lunedì 4 maggio 2015

Intervista a Giacomo Merega con Andrea Aguzzi



Come è nato il tuo interesse per il basso elettrico? Con che strumenti suoni e con che strumenti hai suonato?
Presi in mano il basso a 14 anni perche' volevo suonare rock, molto semplicemente. A quel punto, strimpellavo un po' la chitarra, avevo psuedo-studiato un poco il violino da piccolo ed ero interessato istintivamente agli strumenti a corda; e forse del basso mi attraeva gia' il fatto di percepirlo 'inside the music' e non 'on top of it'. Ma questa e' una congettura fatta a posteriori, non fu una scelta consapevole allora. E' vero pero' che avevo sempre avuto l'abitudine di cercare di canticchiare in testa le note del basso delle canzoni, sebbene non mi fosse stato insegnato il canto polifonico.
Da alcuni anni, cioe' pressapoco dal mio arrivo a NYC da Boston, sono ritornato a suonare bassi a 4 corde e passivi. E' stato un ritorno alle origini, un processo di purificazione sonora ma anche di personale storicizzazione di uno strumento anomalo come il basso elettrico. Al momento, sto suonando un archtop signature model fatto per me dal bravissimo liutaio Domenico Moffa. Lo suono sull'ultimo disco, 'The surface of an object', ma lo strumento su cui ho formato l'estetica bassistica, (nel timbro e nel gesto) di oggi e che tuttora suono di piu' e' un basso in cui mi imbattei per puro caso, grazie ad un endorsement offerto alla band del chitarrista Bryan Baker, di cui facevo parte. E' un First Act Delgada, molto simile ad un Gibson Thunderbird, ma col manico avvitato. Ricordo che lo ricevetti con riconoscenza come si riceve, appunto, un regalo ma senza grandi aspettative, e che invece in breve tempo mi porto' ad abbandonare e vendere quasi tutti i miei altri bassi, piu' costosi, a 5 corde e attivi.
Negli anni bostoniani, quando suonavo molta musica microtonale, che fosse araba tradizionale con la band Zilzala o fusion con David Fiuczynski o contemporanea con la Boston Microtonal Society, suonavo principalmente fretless (avevo un 5 corde acustico di Rick Turner ed un Fender Jazz che ho tuttora). Oggi molto meno.

Quali sono state e sono le tue principali influenze musicali
Doverosamente, cito fra le mie influenze alcuni dei miei maestri, con molti dei quali ho avuto ed ho anche la fortuna di collaborare: Ran Blake, Joe Maneri, Anthony Coleman, Joe Morris, David Tronzo ed Eliot Fisk.
Tutti facciamo i conti con uno spettro di influenze stratificate nel tempo e di diversa natura e grado di consapevolezza, incluse quelle che si crede o magari si spera di avere alle spalle, e di tutte queste siamo la somma. Per quanto mi riguarda, ci sono le influenze di oggi a cui mi trovo ad accostare quelle di ieri l'altro (tutto il periodo pre-jazz, scoperto poi a 14 anni), mentre quelle di ieri, cioe' del decennio (1994-2004) dominato da ascolti e studi jazzistici nel senso di tradizione in cui inscriversi e di vocabolario formalizzato/deterministico e relativa pedagogia, sono oggi in gran parte messe in disparte. La mia dialettica con la maggior parte del jazz e' di conflitto da molti anni.
Nelle influenze di oggi non c'e' un'agenda o una programmaticita' lineare, ci sono ad esempio Feldman ed il suo opposto Stockhausen, Josquin, improvvisatori vecchi e nuovi come Evan Parker, Nate Wooley, Cecil Taylor e Tyshawn Sorey, bands come The Walkmen, Foals e Deerhunter. Amo concentrarmi su musica che mi permetta un ascolto specializzato/selettivo come ad esempio Sciarrino, Xenakis, Partch, Ligeti, Merzbow, Meshuggah e Alasnoaxis. Mi rendo conto che sto andando a ruota libera.... paradossalmente, pero', sono scettico nei confronti dell'eclettismo musicale come fede, per il rischio che diventi acritico, che perda un'estetica informante, una direzionalita' che ritengo essenziale nell'ascolto quale primo stadio della composizione.
Ascolto molta musica per strumenti a corda, dalla kora all'oud, alla pipa e molta musica per chitarra. Fra i bassisti elettrici seguo in primis Skuli Sverrisson, e apprezzo il bassista siciliano Daniele Camarda, che fu una scoperta importante al mio arrivo a Boston. Anche per i bassisti vale la dinamica dell'oggi/ieri/ieri l'altro, quindi in questi anni mi sono riappassionato a suoni di bassi utilitaristici, dati per scontati e senza frilli, come Robert DeLeo degli Stone Temple Pilots.

