giovedì 30 luglio 2009

Nuovo Concorso di Composizione per la Chitarra a Castel d'Aiano

Nelle giornate di venerdì 31 luglio, sabato e domenica 1 e 2 agosto si svolgerà "Claxica"festival dedicato al mondo delle sei corde.
La manifestazione avrà luogo negli spazi dell'antico borgo medievale Costa di Dente, a Castel d'Aiano in provincia di Bologna.

Il concorso internazionale di composizione nasce per incentivare la scrittura di brani destinati alla chitarra classica. Il concorso, aperto a tutti i partecipanti d'ambo i sessi, di qualunque età e nazionalità è dedicato alla composizione di un'opera per chitarra sola di durata compresa tra i 5 e i 15 minuti. L'opera dev'essere inedita e realizzata per chitarra a sei corde. Ogni concorrente potrà partecipare anche con più opere.
L’autore della composizione vincitrice riceverà un premio di euro 1000 ( mille euro ) e l’opera verrà pubblicata dalle edizioni sinfonica. Il brano sarà eseguito durante le giornate del festival dal chitarrista Giovanni Maselli. La composizione sarà inoltre inserita come brano obbligatorio da eseguire nella fase finale del concorso di chitarra 2010.
La giuria del concorso di composizione sarà formata da:
Maurizio Pisati presidente di giuria
Walter Zanetti
Claudio Scannavini
Giovanni Maselli
Cristian Gentilini
Caterina Centofante
Daniele Venturi

per informazioni:
http://www.ousiarmonica.it/claxica/index.html

"Plasterium" per quattro Chitarre di Cristian Gentilini

Sabato 1 agosto 2009 a Castel d'Aiano (Bo) all'interno del Festival Claxica 2009 l'EON Guitar Quartet eseguirà in prima assoluta la composizione "Psalterium" di Cristian Gentilini.

http://cristiangentilini.blogspot.com/

Recensione de L’arte chitarristica di Mauro Storti, Eco 2009

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Qualche tempo fa era apparso sul Forum Delcamp dedicato alla chitarra classica una richiesta di alcuni appassionati, tra cui il sottoscritto, al Maestro Storti affinché provvedesse alla ristampa di due suoi dischi realizzati negli anni ‘70 e ormai rintracciabili solo nei circuiti degli appassionati e collezionisti di dischi di vinile.
Finalmente oggi questa lacuna è stata colmata con la ristampa da parte della Casa Musicale Eco di un cd che filologicamente riporta questi due Lp. Penso di poter dire con assoluta tranquillità che la ristampa de “L'Arte Chitarristica di Mauro Storti” si inserisce in questo recupero storico di registrazioni da troppo tempo consegnate al fluire del tempo. Ora, finalmente, l’eccellente lavoro di restauro e mastering da parte di Marco Taio, allievo del Maestro Storti e titolare della cattedra di chitarra presso il Conservatorio "G. Nicolini" di Piacenza, ci restituisce il piacere dell’ascolto di questi due Lp :LA VOCE E LA CHITARRA (LP Bentler 3011) inciso nel 1970 e L'ARTE CHITARRISTICA DI MAURO STORTI (LP Podium 1051) del 1974.
Sia la Bentler che la Podium erano due case discografiche nate negli anni ’60 sull’onda dell’entusiasmo verso la musica italiana. L’incisione del disco della Bentler venne effettuata con un registratore Grundig in diretta, ossia senza tagli, ne interventi di sorta. Di questo disco nella ristampa è stato volutamente impiegato solo il lato B (interamente chitarristico) tralasciando il lato A contenente il repertorio canto e chitarra e quindi meno interessante.
L’incisione del secondo Lp Podium 1051, venne realizzata con mezzi più professionali in un vero studio di registrazione e risale dunque al 1972, come pure il repertorio, che risente ancora ovviamente della forte influenza Segoviana e che vede anche la presenza del classico “Giochi Proibiti”.
Quale l’interesse per questo tipo di operazioni? Sicuramente il piacere di ascoltare all’opera uno dei più importanti esperti di didattica italiani, ma anche, finalmente, la possibilità di far emergere dalla camera del tempo un momento di storia chitarristica italiana. Anni eroici quelli, anni di pionieri in un momento in cui poco e nulla si sapeva della chitarra come strumento per la musica colta e in cui era ben lontana la sua presenza assidua nei conservatori. Parola magica quindi quella della “ristampa”, che rimanda direttamente ad una preoccupazione con l’archivio, con il passato, con la storia: quanti suoni, quante partiture, quante cose non avremo mai più la possibilità di ascoltare?
Ora anche il Recital del Maestro Storti ha la possibilità di resistere nel tempo e al tempo.

Empedocle70

martedì 28 luglio 2009

34° Cantiere Internazionale d'Arte Montepulciano, 18 luglio - 1° agosto



Il 34° Cantiere Internazionale d'Arte di Montepulciano segue le tracce di Dante, e come il poeta fiorentino inizia il suo viaggio dall'"Inferno" per poi salire al "Purgatorio" (nel 2010) e al "Paradiso" (nel 2011). La "Divina commedia" si tramuta in percorso artistico contrassegnato da opere liriche, forme di teatro sperimentale, concerti sinfonici e musica da camera. Da una condizione negativa (Inferno) l'azione passa gradualmente allo stabilito lieto fine. Triennale è anche il progetto che prevede, da quest'anno, uno spazio dedicato a un'opera buffa del periodo classico. "Il barbiere di Siviglia" nella versione originale di Giovanni Paisiello, e non in quella rossiniana del 1816, fungerà da apripista. In anteprima italiana il Cantiere propone "La linea di condotta" di Bertold Brecht con musiche di Hanns Eisler, un lavoro controverso sin dalla sua prima rappresentazione alla Berliner Philarmonie, Brecht presenta in forma scenica le ‘linee di condotta' fondanti il pensiero di Lenin per cui violenza e terrore erano plausibili come logica conseguenza della lotta di classe. Il regista Carlo Pasquini "attualizza" il tutto spostando la vicende nel 1968. Sempre di Brecht, questa volta con le note di Kurt Weil, ma con la medesima mano registica, è "Il consenziente", anch'esso scritto nel 1930, un esempio di come sia stata rinnovata l'opera musicale drammatica. Nei cast spiccano le voci del tenore Carlos Petruzziello da una parte e del mezzosoprano Elisabetta Pallucchi dall'altra. Lo sperimentalismo si assapora con "Dedalus" e "Stabat mater. Action", il primo è uno spettacolo con musica rock che parte da James Joice e coinvolge una cinquantina tra giovani attori, musicisti e danzatori, oltre che sei location del territorio circostante; il secondo, definito "oratorio per attuanti e coro", riscopre i versi di Jacopone da Todi per poi concedersi alle più svariate contaminazioni narrative e sonore. La Royal Northern College of Music Symphony Orchestra di Manchester, ospite fissa 2009, eseguirà cinque concerti sinfonici (Henze, Verdi, Liszt, Brahms, Mozart, ecc.), alcune partiture per il teatro lirico e due concerti da camera con musiche di Bach, Händel, Lekeu, Ysaye, ecc.




34° Cantiere Internazionale d'Arte Montepulciano, 18 luglio - 1° agosto


direttore artistico Detlev Glanert


direttore musicale Romand Böer


Ingresso: da € 10,00 a € 30,00; gratis sotto 16 anni;


info:0578758473




lunedì 27 luglio 2009

Addio Merce Cunningham ...

Il coreografo e ballerino americano Merce Cunningham, che per molti ha rivoluzionato le arti visive e performative, è morto all'età di 90 anni, secondo quanto riferito oggi dalla sua Fondazione e dalla sua compagnia di ballo.

Cunningham, compagno di lunga data del compositore John Cage anch'egli morto, si è spento serenamente ieri nella sua casa per cause naturali, secondo quanto riferito dalla Cunningham Dance Foundation e dalla Merce Cunningham dance company, oggi in una nota.

"Negli ultimi anni veniva accolto pressoché sempre come il più grande coreografo al mondo", ha scritto il New York Times in un necrologio.

Nato a Centralia, Washington, Cunningham ha studiato danza e teatro al Cornish college of the Arts di Seattle e dal 1939 al 1945 è stato étoile della Martha Graham dance company.

Nel 1953 ha creato la Merce Cunningham dance company per la quale ha firmato circa 200 coreografie. L'opera di Cunningham è stata messa in scena anche dal balletto dell'Opera di Parigi, dal New York City ballet, dall'American ballet theatre e dal Boston ballet.

Tra gli onori e i premi conferitigli il Dorothy and Lillian Gish Prize, la medaglia nazionale per le Arti, il premio Laurence Olivier a Londra e la Legione d'onore in Francia.

Ha continuato a esibirsi come ballerino fino a 80 anni e ha lavorato anche per film e video, collaborando con i registi Charles Atlas ed Elliot Caplan.

