mercoledì 22 luglio 2009

Intervista con Marco Valente, responsabile della casa discografica indipendente Auand, parte prima di Empedocle70


Raccontaci come è nata l’etichetta, come hai scelto il nome, il logo, come pensavi fosse il jazz, in particolare quello italiano, quando hai iniziato e come lo vedi oggi, cosa volevi fare e se pensi di esserci riuscito, quali erano il tuo back ground e i tuoi modelli…

L'idea dell'etichetta probabilmente è dentro di me da sempre, da quando ho iniziato ad ascoltare musica intorno ai 13 anni, a voltare e rivoltare tutti i dischi che mi capitavano a tiro e che mi procuravo da parenti e amici. Ne studiavo ogni minimo particolare e tutt'ora faccio molta attenzione non solo alla musica ma all'oggetto in sè. Il nome è venuto fuori da una selezione di 70 possibilità, depennate confrontandomi con David Binney ed un professore di italianistica alla New York University. Volevo che il nome suonasse bene anche oltreoceano pur non tralasciando uno spiccato sapore mediterraneo. Alla fine la scelta è caduta su Auand che in dialetto barese ha un duplice significato: prendi (da cui la manina) e attenzione (in senso esortativo). Il logo, come tutta l'impostazione grafica, è un colpo di genio del grafico Cesco Monti e approfitto per ringraziarlo della professionalità e dell'amicizia. Il jazz italiano fin dagli anni '80 ha avuto un'evoluzione repentina, grazie ad alcuni esponenti che iniziavano a prendere consapevolezza dei propri mezzi e ad abbandonare inutili soggezioni nei confronti dei colleghi americani. Il suono degli italiani è talmente carico del nostro background (lirico, melodico) che da anni riusciamo ad esportarlo ovunque (Rava, Fresu, Bollani, Minafra, Trovesi, Pieranunzi). A documentare il jazz italiano ci hanno pensato alcuni pinoieristici produttori italiani come Sinesio, Bonandrini, Spagnoli e Veschi. Tra le mie influenze più grandi citerei le tedesche JMT di Stefan Winter e ECM di Manfred Eicher (dal cui catalogo però pesco solo nei primi 20 anni). Il mio background è assolutamente da autodidatta. In casa non si ascoltava musica, nè jazz nè di altro genere. E' stata la mia curiosità a spingermi alla scoperta della musica, partendo dal pop e dal rock fino a scoprire il jazz e ad innamorarmene al punto di farne un mestiere oltre che una passione.

Quali sono i titoli che hanno funzionato meglio in termini di vendita?

La prima pubblicazione, X-Ray di Petrella, è stata da subito ben accolta sia dalla critica sia dal mercato, richiedendo due ristampe. Fu decisamente il modo migliore per iniziare l'esperienza di produttore. Era mia intenzione partire con il piede giusto per cui attendevo la giusta occasione. Comunque, oltre X-Ray, i più venduti sono Virus e Hope di Bearzatti, il disco di Cuong Vu con Bill Frisell e Ma.Ri di Angeli e Salis.

Quali dischi ti penti di aver fatto e quali invece avresti voluto e non sei riuscito a realizzare?

Quando un produttore decide di centellinare le uscite, di pubblicare una media di un paio di dischi l'anno è difficile avere pentimenti. Piuttosto cambierei la domanda in "quale produzione secondo te avrebbe meritato più attenzioni" e la risposta sarebbe ricaduta sul CD dei Sax Pistols, dal vivo un'autentica potenza, e su Tossani, votato come miglior talento al Top Jazz del 2006 ma mai espoloso sulla scena nazionale.
Cosa non sono riuscito a realizzare? un sacco di progetti. Davvero tantissimi! Spesso improbabili, dettati da una fantasia che galoppa più veloce della realtà... Fantasticare è la parte più bella di questo mestiere, chessò... pensare ad un gruppo con Petrella e Ornette... tanto sognare è gratis!


Il fenomeno delle etichette indipendenti sembra essere una cosa relativamente recente in Italia e comunque legata più all’indie rock o al punk, mentre nel mondo del jazz sono sempre esistite portando alla scoperta di notevoli talenti, la mia sensazione è che comunque sia le indipendenti che le major cerchino di dare all’ascoltatore consumatore ciò che vuole, da parte delle label indipendenti forse c’è la possibilità di un rapporto più fidelizzato col proprio mercato, basato sulla qualità e la propria reputazione. Alla fine non credo che abbia importanza la vastità del mercato ma quello che si fa … alla fine che differenza c’è tra un cdr da 30 copie e .. l’ultimo disco di Madonna?

Nel jazz quasi tutto è indipendente, persino gran parte dei capolavori di Miles, Ornette, Coltrane... In Italia, a parte qualche rarità su vinile Atlantic e, negli ultimi anni, EMI Italia (con marchio Blue Note) e Universal Italia (con marchio EmArcy), tutto è sempre stato indipendente. Chiaro che alla fine quello che conta è la musica. Molti dischi di Prestige di Miles sono più rinomati di alcuni dei suoi Columbia. Alla fine critica e pubblico definiscono il mercato. Ma è anche vero che se produci 30 copie in cdr difficilmente avrai visibilità.

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