Poi hai fatto il salto di qualità, sei andato negli Stati Uniti e hai studiato con Joe Maneri al NEC e Boston Microtonal Society, che differenze hai travato rispetto all’Italia e cosa significa poter studiare e suonare negli Stati Uniti, a New York?
Non dimenticherei appunto che fra Genova e NYC ci sno stati sei anni di Boston, dove ho studiato alla Berklee e poi al New England Conservatory (NEC, che ho assai preferito). Boston potrebbe essere una citta' invisibile di Calvino, la citta' fatta solo di scuole. Con Boston oramai ho fatto la pace, e ci ritorno volentieri, ma questo suo aspetto - l'eccessiva dipendenza dall'accademia - e' un limite pesante della scena musicale e lo si avverte, vivendoci.
A New York la vitalita' e la varieta' della scena musicale restano forti, ed il livello altissimo. In realta', da quando e' nata mia figlia, lo scorso Maggio, vado a sentire molta meno musica che in passato e mi sembra di vivere in una campana: la scena e' come una droga, ed ha le sue controindicazioni. Non potrei pero' fare un paragone con la situazione genovese o italiana poiche', piu' degli anni che sono passati, pesa il fatto che ero un musicista molto diverso a Genova, con diverse esigenze ed ambizioni rispetto ad oggi. Si tratta di un bel salto, questo e' sicuro. Ma per tutto c'e' un prezzo, e poi New York si sta sinistramente riempiendo di hipsters con white collar jobs - che non contribuiscono in alcun modo alla vita culturale della citta' - e sta marginalizzando i propri artisti, la cui presenza ed il cui input vengono dati per scontati da troppo tempo. E qualcosa potrebbe cambiare, questo primato culturale potrebbe presto svanire. Ho letto proprio oggi una dichiarazione di uno dei Lightning Bolt - forse il bassista? - in cui diceva che Manhattan non ha una piu' scena musicale e che per Brooklyn sara' presto lo stesso. Premesso che lui parlava di un certo tipo di underground rock o post-rock che in effetti si e' decentrato gia' da tempo, io credo che quest'iperbole abbia molto di vero anche trasversalmente. Dopotutto, il declino del post-minimalismo negli stessi minimalisti e poi nelle nuove leve con Bang on a Can eccetera e' un esempio emblematico, ma non il solo, di un conformismo 'corporate' che trita quasi tutto, anche qui a New York.