Fonte: Reuter

File Under Culture&Art 1.0.8

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Dove inizia un opera d’arte? Dove finisce un’opera d’arte? Come definire il suo contesto d’azione e la sua interazione con il mondo esterno? Normalmente noi siamo sempre molto concentrati sulle condizioni interne dell'opera, le melodie, i ritmi, le trame, i testi, le immagini, ma poco sappiamo del mondo che circonda l'opera, i pensieri, gli assunti, le aspettative, le leggende, le storie, le strutture economiche, le risposte critiche, le questioni legali e via così. Potremmo definire tutto questo come la cornice dell'opera?
Una cornice è un modo di creare un piccolo mondo intorno a qualcosa. Tradizionalmente, a quel piccolo mondo non si riservano molti pensieri... C'è quasi una sensazione che investire troppo tempo in quella parte dei lavoro significa guardare nel posto sbagliato. Così la cornice in un dipinto tradizionale è un oggetto standardizzato, un insieme di rimasugli culturali approssimativamente giusti. Se è un quadro vecchio, ci saranno un po' di dorature e un po' di fronzoli, se è un quadro nuovo è probabile che ci siano bordi netti, magari in acciaio satinato. Questi sono soltanto segni che agiscono più come isolatori (modi di escludere certi significati) che attrattori (modi di creare significati).
Anche perché molto spesso la cornice viene data per scontata, ad esempio ella musica classica, la sala da concerto, le code e gli abiti scuri sono tutti segni per il pubblico, che sta per assistere a un'esecuzione situata all'interno di un determinato insieme di valori relativi a quanto i musicisti fanno e a quanto i compositori fanno e a quanto il pubblico fa. Come le cornici dorate dei vecchi quadri, ciò che offrono è soprattutto isolamento, rassicurazione, un senso di collocazione appropriata.
Normalmente si pensa alla cornice quando essa è assente o così sfumata da non essere tangibile. Questo è vero per la maggior parte dell'arte moderna o per quasi tutte le culture tradizionali, in cui i margini dell'opera sono spesso così fluidi che non sappiamo dove siano... o forse non si trovano in un solo posto. Molta della confusione che la gente prova quando affronta la nuova arte, sia colta o popolare, è il problema: "Dove inizia e .. dove finisce?". Che è come dire: "Che senso ha?".
Per esempio, i silenzi di Cage vengono criticati perché sembrano attribuire altrettanta o più attenzione agli aspetti legati alla performance e al teatro piuttosto che alla musica. Queste critiche dicono moltissimo sulle aspettative dei critici e sulle loro gerarchie d'importanza: la musica dovrebbe essere al centro e tutto il resto poi andrebbe considerato come la confezione, il pacchetto. Non sarà che, come gran parte delle cose su cui i critici si infiammano, anche i silenzi di Cage sono un'idea vecchia rivestita di un linguaggio nuovo e alla moda? E poi chi ha detto che la musica dovrebbe essere al centro dell'esperienza? Perché non si può accettare che ci sia un artista capace di lavorare su diversi fronti, uno dei quali è la musica? E perché, poi, non accettare l'idea che la musica potrebbe essa stessa diventare la confezione, un modo interessante di presentare una esposizione in una galleria d’arte moderna, per esempio?
E la cornice? Certe opere sono quasi tutte cornice, che significa dire che quasi tutto il loro potere deriva da quello che può essere detto di loro, da ciò cui possono essere collegate. Il grande racconto di Borges, “Pierre Menard autore del Don Chisciotte”, è un esempio estremo di quell’idea: si tratta della storia di un bizzarro esperimento letterario, quello tentato da Pierre Menard di riscrivere nel Novecento l’indimenticabile romanzo seicentesco di Cervantes. L’esito è insieme comico e geniale: nello sforzo di reinventare nel presente il capolavoro del passato, l’autore finisce con ripeterlo alla perfezione pur credendo di avere apportato delle significative differenziazioni rispetto all’originale.
E che dire delle istantanee di Andy Warhol? Ma, di fatto, c'è qualcosa in un'opera che non sia (almeno un po’) cornice?

Empedocle70

domenica 26 luglio 2009

Scoperte da una fondazione due nuove composizioni di Mozart

VIENNA (Reuters Life!) - La Fondazione internazionale Mozarteum a Salisburgo, in Austria, ha detto di avere scoperto due nuove opere del compositore austriaco Wolfgang Amadeus Mozart.
"Il dipartimento di ricerca della Fondazione internazionale Mozarteum di Salisburgo ha identificato due lavori, che erano da lungo tempo in possesso della Fondazione, come composizioni del giovane Wolfgang Amadeus Mozart", si legge in un comunicato diffuso ieri.
I dettagli dei due brani scritti per pianoforte saranno resi noti in una conferenza stampa il 2 agosto.
Il Mozarteum è stato fondato nel 1880 come organizzazione non-profit per organizzare concerti, gestire musei e promuovere le ricerche sul compositore.
Mozart nacque a Salisburgo nel 1756 e morì a Vienna nel 1791 a 35 anni. Iniziò a suonare il piano in tenera età e ha composto musica da quando aveva cinque anni, scrivendo oltre 600 opere.
Non è la prima volta che sono riapparsi lavori di Mozart negli ultimi tempi. Lo scorso anno una biblioteca a Nantes, nella Francia occidentale, ha annunciato che la partitura di Mozart donata da un collezionista privato alla fine del 19mo secolo era un originale e non una copia come si era fino ad allora ritenuto.

Fonte Reuters Italia

Jim Black



venerdì 24 luglio 2009

Laverna.netlabel live sets

domani, Sabato 25 Luglio 2009 in uno dei luoghi più suggestivi di Padova, presso i "Giardini Sospesi" ai Bastioni S. Croce (via Marghera, zona Prato della Valle)in mezzo alle mura vecchie della città, si terrà un evento musicale che consiste nell'esibizione di 2 live set e 1 dj-set di autori di punta della scuderia Laverna.netlabel:
ore 23.30 Mirco 'micromix' Salvadori.
ore 24.00 HALO XVI (Giampaolo Diacci, Giorgio Ricci, Massimo Berizzi)
ore 1.00 molven
i suoni sono: IDM-ambient elettronica con innesto di strumenti suonati (la chitarra di Giampaolo Diacci e la tromba di Massimo Berizzi) e una venatura di sperimentazioni..in un contesto rigorosamente 'da ascolto', nella zona bar dei Giardini Sospesi..

http://www.laverna.net

Roberto Cecchetto

Intervista con Marco Valente, responsabile della casa discografica indipendente Auand, parte terza di Empedocle70


A volte ho la sensazione che la possibilità di scaricare tutto, qualunque cosa da internet gratis abbia creato una frattura all’interno del desiderio di musica, una sorta di banalizzazione: insomma dov’è la spinta per un musicista a incidere un disco che con pochi euro riesci da solo a registrare e stampare quello che vuoi e chiunque può farlo? Alla fine diventa quasi un gesto quotidiano che si perde in un mare di download dove scegliere diventa impossibile … stiamo entrando in un epoca radicalmente diversa da quella che abbiamo vissuto finora?

Il desiderio di musica non sembra scomparire, anzi... e sono convinto che avere la possibilità di "assaggiare" musica gratuitamente sia una buona cosa per tutti... quello che questo sistema ha provocato é, come detto, l'abitudine ad avere tutto gratis, difficilmente modificabile nelle nuove generazioni. Con tutta la musica che si può avere ora su internet quello che farà la differenza sarà il modo per far arrivare la gente su un determinato prodotto. E questo purtroppo dipende ancora (fin troppo) dalle televisioni. Alla fine i prodotti più clickati su internet sono sempre quelli che hanno spazio in TV. Personalmente, ho deciso di dare via la mia TV nel 2001 e da allora non me ne sono mai pentito (a parte il fatto che vado a vedere le partite della nazionale da mio fratello). Trovo un insulto alla decenza i cosiddetti talent show.

Come è stata accolta la tua web radio?

Parli della piccola radio Auand per assaggiare i dischi sul sito? E' online da pochissimo, non ho ancora ricevuto feedback. Spero solo che possa essere d'aiuto nella scelta di un buon disco da maneggiare durante l'ascolto su un'impianto di alta fedeltà.

Ultimamente la tua label è stata oggetto di particolari attenzione e attestati di stima, parlo in particolare del bel label profile uscito su All About Jazz versione USA, che sensazione ti fa essere riuscito a creare una così solida reputazione?

Devo dire che fin dalla prima produzione ho avuto molta attenzione dalla critica, sia nazionale sia internazionale. Credo sia dovuto alla scelta di pubblicare solo poche cose e solo di un certo taglio. Dare un'immagine forte all'etichetta è stato fin dall'inizio uno dei punti di forza del mio lavoro.

Sei anche il titolare del primo negozio di vendita on line di materiale discografico jazzistico, come mai questa scelta? Il mercato italiano come ha reagito? Siamo ancora così indietro negli acquisti on line? Quali sono le principali richieste dai tuoi clienti?

Ho già parzialmente risposto... aggiungo solo che ho clienti in tutto il mondo e che gli acquisti online in Italia non sono mai davvero esplosi. Per certe categorie merciologiche capisco anche... ma per i dischi di jazz che non si trovano mai nei negozi Jazzos.com dovrebbe essere una manna. In fondo l'ho creato anche per me stesso. Sono il primo e più affezionato cliente del mio webshop!

Credi che il ritorno al vinile di cui tanto si parla, a fronte del crollo delle vendite degli ultimi anni, sia un fenomeno solido e destinato a durare?

Il vinile sotto sotto non è mai morto. Ora sta avendo una piccola rinascita ma non dimentichiamo che si tratta di una percentuale di mercato ridicola. E' un prodotto destinato a gente che spende tanti soldi per un impianto hi-fi o per gente nostalgica dei tempi andati. Ho pensato più volte di aprire Auand al vinile, molto più che al download digitale (che odio profondamente). Magari prima o poi...

Quali saranno le prossime uscite? Come mai la scelta di aprire anche un sezione dedicata al cantautorato?

Ci sono in cantiere diverse novità, alcune legate alla scena newyorkese alcune a quella italiana. Per scaramanzia non ne parlo mai finchè non incomincio a metterci mano. Ma qualcuna potrebbe essere già pronta a fine estate. Per quanto riguarda la sezione dedicata alla canzone tutto è nato per caso a fine 2007 quando un amico mi ha presentato una ragazzina, allora diciassettenne, che scriveva canzoni. Me ne sono innamorato all'istante e ho incominciato a lavorare su un progetto che ha, fin da subito, attirato molte attenzioni. Ora il progetto Erica Mou sta subendo una trasformazione e ne perderò il controllo. Non è detto che questa collana proseguirà... chi vivrà vedrà.

Ci racconti, per chiudere, qualche aneddoto qualche retroscena curioso legato alla realizzazione di qualche tuo disco?

