiderata libertà nel manipolare i testi: abbiamo agito come se l’autore volesse.. quasi come intendesse… per scrivere un libro sulla letteratura come parodia e sulla parodia come letteratura, abbiamo dovuto qualificarci come parodisti. Per scrivere un libro sulla letteratura come falso, abbiamo dovuto farci falsari…

(....)

Il falso sperimentale è un’operazione culturalmente e ideologicamente autonoma che si avvale di aprole, modi, espressioni altrui come semplice spunto, raccolta di materiali e objets trouvés; o che sfrutta vene culturali garantire dalla nobiltà originaria per fini estranei e per esperimenti ludici e/o ideologici. Leggi oppressive e restrittive, a partire dal nefasto Copyright Act del 1709, hanno invano cercato di ingabbiare la creatività umana e la capacità che possiedono gli artisti di re-inventare le cose altrui. Ma nessun decalogo può impedire che si desiderino le parole altrui, spesso per deturparle o per stuprarle; nessuna istituzione civica o patto sociale può far sì che le creazioni artistiche rimangano statiche e deperibili, solo proprietà immodificabile di chi ha dato loro una prima e sempre provvisoria sistemazione: nuove sistemazioni e sorprese attendono l’opera originale nelle mani dello sperimental falsario.
Come ha detto Marx, un prodotto finito può legittimamente diventare materia di un nuovo prodotto. E quale prodotto, in questo campo, può dirsi finito? La Gioconda di Leonardo? Una delle tante Gioconde nude del tardo Rinascimento? O quelle baffute e istoriate di Duchamp e di Salvador Dalì? L’arte è un flusso continuo di mode e di scherzi, di convenzioni e di parodie, di atti di fede e di gesti di ludibrio. Il falso garantisce la dolce corrente di questo flusso. Quanto al falso squisitamente sperimentale, ebbene, eliminarlo significherebbe uccidere tutte le possibilità e le potenzialità della letteratura, sminuirne la natura che è, sempre, anche quando sbandiera una suoa originalità e una sua forma di rottura con la tradizione, un’operazione nobilmente parassitaria.
Vari sono i modi di questo falso: tradurre, copiare, modificare, citare fuori contesto, sostituire parole, giocare col linguaggio, inventare testi inesistenti e distruggere quelli che già esistono, cambiare i connotati, volgere il tragico in comico e viceversa, inventare lingue nuove e magari impossibili, mistradurre, miscitare, travolgere la grammatica, la sintassi, la logica, e sempre il decoro.
La letteratura le ha provate tutte…

martedì 18 novembre 2008

Gabriel Estarellas - Endecha y Oremus

Gabriel Estarellas - Fantasía Mediterránea

Recensione di Musica Contemporanea Espanola e Italiana para Guitarra di Gabriel Estarellas



Confesso di aver trovato qualche difficoltà nel definire una chiave di lettura per questo bel cd registrato dal Maestro Gabriel Estarellas in modo davvero eccellente già 10 anni fa. A crearmi dei problemi è stata la scelta del repertorio, estremamente particolare e di non facile reperibilità.
A sbloccarmi è stata una buona lettura, quella dell’ultimo libro di Olver Sacks “Musicofilia” come immaginerete dal titolo, dedicata alla nostra ossessione favorita. Vediamo cosa scrive Sacks a pagina 57 “Ma perché quest’incessante ricerca di significato o di interpretazione? Non è affatto scontato che un’arte richieda questo; di tutte le arti, poi, la musica è certo quella che lo richiede meno. Sebbene sia la più strettamente legata alle emozioni, infatti la musica è del tutto astratta; non ha alcun potere di rappresentazione formale.”
Ora confrontiamo queste parole con quelle di Inkyung Hwang, raccolte in “Il lungo treno di John Cage” pagina 17: “…l’arte contemporanea deve contenere quesiti, anzichè essere una semplice rappresentazione della realtà. L’artista non è obbligato a fornire risposte, ogni spettatore può cercarli individualmente completando il senso dell’opera, assumendo un ruolo attivo molto importante, e poiché non è detto che le risposte ci debbano essere per forza, l’opera rimane sempre una “forma” aperta.”
Ecco questo disco si muove, a mio avviso, sia ben chiaro, tra queste parole, tra queste due definizioni di cosa sia musica e arte contemporanea. Il repertorio qui suonato è una summa di autori spagnoli e italiani estremamente interessanti e poco eseguiti, si parte con Luis de Pablo e i quattro movimenti della sua Fábula (I...el caracol, hermano de la nube - II...a puro arpegio de oro venerable - III...te expondré el caso de la mandolina - IV...y sobre el piano olvida el color verde) si va a Codex di Cristobal Halffter, completando il tour spagnolo con José Luis Turinae e il suo Monólogos del viento y de la roca.
Per l’Italia troviamo Goffredo Petrassi con i suoi Suoni notturni, Giorgio Federico Ghedini e lo Studio da concerto e Bruno Bettinelli con Quattro pezzi (I.Introduzione - II.Tocatta - III.Notturno - IV.Ritmico).
Ascoltate questa musica, ascoltate le domande che vi pone e interrogatevi su di esse, vi sentire, forse, un po’ migliori. Attenzione non è ascolto semplice, ma la pazienza e una buona dose di ricerca introspettiva vi daranno grandi soddisfazioni. Sia lode alla Stradivarius per aver voluto pubblicare questo disco.

Empedocle70