domenica 2 novembre 2008

Sulla traduzione di Fauvel

Questo testo è, con lievi modifiche, la prefazione ad una piccola antologia di poesie di Catullo tradotte in italiano da Fausto Bottai. La propongo qui perché ritengo che, al di là della sua funzione occasionale, contenga alcune osservazioni interessanti sul tema della traduzione poetica in generale. Anche grazie ad alcuni esempi di traduzioni 'multiple' dello stesso testo, opera di diversi autori che, come vedrete, si sono cimentati in epoche diverse con la poesia catulliana.


Fauvel




Tradurre è ripensare un testo nella propria lingua. Cito, condividendone il senso, le parole di Mario Ramous dall'Introduzione alla sua raccolta di traduzioni catulliane (Garzanti, 1988): Certo Ennio non aveva tre cervelli, come riteneva, perché parlava tre lingue, ma con l'unico cervello che possedeva pensava in tre modi diversi secondo la lingua usata di volta in volta.
Qui, se si bada, risiede il primo nodo della traduzione, compresa la traduzione di un messaggio emesso nella stessa lingua del ricevente, che provvede, come per un messaggio formulato in altra lingua, a decodificarlo e ricodificarlo (ripensarlo) nel sistema del proprio uso linguistico
. Queste parole suggeriscono almeno un paio di considerazioni di decisiva importanza per definire il senso della traduzione poetica: prima di tutto, il rifiuto del calco, o meglio dell'illusione che sia possibile una traduzione 'fedele', cioè non sostitutiva del testo originale (il cui 'merito' sarebbe quello di fornire una possibile interpretazione del testo senza sovrapporsi ad esso). Pretesa illusoria, poiché ogni lingua, a parte le sue peculiarietà lessicali, sintattiche, fonetiche etc., ha i suoi propri irripetibili 'ingranaggi poetici', i suoi caratteristici moduli ritmici e metrici, per cui, se si guardano le cose da questo punto di vista, non si può non condividere l'opinione di quanti affermano che la poesia è intraducibile.. Ma, come sostiene Ramous, se irripetibili sono i valori formali rispetto alla lingua in cui è stato pensato il testo, niente impedisce che la stessa operazione possa essere ripetuta nell'ambito di un altro sistema linguistico, rispettando i limiti di pertinenza che gli sono propri. E qui cade opportuna un'altra decisiva considerazione: se non esiste, come appena affermato, un messaggio che può essere fedelmente 'copiato', sempre uguale a se stesso, dal contesto linguistico in cui é nato, ma anzi ogni volta deve essere smontato e rimontato in un contesto diverso,si finisce necessariamente per "storicizzare" ogni operazione che a partire da quel testo viene di volta in volta tentata. In altre parole, non ha senso isolare come 'due stelle' fisse i due contesti linguistici che si fronteggiano. Da un lato, quello della lingua di partenza, abbiamo, sì, un'entità ormai codificata ed immodificabile (salvo la libertà di leggere e quindi interpretare il testo nella sua stesura originale); dall'altro lato, quello della lingua d'arrivo, siamo però in presenza di una materia vivente, continuamente modificabile e manipolabile. Ciò che naturalmente avviene secondo le soggettive suggestioni culturali e temperamentali di colui che quella materia plasma e riplasma nel 'suo' tempo storico. Non potrebbe essere altrimenti. Non esiste un lingua d'arrivo da contrapporre astrattamente, astoricamente ad una lingua di partenza. Gli esempi che proporremo delle diverse traduzioni catulliane, anche se esigue di numero, saranno sufficienti, io credo, a chiarire senza ombra di dubbio i termini della questione: sette secoli di storia di una lingua e di una letteratura (quella italiana) non sono passati invano... Usi, costumi, strutture linguistiche e metriche si sono profondamente trasformati da periodo a periodo (a volte, come è accaduto nel corso del nostro secolo, molto velocemente). E se facciamo la storia delle traduzioni di un testo, possiamo verificare facilmente come usi, costumi, strutture, proprie di ogni fase storica, abbiano inciso nel modo in cui quello stesso testo è stato di volta in volta 'ricostruito'. Tanto che pare francamente ozioso sostenere, come qualcuno si ostina a fare, che tale o tal'altra forma metrica italiana sarebbe la più adatta a rendere l'aura poetica di un originale in lingua 'straniera'. Ho in mente l'intervista a Giovanna Bemporad, di qualche anno fa, in cui, presentando la sua traduzione dell' Odissea, affermava: "Non ho voluto fare come Quasimodo, che rende 'novecenteschi, poeti che resistono da duemila anni: nelle sue traduzioni quelli non sono più gli archetipi insuperabili della grande poesia lirica, ma vengono ridotti a frammenti 'ermetici'.." Ma chi vuole sostenere il contrario, e cioè che qualsiasi traduzione non comporti una 'riduzione' dell'originale a 'frammenti' di qualcos'altro? I greci e i latini ignoravano l'endecasillabo della Bemporad esattamente come i versicoli dell' Allegria ungarettiana o le parolibere futuriste..Che senso ha rimproverare il 'novecentesco' Quasimodo? E il cinquecentesco Annibal Caro? E il settecentesco Monti? Secondo Luca Canali l'attaccamento di Giovanna Bemporad all'endecasillabo è come un'incontro ancestrale, un'affinità elettiva con la tradizione (italiana) per cui ha fatto poesia italiana anche traducendo gli Inni alla Notte di Novalis. Appunto, ha ridotto a frammenti, sia pure non ermetici, quel che nell'altra lingua era tutt'altra cosa...