Ne racconto uno brutto e uno bello. Alla mia prima esperienza, durante le registrazioni di X-Ray a Udine da Stefano Amerio ad un certo punto fummo interrotti dal padre di Stefano che ci diceva di andare subito a vedere la TV, era l'11 settembre del 2001.
Per quanto riguarda quello bello... quando ero ragazzo avevo così tanta voglia di fare jazz che avevo iniziato a studiare contrabbasso e un paio di estati ho frequentato Siena Jazz. Siccome non ho mai avuto piacere per lo studio ogni tanto facevo x a lezione e andavo a sentire musica d'insieme di Rava, D'Andrea, ecc... E' stato lì che ho visto per la prima volta Cecchetto e Ayassot e me ne sono innamorato. Per cui sono contento di aver pubblicato Downtown e Quilibrì! Andrea addirittura lo inseguo da sempre, nei miei progetti sarebbe dovuto essere il secondo disco Auand dopo Petrella. Ci abbiamo messo 7 anni per riuscirci ma ne è valsa la pena!

giovedì 23 luglio 2009

Enrico Rava, Francesco Bearzatti



Intervista con Marco Valente, responsabile della casa discografica indipendente Auand, parte seconda di Empedocle70


Che rapporti hai con i tuoi musicisti? Come scegli gli esordienti da stampare con la tua etichetta?

Con ognuno ho un rapporto diverso. Non sono un produttore despota, di quelli che si fanno sentire in fase di produzione e che riescono avvolte persino a snaturare un artista (penso ad esempio al disco ECM della Italian Instabile Orchestra, un disco dal carattere troppo Eicheriano per quella formazione). Mi piace essere in studio (quando posso) per assistere al momento creativo e supportare in tutti modi i ragazzi ma non interferisco nelle scelte se non mi viene espressamente richiesto. Ciò non vuol dire che mi accontenti o che pubblichi qualunque cosa. Alla base di ogni progetto c'è una scelta mai casuale. La scelta di sposare una filosofia di base, un approccio musicale di un certo taglio, mai accomodato su percorsi già scritti. Per quanto riguarda gli esordienti basta la mia curiosità. Ascolto molto sia dal vivo che demo. La scelta è difficilmente spiegabile a parole. Ricevo molto materiale di ottima qualità ma difficilmente ascolto qualcosa di realmente particolare, che mi faccia venire voglia di documentarlo. Quando accade diventa un oggetto nero/verde con una manina.


Ho trovato particolarmente bello il disco realizzato con Paolo Angeli e Antonello Salis, come è nata l’idea di questa registrazione e di realizzare questo disco?

E' un disco nato registrando diversi live e cercando di estrapolare dei frammenti che contenessero tutta l'energia che il duo riesce ad esprimere dal vivo. Un duo travolgente, dove la chitarra sarda preparata di Angeli si fonde alla perfezione con uno dei più grandi improvvisatori europei, stimatissimo ovunque. Due sardi doc frullati e serviti freddi!

Parlaci del rapporto che hai instaurato con internet e col downloading e se credi che i due fenomeni abbiano cambiato il jazz e il modo in cui si produce e si ascolta la musica.

Ho iniziato a navigare nel 1996 con un modem 14,4... i siti erano grigi e lentissimi. La prima cosa che cercai su Altavista (allora il più importante motore di ricerca) fu Ornette Coleman, poi provai con Enrico Rava e non venne fuori nulla. Fu così che pochi mesi dopo naque www.ijm.it, il primo portale sul jazz italiano da me messo a punto nel febbraio del 1997. Attraverso quel portale ricevevo richieste da tutto il mondo per contattare gli artisti di jazz italiano, seguitissimi in tutto il mondo. Tra le richieste molte riguardavano la reperibilità dei loro CD e così nel 1999 naque anche Jazzos.com, il più grande portale di CD, DVD, LP e libri dedicato al jazz italiano e internazionale. Ad agosto compie 10 anni e rappresenta un punto fermo per tutti gli appassionati. Nonostante queste mie esperienze di fusione tra il jazz e internet non vedo di buon occhio il downloading. Scaricare gratis è a tutti gli effetti un reato. E' come entrare in un cinema o in un teatro e pensare di non pagare il biglietto. Impensabile! Scaricare a pagamento ti priva del piacere feticistico dell'oggetto, già in passato ridimensionato dal vinile al compact. Per di più l'ascolto degli mp3 in impianti di scarsa qualità farà perdere all'ascoltatore medio gran parte del piacere. Le nuove generazioni, già mal abituate ad avere tutto gratuitamente, non sapranno distinguere una buona registrazione da una cattiva, il legale dall'illegale... chissà se riusciranno almeno a distinguere la musica buona da quella cattiva.

mercoledì 22 luglio 2009

GIANLUCA PETRELLA



Intervista con Marco Valente, responsabile della casa discografica indipendente Auand, parte prima di Empedocle70


Raccontaci come è nata l’etichetta, come hai scelto il nome, il logo, come pensavi fosse il jazz, in particolare quello italiano, quando hai iniziato e come lo vedi oggi, cosa volevi fare e se pensi di esserci riuscito, quali erano il tuo back ground e i tuoi modelli…

L'idea dell'etichetta probabilmente è dentro di me da sempre, da quando ho iniziato ad ascoltare musica intorno ai 13 anni, a voltare e rivoltare tutti i dischi che mi capitavano a tiro e che mi procuravo da parenti e amici. Ne studiavo ogni minimo particolare e tutt'ora faccio molta attenzione non solo alla musica ma all'oggetto in sè. Il nome è venuto fuori da una selezione di 70 possibilità, depennate confrontandomi con David Binney ed un professore di italianistica alla New York University. Volevo che il nome suonasse bene anche oltreoceano pur non tralasciando uno spiccato sapore mediterraneo. Alla fine la scelta è caduta su Auand che in dialetto barese ha un duplice significato: prendi (da cui la manina) e attenzione (in senso esortativo). Il logo, come tutta l'impostazione grafica, è un colpo di genio del grafico Cesco Monti e approfitto per ringraziarlo della professionalità e dell'amicizia. Il jazz italiano fin dagli anni '80 ha avuto un'evoluzione repentina, grazie ad alcuni esponenti che iniziavano a prendere consapevolezza dei propri mezzi e ad abbandonare inutili soggezioni nei confronti dei colleghi americani. Il suono degli italiani è talmente carico del nostro background (lirico, melodico) che da anni riusciamo ad esportarlo ovunque (Rava, Fresu, Bollani, Minafra, Trovesi, Pieranunzi). A documentare il jazz italiano ci hanno pensato alcuni pinoieristici produttori italiani come Sinesio, Bonandrini, Spagnoli e Veschi. Tra le mie influenze più grandi citerei le tedesche JMT di Stefan Winter e ECM di Manfred Eicher (dal cui catalogo però pesco solo nei primi 20 anni). Il mio background è assolutamente da autodidatta. In casa non si ascoltava musica, nè jazz nè di altro genere. E' stata la mia curiosità a spingermi alla scoperta della musica, partendo dal pop e dal rock fino a scoprire il jazz e ad innamorarmene al punto di farne un mestiere oltre che una passione.

Quali sono i titoli che hanno funzionato meglio in termini di vendita?

La prima pubblicazione, X-Ray di Petrella, è stata da subito ben accolta sia dalla critica sia dal mercato, richiedendo due ristampe. Fu decisamente il modo migliore per iniziare l'esperienza di produttore. Era mia intenzione partire con il piede giusto per cui attendevo la giusta occasione. Comunque, oltre X-Ray, i più venduti sono Virus e Hope di Bearzatti, il disco di Cuong Vu con Bill Frisell e Ma.Ri di Angeli e Salis.

Quali dischi ti penti di aver fatto e quali invece avresti voluto e non sei riuscito a realizzare?

Quando un produttore decide di centellinare le uscite, di pubblicare una media di un paio di dischi l'anno è difficile avere pentimenti. Piuttosto cambierei la domanda in "quale produzione secondo te avrebbe meritato più attenzioni" e la risposta sarebbe ricaduta sul CD dei Sax Pistols, dal vivo un'autentica potenza, e su Tossani, votato come miglior talento al Top Jazz del 2006 ma mai espoloso sulla scena nazionale.
Cosa non sono riuscito a realizzare? un sacco di progetti. Davvero tantissimi! Spesso improbabili, dettati da una fantasia che galoppa più veloce della realtà... Fantasticare è la parte più bella di questo mestiere, chessò... pensare ad un gruppo con Petrella e Ornette... tanto sognare è gratis!


Il fenomeno delle etichette indipendenti sembra essere una cosa relativamente recente in Italia e comunque legata più all’indie rock o al punk, mentre nel mondo del jazz sono sempre esistite portando alla scoperta di notevoli talenti, la mia sensazione è che comunque sia le indipendenti che le major cerchino di dare all’ascoltatore consumatore ciò che vuole, da parte delle label indipendenti forse c’è la possibilità di un rapporto più fidelizzato col proprio mercato, basato sulla qualità e la propria reputazione. Alla fine non credo che abbia importanza la vastità del mercato ma quello che si fa … alla fine che differenza c’è tra un cdr da 30 copie e .. l’ultimo disco di Madonna?

Nel jazz quasi tutto è indipendente, persino gran parte dei capolavori di Miles, Ornette, Coltrane... In Italia, a parte qualche rarità su vinile Atlantic e, negli ultimi anni, EMI Italia (con marchio Blue Note) e Universal Italia (con marchio EmArcy), tutto è sempre stato indipendente. Chiaro che alla fine quello che conta è la musica. Molti dischi di Prestige di Miles sono più rinomati di alcuni dei suoi Columbia. Alla fine critica e pubblico definiscono il mercato. Ma è anche vero che se produci 30 copie in cdr difficilmente avrai visibilità.

martedì 21 luglio 2009

ANTONELLO SALIS/GAVINO MURGIA/PAOLO ANGELI EUROPEAN JAZZ EXPO' 2008

Recensione di MA.RI di Paolo Angeli e Antonello Salis

Ma.Ri Auand

Incontro tra improvvisatori al vertice in questo disco MA.RI, quinto disco del catalogo pubblicato dall’etichetta Auand, che riporta una selezione da performance live del duo, effettuate nel corso del 2002 in tre concerti a Bologna, Ravaldino in Monte e Latina. Un loro incontro era inevitabile: entrambi originari della Sardegna, entrambi collegati al mondo del jazz, entrambi con una visione musicale ampia e priva di pregiudizi e preclusioni di sorta inglobando elementi provenienti da altri stili e linguaggi. Trattandosi di registrazioni live si avverte un forte senso di spontaneità e di ispirazione reciproca, dal segnalare le “bracciate musicali” del pezzo d’inizio "Craul: 1500 m. a stile (libero)" inizia con la chitarra che suona come uno strumento da percussione per concludersi dopo poco più di sedici minuti con un delicato suono di carillon, nel mezzo, curiose combinazioni poliritmiche, inversioni a U improvvise e imprevedibili, variazioni folk cromatiche. La stessa idea di musica onnivora si ritrova in "Carta d'imbarco" con i suoi intrecci tra chitarra e fisarmonica, una musica sghemba che ti trasporta nei deserti impolverati del West di Ennio Morricone dove il suo "Per un pugno di dollari" diventa una entità minimale dalla bellezza naif, fino all’inno beatlesiano di "Mother Nature's Son". Un disco di grande potenza e propulsiva creatività, stupenda la copertina in bianco e nero che ben rappresenta le identità dei due musicisti!

Sito di Paolo Angeli: http://www.paoloangeli.it/
Sito della Auand: http://www.auand.com/

Elenco dei brani:

01. Craul: 1500 m. a stile (libero) (Angeli/Salis) - 16:28
02. Carta d'imbarco (Angeli/Salis) - 7:18
03. Vasche (Angeli/Salis) / Per un pugno di dollari (Morricone) - 9:51
04. A braccio (Angeli/Salis) / Mother nature's Son (Lennon/McCartney) - 3:54
05. MA.RI (Angeli/Salis) - 2:34

Empedocle70

lunedì 20 luglio 2009

Bill Frisell ~ Have a Little Faith

Speciale Auand: catalogo


3quietmen Battaglia Stefano Bartokosmos
Auand (AU9018)

Quilibri Eco Fato
Auand (AU9017)

Cisi Emanuele The Age of Numbers
Auand (AU9016)

Previte Bobby Petrella Gianluca Salis Antonello Big Guns
Auand (AU9015)

Partipilo Gaetano Okazaki Miles Weiss Dan I like too much
Auand (AU9014)

Cecchetto Roberto Downtown
Auand (AU9013)

Tossani Giancarlo Coherent Deformation
Auand (AU9012)

Bearzatti Francesco Sax Pistols: Stolen Days
Auand (AU9011)

Vu Cuong Frisell Bill It's mostly residual
Auand (AU9010)

Arguelles Julian Guilfoyle Ronan Black Jim Live in Dublin
Auand (AU9009)

Domino Quartet Radio 3 Sessions
Auand (AU9008)

Bearzatti Francesco Rava Enrico Hope (Bizart)
Auand (AU9007)

Tossani Giancarlo Beauty is a Rare Thing
Auand (AU9006)

Angeli Paolo Salis Antonello MA.RI
Auand (AU9005)

Binney David Hirshfield Jeff A small madness
Auand (AU9004)

Sorge Paolo Trinkle Trio
Auand (AU9003)

Bearzatti Francesco Virus (Bizart)
Auand (AU9002)

Petrella Gianluca
X-Ray Auand (AU9001)

Cuong Vu - Expressions of a Neurotic Impulse

Speciale Auand Records


Care Amiche e cari Amici, questa settimana il Blog si muoverà nei “dintorni” della chitarra con uno speciale dedicato alla casa discografica indipendente di jazz Auand. Da sempre il Blog ha dimostrato interesse anche per gli aspetti legati alla produzione, incisione e distribuzione dei cd, ho quindi pensato di farVi cosa gradita andando ad approfondire questo argomento grazie alla cortese collaborazione di Marco Valente, titolare della Auand, che ha accettato di buon grado di rispondere alle mie domande su come si sta evolvendo il mercato discografico, le nuove situazioni generate dalla crisi, dal download digitale e dal nuovo modo di approcciarsi alla musica da parte delle nuove generazioni. Spero troviate la cosa interessante e che apprezziate l’ottimo jazz della Auand Records .. alla fine, come diceva Duke Ellington, la musica appartiene solo a due generi: quella buona e quella cattiva e qui di buona musica ce n’è davvero tanta!

Empedocle70

Speciale Auand: la casa discografica


Collezionare dischi e essere appassionati di musica può a volte trasformarsi in un percorso che a volte può portare ad un’inattesa professione. I fondatori di alcune delle più famose etichette nella storia del jazz; gente come Bob Weinstock (Prestige), Alfred Lion (Blue Note), Norman Granz (Verve) e Orrin Keepnews (Riverside) sono stati in primis degli appassionati, che hanno sentito la necessità di documentare i suoni che li circondavano: a un certo punto, raccogliere ciò che era già a loro disposizione non era più sufficiente.
Come i suoi famosi predecessori, Marco Valente, che gestisce l'etichetta indipendente italiana Auand, ha iniziato come un appassionato conoscitore e collezionista di dischi, imparandone ad amare ogni dettaglio: copertina, etichetta, note, logo, foto. Una passione che si è tradotta in una delle caratteristiche distintive della sua casa discografica: la cura per il prodotto e la scelta certosina delle immagini che lo accompagnano.
Fin dalla sua prima uscita discografica nel 2001, X-Ray di Gianluca Petrella, la Auand è riuscita a costruire con tenace costanza un catalogo, che colpisce sia in termini di coerenza che di diversità. Formalmente, Auand si descrive come un marchio d'avanguardia, che però non nasconde, anzi sembra mostrare con orgoglio le proprie connessioni col passato e la tradizione jazzistica, mentre a dimostrazione del desiderio di contemporaneità e della volontà di ampliare i confini del “vissuto musicale” che animano questa etichetta si segnalano le tracce multimediali inserite in molti cd. A conferma della passione per il disco, per la registrazione come manufatto, come oggetto estetico dal valore in se intrinseco non è disponibile il download digitale dal sito internet della casa discografica, mentre è disponibile un servizio di radio web dove è possibile ascoltare assaggi delle diverse proposte musicali.

Siti Internet:

domenica 19 luglio 2009

Speciale Nuccio D'Angelo: video QUATTRO TRAVESTIMENTI

1) ALBA
http://www.youtube.com/watch?v=SARfWWZYHr0

2) Barcarola



3) Mercato
http://www.youtube.com/watch?v=y8f1DhpjatI

4) Sera

Intervista a Nuccio D'Angelo di Empedocle70 parte quarta

Ascoltando la sua musica ho notato la tranquilla serenità con cui lei si approccia allo strumento indipendentemente dal repertorio, da con chi sta suonando, dal compositore, dallo strumento che lei adopera dimostrando sempre un totale controllo sia tecnico che emotivo, quanto è importante il lavoro sulla tecnica per raggiungere a questo livello di “sicurezza”? In particolare mi sembra che lei dia grande importanza all’attacco .. o è solo una mia impressione?



Mi è sempre piaciuto produrre atmosfere sognanti e gioiose nella musica che scrivo e suono e, se una sensazione di “rilassamento benefico” arriva agli ascoltatori ne sono felice. Credo però che un concerto o un disco abbiano bisogno anche di momenti vivaci con toni talvolta drammatici, e non mi dispiace nemmeno che lo spettacolo contenga una parte di virtuosismo, perché fa parte del gioco della musica ed esprime quella parte di rapporto fisico che tutti i musicisti hanno con lo strumento. Questo spiega le mie scelte compositive (e preferenze di repertorio) fatte di brani calmi, a volte di carattere contemplativo, con armonie e atmosfere dolci, alternati a pezzi di carattere ritmico, con sonorità e colori armonici più aspri. Del resto sono del parere che consonanza e dissonanza vadano alternate per potere essere apprezzate. Direi che buona parte della riuscita di un concerto dipende proprio dal sapiente “dosaggio” delle varie atmosfere che l’interprete presenta al pubblico, determinandone il suo coinvolgimento emotivo.
Poi, guardando ai mezzi con cui esprimiamo queste atmosfere, bisognerebbe fare un discorso a parte. Il gesto fisico è già un’espressione artistica, ed è già musica insieme all’evento sonoro che produce. Quindi il modo di toccare la corda contiene già un’intenzione ed è uno dei primi tasselli per la creazione di un’atmosfera musicale. Nel mio caso c’è un “attacco” fondamentalmente morbido, sicuramente derivato dall’insegnamento che ho ricevuto da Alvaro Company, che dà una rilevante importanza all’economia delle energie. Oggi, dopo 26 anni dal diploma, gli sono più che mai grato per i suoi insegnamenti. Ho continuato a lavorare in quella direzione, ottenendo continue conferme che il rilassamento è il primo passo verso un rapporto agevole (e duraturo) con lo strumento; è anche indispensabile per avere un buon controllo meccanico, e per far sì che lo strumento sia un vero e proprio canale di comunicazione tra noi e chi ci ascolta. Sopratutto un atteggiamento psicofisico rilassato ci permette di entrare in uno stato di maggiore sensibilità e consapevolezza, e questo è ciò che in fondo tutti cerchiamo.

Come vede la crisi del mercato discografico, con il passaggio dal supporto digitale al download in mp3 e tutto questo nuovo scenario?



La vedo come una realtà epocale, con aspetti positivi come la facilità di diffusione e l’abbattimento dei costi di produzione. Ma mi sembra anche che la super-reperibilità della musica via internet stia creando anche un inflazionamento del mercato, così che con estrema facilità ci possiamo riempire il computer delle opere di tutti i musicisti possibili, col rischio di scadere anche in questo settore nel consumismo. Forse si sta andando verso una perdita di preziosità del prodotto e addirittura dell’evento musicale stesso. Un’ abitudine che secondo me ha declassato molto il ruolo della musica (perlomeno nei paesi “civilizzati”) è quella di usarla come “sottofondo” in troppe situazioni come sale d’attesa, trasporti e locali pubblici, negozi, programmi radio-televisivi ecc... Che voglia può avere una persona di sentire musica se ne è bombardata tutto il giorno? Del resto non è raro vedere utilizzare opere di grandi pittori e scultori a scopi commerciali, ma mi sembra che l’abuso sulla musica superi quello operato su tutte le altre opere artistiche.