XLVI

Iam ver egelidos refert tepores,
iam caeli furor aequinoctialis
iucundis Zephiri silescit aureis.
Liquantur Phrygii, Catulle, campi
Niceaeque ager uber aestuosae:
ad claras Asiae volemus urbes.
Iam mens praetrepidans avet vagari,
iam laeti studio pedes vigescunt:
O dulces comitum valete coetus,
longe quos simul a domo profectos
diversae varie viae reportant.





46

Già riede Primavera
col suo fiorito aspetto,
già cede al zeffiretto
di Borea il rio furor.
Lascia, lascia, o Catullo
di Frigia ormai le sponde,
e di Nicea feconda
le torbie valli ancor!
d'Asia rivolgi il corso
alle città preclare...
Ah! che non so frenare
di muovermi l'ardor.
Lo stesso piè già freme
di vagar, pel desìo,
salvete, amici, addio,
delizia del mio cor.
Voi da lontani lari
veniste a me vicino,
colà vario cammino
riporteravvi or or.
(G.A.Scazzola)


Già il tepore che scioglie le nevi
riporta primavera, e già al dolce
soffiare dello zéfiro si quietano
i furori del cielo equinoziale.
Lascia, Catullo, la pianura frigia
e i campi fertili di Nicea torrida
e vola alle famose città d'Asia.
Già freme il cuore in ansia di vagare,
già lieto il piede sente nuova forza.
O care compagnie d'amici, addio!
Lasciata insieme la patria lontana,
là ci riportano ora varie vie.
(S. Quasimodo)



E’ primavera, tornano i giorni miti
e la brezza leggera dello zefiro
spegne nel cielo la furia dell’inverno.
Lasciamo i campi della Frigia, Catullo,
le pianure fertili e afose di Nicea;
via in volo per le città luminose dell’Asia.
Irrequieto ti brucia una febbre di andare
e nel desiderio ritrovi la tua forza.
Addio, dolce compagnia di amici:
partiti insieme dalla patria lontana,
ognuno per strade diverse ritorneremo.
(M.Ramous)



CI

Multas per gentes et multas per aequora vectus
advenio has miseras, frater, ad inferias,
ut te postremo donarem munere mortis
et mutam nequiquam alloquerer cinerem:
quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum,
heu miser indigne frater adempte mihi.
Nunc tamen interea haec prisco quae more parentum
tradita sunt tristi munere ad inferias,
accipe, fraterno multum manantia fletu,
atque in perpetuum, frater, ave atque vale.


101


Per molte genti e molti mar condotto,
o mio germano, finalmente io sono
a queste esequie miserande addotto,
per far l'ultimo a te funebre dono.

E poiché te medesmo a me non buono
destino, ahi!, tolse, e il tuo bel stame ha rotto
indegnamente, ahimé, vo' dir qui, prono
sulla tacita polve, un vano motto.

Questi doni però tu accogli intanto
che ne' funebri sacrifici offrio
dei maggiori il costume antico e santo.

Questi accogli pur tu, ch'assai del mio
sono grondanti ancor fraterno pianto;
e addio per sempre, o mio germano, addio.
(G.Parini)

Ho attraversato popoli e mari

Fratello mio eccomi ora da te

Eseguo questi nudi riti funebri

Perché tu abbia l'offerta dei morti

E alle tue ceneri silenziose

Mormoro qualche inutile parola



Proprio te mi ha rapito

La sorte che brutalmente

Mio povero fratello ti ha ucciso

Gli onori ai morti secondo l'uso dei padri

tristemente ti porto Prendili

Così irrorati di pianto di fratello

Ti dico addio fratello addio in eterno

(G.Ceronetti)




Ho attraversato il mare
e la terra
e poi la terra e il mare,
o fratel mio, per giungere
a queste tristi esequie,
e qui deporre
il dono estremo dei morti
sussurrando
vane parole alla tua muta cenere.
Perché il fato, o infelice,
proprio te
ha condannato,
proprio te
ha portato via
iniquamente.
Ma ora accogli,
ti prego,
la triste offerta che si deve ai morti,
come vuole
il costume dei padri,
accoglila
così intrisa di pianto.
Addio,
addio per sempre,
fratello.
(F.Bottai)

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