Ci consigli cinque dischi per lei indispensabili, da avere sempre con se.. i classici cinque dischi per l‘isola deserta..



J. S. Bach: “Variazioni Goldberg” suonate da Gustav Leonhardt;
M. Ravel: “Piano-concerto in Sol” e Rachmaninov “Piano-concerto 4°” nell’esecuzione di Arturo Benedetti-Michelangeli (nello stesso disco, direttore E. Gracis);
Miles Davis: “In a Silent way”;
“Soft Machine Two”;
“Atlantis Nath” di Terry Riley;


Quali sono invece i suoi cinque spartiti indispensabili?



J. S. Bach: “Loure” dalla Suite 1006a per liuto
J. S. Bach: “Passione secondo Matteo”
G. Puccini: “Intermezzo” dalla Manon Lescaut
C. Debussy: “La plus que lent” dalla Suite Bergamasque
R. Wagner: Overture dal Tannhauser;



Il Blog ha aperto di recente una nuova rubrica dedicata ai giovani neodiplomati e diplomandi, che consigli si sente di dare a chi, dopo anni di studio, ha deciso di iniziare la carriera di musicista?



Dico: bellissimo poter suonare tutta la vita e poter fare della propria passione una professione! Dico che siamo fortunati perché la musica ci dà per sempre la possibilità di esprimerci e ci invita continuamente a scavare dentro noi stessi. Quindi è una splendida terapia per il nostro progresso interiore.
Abbiamo già detto che il lavoro di promozione è importante, ma aggiungerei che la qualità e l’originalità del prodotto da promuovere lo sono di più. Un artista emergente ha il problema di farsi notare, di conquistarsi un posto nel panorama e nel mercato concertistico internazionale, e diciamo pure che la concorrenza è spietata perché il mondo oggi è pieno di giovani musicisti bravissimi e agguerriti.
Io credo che la prima cosa per cercare di distinguersi (e per progredire artisticamente) è quella di mettere a fuoco i propri talenti e la propria personalità artistica. Non c’è niente di più importante nell’arte che individuare e sviluppare la propria unicità. Per fare un esempio rimanendo nel campo della chitarra: un aspetto che ha scolpito l’arte di Segovia nella storia della musica fu quel suo particolare tocco e un suo personalissimo modo di fraseggiare, di “pronunciare” la musica; caratteristiche soltanto sue, in cui ha creduto e che ha potenziato negli anni, senza riferirsi ad altri modelli. E in fondo non c’è nemmeno bisogno di cercare di essere a tutti i costi originali, perché siamo già diversissimi tra noi. Bisogna sopratutto – ripeto – ascoltarsi e tirare fuori le proprie caratteristiche e le proprie tendenze, senza paura di uscire dagli schemi e dai modelli dettati dall’esterno. Semmai bisognerebbe evitare atteggiamenti troppo... cauti. Ho sentito, in generale, negli ultimi decenni troppe esecuzioni “asettiche”, bravissimi musicisti (sopratutto giovani) che “non osano”, e suonano con poche dinamiche, pochi timbri e zero agogica (cioè flessibilità ritmica). Ma sono proprio queste le cose con cui un interprete mette la sua firma artistica! Come farne a meno? Cosa rimane? Il problema dei musicisti che devono interpretare composizioni scritte è sopratutto quello di capire quello che non è scritto, cioè quello che c’è da leggere “tra le note”. Quindi ai giovani neodiplomati e diplomandi consiglio di esplorare a fondo le partiture che si accingono ad interpretare, perché l’analisi dell’opera ci dà sempre delle indicazioni preziose per l’interpretazione; ma consiglio sopratutto di ascoltare e mettere in atto i suggerimenti del proprio mondo interiore perché è da qui che possono scaturire le indicazioni più autentiche per fare rivivere le composizioni. Pur con le dovute distinzioni tra i vari generi musicali, voglio sottolineare un’ ultima cosa: quando in nell’esecuzione di un solista sento che potrei battere il piede per tutto il pezzo (e purtroppo mi succede spesso), senza imprevisti, quando insomma non è il fraseggio che predomina ma il .... metronomo, allora c’è qualcosa che non va.



Con chi le piacerebbe suonare e chi le piacerebbe suonare? Che musiche ascolta di solito?



In generale con tutti i musicisti - anche del passato - con cui credo di avere delle affinità, dei modi simili di intendere la musica. Ascolto un pò di tutto, non tantissimo perché la musica richiede troppo tempo per essere prodotta. Comunque cerco sempre artisti che mi coinvolgano e mi stupiscano: Bach è primo in classifica, ma mi affascina anche l’arte di Brad Mehldau, di Keith Jarrett, di Terry Riley, di Miles Davis...

Quali sono i suoi prossimi progetti? Su cosa sta lavorando? Lei ha un notevole repertorio discografico .. è prevista qualche ristampa? Mi sembra che Magie sia stato ristampato di recente…



Infatti “Magie” è stato ristampato da poco, e in Autunno registrerò un DVD di mie musiche per la collana “Composers Serie” prodotta dalla “Guitar Media Collection” (GMC) con direzione artistica di Flavio Cucchi. Poi mi muoverò in Italia e all’estero per vari conservatori e scuole di musica che hanno richiesto delle lezioni-concerto sulle mie composizioni, master-class di chitarra, seminari di composizione-improvvisazione e concerti. Spero anche di tornare prossimamente in U.S.A. e in Australia, dove ho avuto delle bellissime esperienze sia nell’insegnamento che nel concertismo. C’è inoltre tanta bella musica che chiede di essere scritta... o per meglio dire “scoperta”. Vorrei dare una mano!

sabato 18 luglio 2009

Speciale Nuccio D'Angelo: mp3 composti ed eseguiti da Nuccio D'Angelo

Musiche composte dal Maestro Nuccio D'Angelo

Astor, vecchio Astor
Astor_vecchio_Astor

Lirica Per Archi
Lirica Parte Prima
Lirica Parte Seconda

Note per “Lirica per archi” “Lirica per archi” costituisce il secondo movimento di un brano scritto da Nuccio D’Angelo nel 1993 su richiesta del compositore e direttore d’orchestra Leo Brouwer. La melodia presentata in primo piano, che si muove ad ampie frasi, viene esaltata nelle sue caratteristiche lirico-drammatiche da un tessuto concertante caratterizzato da forti tensioni armoniche, che non raggiungono mai dissonanze troppo stridenti. L’atmosfera che ne deriva conduce l’ascoltatore verso un rinnovato e quanto mai intenso gusto della cantabilità.


"Raga" (1983) per pianoforte preparato

pianista: Maria Grazia Dalpasso

Marktoberdorf nel 1995

RAGA_at Marktoberdorf

"Raga" (1983) per pianoforte preparato
pianista: Maria Grazia Dalpasso
21 aprile 2008, Lyceum Club - Firenze
Raga_at_Lyceum

copyright by Nuccio D'Angelo

Intervista a Nuccio D'Angelo di Empedocle70 parte terza

Ho notato un suo interesse per la musica indiana. La cosa mi ha piacevolmente stupito primo perché anch’io sono un appassionato di questa musica millenaria e secondo perché lei è il primo chitarrista classico che utilizza moduli compositivi indiani nelle sue musiche, non è una novità nel mondo della dodici corde acustica dove chitarristi come Robbie Basho e John Fahey in passato e Jack Rose attualmente hanno inciso musiche bellissime con riferimento alla musica carnatica e hindustani. Lei conosce questi chitarristi? Cosa la affascina della musica indiana?


La mia familiarità con la classica indiana risale agli anni in cui suonavo anche la chitarra elettrica e in occidente questo stile si era già imposto al giovane pubblico dei festival e concerti pop grazie a musicisti come Ravi Shankar e, in forma “occidentalizzata” nelle esperienze fusion dei gruppi “Mahavishnu Orchestra” e “Shakti” fondati da John McLaughlin (giusto per citarne alcuni). Questa mia simpatia fu dichiarata già nel 1984 con “Raga” per pianoforte preparato, dove operavo un tentativo di accostare alcuni elementi strutturali e melodici di ispirazione indiana ad un mondo espressivo tardo-romantico. Un altro esempio è “Raga-Blues”, dalla “Electric Suite” (1995) per chitarra, che si presenta come un alap (parte introduttiva) e si trasforma lungo il suo sviluppo fino ad evocare armonie proprie del Blues. Le mie intenzioni sono ancora più dichiarate nell’inedito “Polymodale”, che inizia con “Alap” seguito da “Jor” (parte in cui si avvia il ritmo), per finire con “Sviluppo” scritto in notazione classica. Contiene una scala Bhairav ed è proposto nelle prime due parti come un raga, cioè fornendo all’interprete dei materiali su cui improvvisare. La prima esecuzione di questo pezzo l’ho fatta a Denver nel 2004 e l’ho poi suonato in tutti i miei concerti. Senz’altro lo includerò nelle mie prossime incisioni.
In molte mie composizioni è facile scorgere qualche frammento indianeggiante, nel colore di un intervallo, o nel modo di fraseggiare, o nel carattere di una sezione (come in “Alba”, dai “Quattro Travestimenti”). La cosa mi risulta naturale, fa parte dei miei modi di esprimermi. Però mantengo anche una visione fortemente occidentale della musica, nella misura in cui non rinuncio mai ad una ricerca armonica. Sopratutto mi piace che all’interno del brano ci siano dei cambi di colore (a differenza della classica indiana in cui il basso e la scala usata rimangono uguali per tutto il pezzo). Spesso uso anch’ io un criterio modale, ma mi piace cambiare modo all’interno del pezzo. Ecco cosa intendo per “Polymodale”. Per quanto riguarda i chitarristi Robbie Basho, John Fahey e Jack Rose, non posso dire di conoscerli a fondo. Mi sembrano molto ispirati, ma mi sento distante da loro per motivi riguardanti questa ricerca-invenzione armonica che sento importante per me e non percepisco nei materiali che loro hanno usato.
Per continuare a citare altri chitarristi “filo-indiani”, nell’ambiente classico abbiamo Ganesh Del Vescovo che svolge da anni un originale lavoro di ricerca e di assimilazione fra le due culture, componendo, improvvisando e perfino creando dei nuovi strumenti che mescolano le sonorità della chitarra, con quelle degli strumenti indiani, in particolare del sarod.



Berio nel suo saggio “Un ricordo al futuro” ha scritto: “.. Un pianista che si dichiara specialista del repertorio classico e romantico, e suona Beethoven e Chopin senza conoscere la musica del Novencento, è altrettanto spento di un pianista che si dichiara specialista di musica contemporanea e la suona con mani e mente che non sono stati mai attraversati in profondità da Beethoven e Chopin.” Lei suona sia un repertorio tradizionalmente classico che il repertorio contemporaneo … si riconosce in queste parole?


Certo, Berio diceva bene, ma distingueva solo tra musica classica e musica del Novecento. Io aggiungerei che in ogni stile e cultura musicale ci sono delle ricchezze. Peccato se un musicista non se ne accorge perché crede (o gli hanno fatto credere) che alcuni modi di far musica sono “da evitare”.


Parliamo di marketing. Quanto pensa che sia importante per un musicista moderno? Intendo dire: quanto è determinante essere dei buoni promotori di se stessi e del proprio lavoro nel mondo della musica di oggi?


Quanto? Molto! Se sei bravo, originale, autentico e hai tante altre belle qualità non è detto che gli altri se ne accorgano o ne prendano atto invitandoti, ingaggiandoti. Intanto da che mondo è mondo se ci mettiamo da parte nessuno verrà mai a dirci “ma che fa? Venga con noi, si metta alla luce...” È molto più probabile che stiamo facendo un favore agli altri lasciando il campo libero... Questo è vero oggi più che mai in quanto la cultura dell’apparire ha spesso soppiantato quella dell’essere. Quindi mi sembra che se ci si vuole imporre o almeno “galleggiare” professionalmente bisogna imparare un pò il mestiere del self-promoter. Corsi e seminari su questo argomento sono già in atto in varie scuole, per fortuna.


Quale significato ha l’improvvisazione nella sua ricerca musicale? Si può tornare a parlare di improvvisazione in un repertorio così codificato come quello classico o bisogna per forza uscirne e rivolgersi ad altri repertori, jazz, contemporanea, etc?


Rispondo innanzitutto alla seconda parte della domanda che mi dà l’occasione di parlare di un aspetto poco noto. Mi riferisco al fatto che spesso quando si parla di improvvisazione si pensa direttamente o anche solo implicitamente a qualche stile catalogato. Personalmente tengo corsi di improvvisazione (spesso collegati alla composizione) dal 1995 e una delle prime cose che sottolineo è quella che non intendo confondere l’improvvisazione con alcuni stili musicali in cui essa è stata fortemente adoperata, come il jazz, la classica indiana, il blues, il rock ecc... Naturalmente sottolineo che apprezzo molto quei linguaggi, ma non è il punto né l’obbiettivo del nostro percorso. Nelle esperienze che sollecito ai miei allievi ognuno si deve poter esprimere con le influenze stilistiche che gli risultano più congeniali e spontanee.
A rigore, in una visione “idealistica-utopistica”, se un musicista davvero improvvisasse, dovrebbe creare qualcosa di radicalmente nuovo, senza confini di stile e di linguaggio. In realtà, come tutti sappiamo, nell’improvvisazione spesso ci si serve di alcuni “moduli” (scale, accordi, frammenti melodici, formule ritmiche) conosciuti, o almeno in parte visitati, perché grazie a questi supporti parzialmente memorizzati si può dare sfogo alla propria creatività. Sembra un controsenso, ma spesso è ciò che accade. È inevitabile quindi che questi frammenti di memoria poi ricomposti all’atto dell’improvvisazione portino con sé tracce dei linguaggi che più abbiamo visitato come interpreti o anche solo come ascoltatori.
I moderni didatti come Delalande, De Gainza, o Schafer insistono molto perché l’improvvisazione sia una ricerca sonora scollegata da ogni linguaggio precostituito, in modo che il musicista che improvvisa trovi in questa esperienza un veicolo di introspezione e contemporaneamente di espressione, un’esperienza di creazione pura e non di riciclaggio e mescolanza di idee. A questo proposito promuovono molti giochi (sopratutto per i bambini, che hanno meno dati di repertorio in memoria) di ricerca e produzione del suono, utilizzando un’infinità di oggetti come strumenti musicali. Questo contribuisce a creare una mentalità più aperta e a non dare niente per scontato circa le tessiture e gli stilemi espressivi musicali creando così le permesse per la ricerca musicale delle generazioni future.
É chiaro pure che tutto è relativo e che il più “puro” dei bambini avrà comunque mille occasioni per ascoltare (ed anche praticare) molti generi musicali precostituiti, con linguaggi standard (vedi musica leggera, loop e ritmi prodotti da congegni elettronici – rigorosamente in quattro quarti!); ma l’esperienza improvvisativa, se ben guidata non dovrebbe reprimere nessuna simpatia e tendenza musicale, ma solo aprire la persona all’ascolto di molti eventi sonori che ci circondano ed invitarla a creare, scoprire, esplorare, partecipare, trasformare dei materiali sonori (anche tonalissimi) per adattarli alla propria sensibilità e liberare la propria espressione.
Personalmente dò molta importanza all’improvvisazione, innanzitutto nella mia pratica musicale quotidiana, facendo sempre delle “passeggiate” improvvisative sullo strumento a inizio-seduta di studio, prima di intraprendere lo studio di eventuali brani da preparare per i miei concerti. In questi percorsi cerco di “scaldare” prima di tutto la mia sensibilità, cercando di far venire subito fuori un’atmosfera musicale fin dalle prime note; questo può sembrare ovvio, ma incominciando la seduta di studio con la tecnica “pura” secondo me c’è il rischio di meccanicizzare l’atto del far musica. Contemporaneamente “scaldo” le dita con arpeggi, melodie e combinazioni miste, immaginando e insieme realizzando situazioni musicali. Cerco nuovi accordi, concatenazioni armoniche, scale e varie combinazioni strumentali sempre all’interno dell’ atmosfera in cui mi trovo, producendo così delle improvvisazioni che hanno valenza tecnica, espressiva, creativa e di esercizio armonico. Nelle mie composizioni poi, ho cercato varie volte di evocare l’atmosfera creata da persone che improvvisano, come una sorta di omaggio ai valori di spontaneità e di imprevedibilità propri dell’improvvisazione e difficilmente riproducibili nella musica “progettata”. Ho dato per esempio delle indicazioni costituite da materiali armonico-melodici su cui improvvisare (in “Sera”), ho scritto in modo misurato la parte di uno strumento e contemporaneamente a “fasce sonore” quella dell’altro (“Alba”), oppure ho adoperato la notazione degli standard del jazz dando delle armonie su cui improvvisare, controllando però le posizioni degli accordi e “fissando” una voce intermedia (“Cafè 1930”).
Insomma, cerco di coniugare composizione e improvvisazione. Per dirne un’altra, da un pò di tempo apro i miei concerti con “Maña de carnaval” di Luis Bonfa, improvvisando del tutto liberamente sulle prime idee che mi vengono al momento, ed avvicinandomi gradualmente ai materiali tematici del pezzo. Questo mette in moto la mia fantasia e il mio contatto strumentale, lasciando che la musica provenga dalla mia immaginazione anziché essere dettata da uno spartito. Niente di meglio quindi per stare nel momento presente, conquistando maggiormente la partecipazione del pubblico.



.. continua domani ...

venerdì 17 luglio 2009

Speciale Nuccio D'Angelo: mp3 composti dal Maestro Alvaro Company ed eseguiti da Nuccio D'Angelo parte seconda

Registrazioni fatte in occasione di un concerto del 2002 in suo onore del Maestro Alvaro Company da parte del Maestro Nuccio D'Angelo


Piccolo Jazz
Piccolo Jazz
Preludio
Preludio

Ninna Nanna

Ninna_nanna
Un' Immagine ..


Un'Immagine_Schubert 1982

Copyright by BERBEN s.r.l. edizioni musicali

Die Welt von gestern (inedito)
Die_Welt_von_gestern
Metamorfosi (inedito)
Metamorfosi

Si ringrazia il Maestro Alvaro Company e BERBEN s.r.l. edizioni musicali per la gentile concessione.

Intervista a Nuccio D'Angelo di Empedocle70 parte seconda


Berlioz disse che comporre per chitarra classica era difficile perché per farlo bisognava essere innanzitutto chitarristi, questa frase è stata spesso usata come una giustificazione per l’esiguità del repertorio di chitarra classica rispetto ad altri strumenti come il pianoforte e il violino. Allo stesso tempo è stata sempre più “messa in crisi” dal crescente interesse che la chitarra (vuoi classica, acustica, elettrica, midi) riscuote nella musica contemporanea. Lei come compositore e chitarrista quanto ritiene che ci sia di veritiero ancora nella frase di Berlioz?



In effetti abbiamo assistito nel XX secolo ad una incredibile fioritura della letteratura chitarristica. Questo è avvenuto non solo per l’interesse che personalità artistiche eccezionali come Segovia e Bream hanno catalizzato su questo strumento, ma anche per un’esigenza di sonorità nuove e per una crescente curiosità-esplorazione timbrica che ha coinvolto moltissimi compositori. E va considerato anche che la chitarra, in quanto strumento relativamente nuovo, era ancora in gran parte da scoprire. Sono quindi d’accordo nel dire che l’affermazione di Berlioz è stata smentita dalla storia. Nel ‘900 praticamente tutte le grandi firme della composizione hanno dedicato almeno qualche pagina alla chitarra, producendo non pochi capolavori. Basti pensare a “Nocturnal” di Britten o “Quatre pieces breves” di Martin o, in Italia, alle musiche per chitarra (solistiche e da camera) composte da Petrassi. E si potrebbero citare Villa-Lobos, Ginastera e Chavez in Sud-America, o Henze, De Falla, Walton in Europa; e ancora in Italia Berio, Bussotti, Donatoni e così via... Il fatto di non conoscere lo strumento “da chitarrista” secondo me può generare soluzioni e ricerche particolarmente originali, può aprire orizzonti nuovi. Diciamo che, teoricamente (e molto schematicamente), un compositore “troppo-chitarrista” rischia di essere condizionato da combinazioni manuali agevoli e idiomatiche frequentate nei brani di repertorio, e di fermarsi a soluzioni comode ma anche non troppo originali. Un compositore non-chitarrista invece può avere delle esigenze musicali che richiedono trovate strumentali più nuove e coraggiose, e può sviluppare con più oggettività le sue idee musicali senza vincoli dati dalla visione strumentale. D’altra parte si può anche verificare che un compositore non conosca abbastanza lo strumento, e anziché osare percorrere nuovi territori scriva delle cose troppo semplici, di sicura fattibilità, quasi “per non sbilanciarsi”... rischiando così di sfruttare poco alcune ricchezze della chitarra come le sue possibilità polifoniche o il gioco delle risonanze. Dico questo perché a volte mi imbatto in brani in cui la chitarra è trattata in forma quasi monodica! È chiaro che l’ideale sarebbe che il compositore fosse allo stesso tempo dotato di ispirazione, di tecnica compositiva e di una tale conoscenza dello strumento per cui sta scrivendo, da sviluppare bene il materiale scelto e contemporaneamente sfruttare al meglio la sua collocazione strumentale. Ideale realizzato magnificamente da Alvaro Company, esponente di spicco di un importante periodo di fioritura musicale nel dopoguerra, impegnato in ricerche compositive di prim’ordine nell’ambiente fiorentino che faceva capo a Dallapiccola, insieme a compositori del calibro di Bussotti, Prosperi e Smith-Brindle, ma anche eccellente chitarrista, che produsse nel 1960 “Las Seis Querdas”, brano che testimonia una ricerca talmente coraggiosa che Petrassi diceva “impossibile scrivere oggi per chitarra senza avere sul leggio “Las Seis Quaerdas”. Comunque ci sono troppe variabili e combinazioni tra ispirazione e intelligenza compositiva, tra conoscenza della composizione e dello strumento per cui si sta scrivendo, e del resto il modo di sviluppare l’una o l’altra idea musicale cambia di caso in caso e di persona in persona... Insomma, si può parlare solo per grandi linee...

Come affronta da compositore il difficile compito di scrivere per strumenti che non suona o ensemble che non conosce a fondo?

Cerco sempre di dare la precedenza all’idea musicale e al suo sviluppo. Penso che un brano scritto bene dovrebbe suonare bene anche con differenti strumenti (in questo J. S. Bach ha insegnato molto). Insomma, credo in una sorta di oggettività musicale.
Nei brani per chitarra verifico spesso personalmente che ciò che sto componendo sia suonabile e dia un buon risultato sonoro. Per quanto riguarda le musiche che scrivo per altri strumenti, innanzitutto se non li conosco bene mi documento, ma a volte mi servo anche della collaborazione di amici e colleghi maestri dello strumento per cui sto scrivendo, sentendo l’effetto sonoro, chiedendo loro se c’è qualcosa di scomodo o antistrumentale, pronto a correggere e cambiare qualcosa, cercando però di non tradire l’idea fondamentale del brano. Per esempio nel caso di “Quattro Travestimenti” (per flauto dolce e chitarra) ho lavorato fianco a fianco per diversi mesi con David Bellugi (dedicatario del lavoro), ed altrettanto ho fatto per “Spazio” (per fagotto e pianoforte) in cui le parti venivano verificate spesso con gli interpreti (il duo Franco Perfetti - Maria Grazia Dalpasso), e questo è successo anche nella stesura di “Introduzione e Aria” in cui fu il violinista Pietro Horvat a darmi dei consigli.

Ascoltando la sua musica mi sono fatto l’idea che lei venga da una grande molteplicità di ascolti e di influenze, come gestisce questi frammenti di memoria musicale nelle sue composizioni? Li utilizza consciamente o …. li lascia liberamente fluire?

Do molta importanza all’intuizione, al mettermi “in ascolto” mentre compongo. E in questa fase vengono a galla memorie ed esperienze musicali che il tempo ha metabolizzato, trasformato e rigenerato... Così, per esempio, negli anni novanta in diverse occasioni sono venute a galla memorie di esperienze musicali dei miei trascorsi “elettrici”. Naturalmente col tempo riesco sempre meglio a valutare queste influenze, a prenderne coscienza, a dosarle ed utilizzarle con coerenza.

Come è nata la sua amicizia con Leo Brouwer? Ho notato che avete “incrociato” le vostre strade diverse volte .. lei gli ha anche regalato una sua composizione e ha più volte suonato le sue musiche …

Con Leo ci siamo conosciuti - come dicevo - per telefono, quando lui si complimentò per “Due Canzoni Lidie ” e mi promise di aiutarmi per la pubblicazione. Successivamente ci incontrammo saltuariamente a Firenze nel periodo che va all’incirca dal 1987 al 1993, quando collaborammo in un progetto ideato da Paolo Paolini: la “Guitar Symphonietta”, orchestra di chitarre in cui Brouwer era ospite in qualità di compositore e direttore. Lui veniva una o due volte l’anno per dirigere i nostri concerti, tenendo anche qualche seminario a Firenze. Si lavorava insieme per provare, scegliere i pezzi del repertorio, mentre si facevano grandi cene con grandi risate... Fu un periodo molto stimolante, che fu documentato dal cd “Leo Brouwer conducts Guitar Symphonietta”. In questa occasione incidemmo i suoi brani originali “Acerca del cielo, el ayre y la sonrisa” e “Paisaje Cubano con rumba” e suonammo in tutti i nostri concerti le sue elaborazioni di canzoni dei Beatles “From Yesterday to Penny Lane”, e il suo “Paesaggio Cubano con pioggia”. Fu infatti in quel periodo (1989) che gli dedicai “Corale” (per chitarra, vibrafono e clavicembalo elettronico) come regalo di compleanno. Successivamente mi chiese di scrivere un pezzo per archi, che avrebbe proposto ad alcune orchestre che dirigeva in quegli anni. Nacque così “Due Liriche per archi”, che dimostrò di apprezzare molto. Poi, finita la sua esperienza con l’orchestra di Cordoba e la nostra con la “Guitar Symphonietta” è diventato sempre più difficile incontrarci e adesso ci siamo quasi persi di vista, e mi dispiace.

Ho notato che lei ama Piazzolla. Come si trova a suonare il suo repertorio? Qual è la sua visione del Tango?
Il mio rapporto da interprete con le musiche di Piazzolla nasce nel periodo in cui con la “Guitar Symphonietta” suonammo e incidemmo “Fuga y Misterio” in una intelligente trascrizione di Paolini. Del resto come si può non conoscere quest’autore? Negli ultimi decenni, e in special modo dopo la sua morte, i suoi lavori sono stati oggetto di interpretazioni ed elaborazioni da parte di musicisti di area classica, pop, jazz, per non parlare di miriadi di gruppi che sono nati per eseguire esclusivamente le sue musiche. Se vediamo il ‘900 come un secolo dove le mescolanze e le contaminazioni stilistiche hanno avuto un posto di rilievo (basti pensare alle “scuole nazionali” spagnole, russe, sud-americane fiorite sopratutto nella prima metà del secolo), Piazzolla si pone secondo me come uno tra i musicisti più emblematici di questa tendenza, in quanto ha contribuito come pochi ad abbattere alcune barriere stilistiche, mostrando una rara abilità di comunicare a un pubblico fortemente eterogeneo. In effetti, se osserviamo bene, nella sua musica c’è tutta la passione melodica del romanticismo, ma contemporaneamente col suo bandoneon si esprime con ornamentazioni di tipo barocco, e poi c’è tutta la storia e la sensualità del tango, quindi quell’impronta popolare che ha fatto arrivare i suoi lavori anche nei circuiti della musica leggera. Quindi non posso che apprezzare le sue opere e l’impronta personalissima che ha lasciato.
I miei due omaggi fatti a questo compositore, insieme all’elaborazione di “Cafè 1930” nacquero da situazioni occasionali. In effetti non avevo progettato di dedicarmi ai suoi lavori, ma successe che in un concerto dedicato quasi esclusivamente alle mie musiche si richiedeva un brano di altro autore, che fosse “di confine” e così, dopo aver analizzato alcuni brani di Piazzolla, decisi di optare per una composizione originale, che però contenesse un pò della sua “anima”. Chiamai il brano “Astor, vecchio Astor!” (1994). Un anno dopo il quintetto “Atmos” mi chiese di inserirlo in un concerto insieme a musiche di Piazzolla e Bolling, ma non avevano alcuni degli strumenti richiesti dalla partitura. Così, dopo avere scartato la possibilità di trascriverlo, decisi di comporne uno ex novo che chiamai “La leggenda di Astor”. Per quanto riguarda “Cafè 1930”, stavamo lavorando con Peppe Porcelli al progetto per un cd con composizioni mie e sue, così pensai di scrivere qualcosa che ci desse l’occasione di improvvisare e tirare fuori un pò del nostro feeling dei tempi in cui, negli anni 70, avevamo suonato insieme in vari gruppi pop. “Cafè 1930”, appunto, era perfetto per questo intento, con il suo chorus ottimo per improvvisare. In questa elaborazione utilizzai solo il tema principale (16 battute) muovendomi poi come avrei fatto con una mia idea, cioè lasciando che gli elementi si espandessero e generassero altri materiali, ma sempre legati alla stessa matrice di origine.


.. continua domani ..

giovedì 16 luglio 2009

Speciale Nuccio D'Angelo: mp3 composti dal Maestro Alvaro Company ed eseguiti da Nuccio D'Angelo prima parte

Brano composto dal Maestro Alvaro Company e suonato dal Maestro Nuccio D'Angelo

Oneiron

Copyright by Sugarmusic S.p.A. – Edizioni Suvini Zerboni, Milano

Si ringrazia il Maestro Alvaro Company e le Edizioni Suvini Zerboni per la gentile concessione.

Intervista a Nuccio D'Angelo di Empedocle70 parte prima


La prima domanda è sempre quella classica: come è nato il suo amore e interesse per la chitarra e con quali strumenti suona o ha suonato?

Ho incominciato a studiare musica in famiglia, sotto la guida di mio zio Francesco Bologna, ottimo clarinettista, che suonava anche la chitarra sopratutto come supporto alla sua attività di compositore e orchestratore, cioè per verificare le armonie che scriveva. A quei tempi si studiava innanzitutto teoria e solfeggio, così io intrapresi gli studi senza ancora sapere che strumento avrei suonato. Dopo alcuni anni, quando il mio maestro considerò ultimati gli studi teorici si cominciò a parlare in famiglia dello strumento che avrei potuto suonare e proprio in quei giorni, in barba a tutte le problematiche che i miei si ponevano circa la decisione da prendere, io presi dei pezzi di legno e mi costruìi una rudimentalissima chitarra. Me la ricordo ancora: aveva per corde i lacci con cui si legavano le confezioni delle “pastarelle”, fissati con dei chiodi. Mi misi a suonare subito... (ricordo che i primi intervalli che estrassi dal curioso arnese erano delle quarte). Questo bastò ai miei per capire che avevo già scelto, così dopo qualche settimana una sera vidi arrivare mio zio con un grosso pacco legato alla sua moto. Mi aveva comprato una “Estudiantina”. Cominciai quella sera stessa ad armeggiare prendendo ad orecchio delle melodie e dopo poco tempo mio padre mi comprò il metodo “Anzaghi” su cui studiai per i primi anni sempre sotto la guida di mio zio.
Da allora sono passati più di quarant’anni e ho avuto varie altre chitarre. Ho un bel ricordo della Gibson GS Custom che ho suonato dai sedici ai vent’anni quando, oltre a studiare il repertorio classico. facevo esperienze di “rock progressivo”. La vendetti nel 1978 (e me ne pento ancora) perché non prevedevo più di utilizzarla e per potermi comprare una chitarra da concerto di Alan Wilcox. Da allora ho sempre usato le Wilcox. La prima ce l’ho ancora ed è in cedro, con diapason 66,6, ma dal 1995 preferisco usare un suo modello in abete con diapason 65. Quando mi si presenta l’occasione provo (e spesso apprezzo) chitarre di altri liutai, ma non riesco a sentirmi a mio agio altro che con le chitarre di Alan, sopratutto per quanto riguarda le qualità timbriche e di tenuta del suono
.

Come è nato il suo interesse verso il repertorio contemporaneo e quali sono le correnti stilistiche nella quale lei si riconosce maggiormente?

Sono sempre stato curioso rispetto a qualsiasi genere e sperimentazione musicale.
Al mio primo maestro sono grato per avermi lasciato molta libertà, e per non avermi imposto restrizioni stilistiche. Così mi incominciai ad interessarmi alla musica contemporanea quando avevo all’incirca 18 anni, in maniera molto naturale direi. Del resto avevo suonato diverse cose del repertorio classico, e avevo voglia di nuove atmosfere. Avevo seguìto un pò l’evoluzione del jazz ed erano gli anni in cui il free (che si serviva di materiale fondamentalmente atonale) era considerato ormai un fatto storicamente compiuto.
Anche nel pop si ascoltavano sperimentazioni che esulavano vistosamente dal campo tonale (basti pensare “Ummagumma” o alcuni episodi di “Atom heart mother” dei Pink Floyd). Perfino le colonne sonore ci avevano abituato alla continua convivenza tra materiali di tipo classico-romantico misto a musica atonale, dove la “rumoristica” veniva continuamente mixata con le sonorità più ortodosse. Aggiungerei che tutte le forme artistiche del ‘900 negli anni ’70 avevano ormai percorso un lungo processo evolutivo, e i dibattiti sull’arte contemporanea, sia con ammirazione che con toni da scomunica erano costantemente presenti nella società. Insomma, per una serie di motivi, i tempi erano più che maturi perché chi si occupava di musica, sopratutto se giovane, rivolgesse l’attenzione verso la nuova musica. Nei pezzi che scrivevo dai quindici ai vent’anni, mi ricordo bene che alternavo armonie tonali (ma senza rispettare le loro tradizionali funzioni armoniche) ad accordi più moderni, di cui sperimentando il fascino dalle loro dissonanze e delle “tensioni armoniche” non risolte. Non a caso, nel periodo in cui cercavo un maestro di chitarra per fare un salto di qualità, mi imbattei nel brano “Las seis cuerdas” di Alvaro Company e pensai: “Se in Italia c’è uno che suona e compone così devo andare a conoscerlo subito”. E così feci, dando così iniziò alla mia “avventura” fiorentina che dura ancora.

Per quanto riguarda la seconda parte della domanda a proposito di influenze o correnti stilistiche... non so... La mia curiosità mi ha spinto ad interessarmi delle opere di molti autori. Mi ricordo la sorpresa e l’incanto nell’ascoltare le musiche di Edgar Varese (ricordo ancora bene l’esperienza del primo ascolto di “Deserts”) o dei “Gurrelieder” di Arnold Schönberg (e in generale l’interesse con cui leggevo i suoi scritti teorici). Mi intrigavano molto le composizioni-improvvisazioni di Sylvano Bussotti, e sopratutto il libro “Silenzio” di John Cage, che portai sempre con me per un periodo come fosse una Bibbia. E poi apprezzavo la polivalenza stilistica di Britten e di Dallapiccola, autori che dimostravano di conoscere tutta la storia della musica e di servirsene per creare qualcosa di nuovo, ma... nel loro linguaggio, operando una loro sintesi. E nello stesso tempo mi stupivo per le opere di Ravel che sentivo modernissimo nella sua concezione musicale (checché se ne dicesse negli anni post-Darmstadt...). Ecco, io ho ammirato le musiche di molti autori del ‘900 apprezzandone l’originalità e la sapienza, ma non mi sono mai sentito fan di qualcuno di loro, né tantomeno parte di una corrente. Ho sempre avuto il piacere di cercare un mio stile, operare una mia sintesi, ascoltare qualcosa che venisse dal mio interno... In effetti questi compositori citati, insieme a tanti altri, sono stati catalogati in gruppi e correnti stilistiche dagli storici spesso a-posteriori, ma credo che in molti casi anch’essi si sentissero autonomi, “cani sciolti”... un pò come me.

Io mi sono avvicinato alla sua musica ascoltando la prima volta Due Canzoni Lidie qual è il suo rapporto con questo brano? Glielo chiedo perché credo siano le sue musiche più interpretate…

“Due Canzoni Lidie ” è senzaltro il mio pezzo più fortunato, e lo fu fin dalle prime bozze. L’idea di uno “Studio in sette” (così avevo chiamato la prima stesura) era vincente fin dal progetto, grazie ad alcune caratteristiche che lo identificano, come l’ uso di molti suoni armonici e di alcuni campi armonici in sequenza con forte presenza del colore lidio. E poi c’era un “taglio” chitarristico particolarmente indovinato: una formula ritmica a corde a vuoto che dava modo alla sinistra di produrre diversi elementi melodici, ornamentali, contrappuntistici, spaziando in molte posizioni. Queste furono le principali caratteristiche di base in cui credetti subito e su cui improvvisai a lungo per il primo periodo, in cerca di idee tematiche e sviluppi. Esplorando, vagando, giocando con questi materiali ancora in embrione, nel giro di qualche mese incominciai a concretizzare delle bozze scritte. Mi ricordo che in quel periodo andai a Genova per sentire un concerto di Julian Bream (eravamo attorno al 1981) e lasciai in macchina la teca con tutti gli appunti; il brano era già a un discreto punto. Ebbene me lo rubarono! Per fortuna mi ricordavo bene il senso del pezzo ed alcune parti, così ricominciai a scriverlo da capo. Tutto il processo compositivo, dalle prime idee all’ultima stesura, fu abbastanza lungo (attorno a tre anni), sia perché interruppi varie volte, sia perché in quegli anni non avevo molta velocità di scrittura. Ricordo ancora con piacere i complimenti che Alvaro Company e il mio maestro di composizione Gaetano Giani-Luporini, mi fecero nell’ ascoltare le varie stesure del lavoro. Poi il liutaio Andrea Tacchi mi chiese una registrazione da portare con sé in un festival di chitarra in Francia per fare conoscere il brano ai partecipanti. Dopo pochi giorni mi telefonò dicendomi che Leo Brouwer aveva sentito la composizione e gli era piaciuta molto, quindi avrei fatto bene a contattarlo. Così lo chiamai immediatamente e lui mi offrì una lettera di presentazione per una casa editrice di mia scelta. Io quasi non ci credevo... e scelsi la Max Eschig.
Adesso sono passati circa 25 anni dalla stesura definitiva di “Due Canzoni Lidie ”. L’ho suonato un ‘infinità di volte. All’inizio lo studiavo poco, come se la forza d’inerzia che lo aveva generato me l’avesse “installato” nella memoria profonda. Dopo un pò di anni ho incominciato a studiarlo quasi come se fosse un pezzo non mio. Adesso curo molti particolari riguardanti le atmosfere e la tecnica strumentale per separare bene le voci, e sento continuamente che posso migliorarne l’esecuzione, rendendolo sempre più intenso, e sempre con più consapevolezza. In tutti questi anni ho cambiato pochissimi aspetti dell’interpretazione e niente delle note; ho solo corretto alcuni errori di stampa. Insomma lo vedo ormai un pò come fosse il pezzo di un altro, ma con una familiarità diversa ovviamente, perché l’ho “visto” nascere. Lo so che sarebbe più appropriato dire che l’ho “fatto” nascere, ma questo è un mio vecchio modo di sentire l’atto del comporre: come se ascoltassi quello che il pezzo vuole dire, o dove vuole andare, quindi come se lo aiutassi a manifestarsi... Anche se sono daccordo con Berlioz nel dire che nella composizione c’è “più traspirazione che ispirazione”, credo che in quel periodo di lavoro in cui il brano viene concepito ci sintonizziamo con una parte di noi così intuitiva, profonda, misteriosa, da sembrare davvero di avere un collegamento con un’altra realtà o entità.

.. continua domani ...