Quale significato ha l’improvvisazione nella tua ricerca musicale? Si può tornare a parlare di improvvisazione in un repertorio così codificato come quello classico o bisogna per forza uscirne e rivolgersi ad altri repertori, jazz, contemporanea, etc?
L'improvvisazione e' una metodologia/comportamento primario, primordiale ed in quanto tale non puo' scomparire. Gli aspetti di estemporaneita' e suscettibilita', oltre alla possibilita' di sperimentare sulla 'sociologia' della performance, sono cio' che piu' mi lega all'improvvisazione, il cui rapporto (o non rapporto) con l'assetto compositivo e' al centro della mia ricerca da tempo. Premettendo che non concordo con chi, come Berio, dava all'improvvisazione uno status di inferiorita' rispetto alla musica composta per un supposto minore potenziale di suddivisione in particelle controllabili ed articolabili di senso musicale, di sicuro la pratica improvvisativa ha giovato a molti compositori anche recenti, da Messiaen a Scelsi. Altrettando evidentemente, improvvisatori come Threadgill, Braxton e Zorn hanno dato alla propria musica una dimensione ulteriore grazie alla ricerca specifica in ambito compositivo. Su questa simbiosi/osmosi/dicotomia si potrebbe parlare molto piu' a lungo dello spazio che abbiamo qui.
Io sono per un'improvvisazione concentrata sulle microstrutture e sulle piu' piccole articolazioni sonore non meno che sulle macrostrutture e i modelli formali, un'improvvisazione linguisticamente trasversale, necessariamente imbastardita ma che non insegue il mito del non-idioma, un mito che apprezzo in un gigante come Derek Bailey e in pochi altri, ma che non mi rappresenta. Io mi riconosco invece nella definizione di Klee "Io sono astratto con qualche ricordo", che per me e' un manifesto di poetica che accomuna idealmente mondi molto diversi, e che ritrovo in Webern come in Joe Maneri, passando per Feldman, Eric Dolphy e molti dei nomi gia' citati qualche domanda fa, fra gli altri.

La tua tecnica è davvero eccellente, quanto è ancora importante avere una ottima tecnica per un chitarrista o un bassista? Te lo chiedo perché mi viene in mente un aneddoto: negli anni ’70 Robert Fripp, pesantemente contestato da alcuni punk che lo consideravano ormai un dinosauro rispose serafico “chi è più schiavo della tecnica? Chi ne ha troppa o chi non ne ha?”
Mi sembra che in pittura abbiano affrontato la problematica della tecnica in rapporto al contenuto molto prima e molto meglio che in musica. In altre parole, da molto tempo nessuno si pone il problema di come sarebbe stata la tecnica di De Kooning qualora avesse dovuto copiare Caravaggio, poiche' sarebbe irrilevante e capzioso come, per citare quanto Stockhausen disse ad Adorno, 'cercare un pollo in un quadro astratto'.
La tecnica non deve precludere il gesto ma con il solo gesto, in musica rispetto alla pittura, non si costruisce abbastanza 'discorso'. La tecnica serve quindi in questo senso, a fornire discorso e contesto. E' un problema di tempi, cioe' dello svolgimento in tempo reale della musica. Il gesto, a sua volta, puo' sussistere con o senza tecnica , ma penso anche che il concetto di tecnica debba potere includere molti parametri diversi, cosi' da potere smettere di chiederci perche' mai Albert Ayler non abbia trascritto i Capricci di Paganini per sassofono, per parlare in metafora.
Detto cio', io sono ossessionato dal concetto di tecnica, anche nell'accezione piu' tradizionale, quasi bigotta del termine. La vedo proprio come una catarsi quotidiana: sfiancare le mani per liberare lo spirito. Lo disse bene Lucio Dalla: "tutta la vita a far suonare un pianoforte, lasciandoci dentro anche le dita". In altre parole, il mistico hindu che decide di rinunciare ad un braccio e lo lascia atrofizzare. Questa e' la quintessenza della tecnica, sebbene tragica.


Una domanda un po’ provocatoria sulla musica in generale, non solo quella contemporanea o d’avanguardia. Frank Zappa nella sua autobiografia scrisse: “Se John Cage per esempio dicesse “Ora metterò un microfono a contatto sulla gola, poi berrò succo di carota e questa sarà la mia composizione”, ecco che i suoi gargarismi verrebbero qualificati come una SUA COMPOSIZIONE, perché ha applicato una cornice, dichiarandola come tale. “Prendere o lasciare, ora Voglio che questa sia musica.” È davvero valida questa affermazione per definire un genere musicale, basta dire questa è musica classica, questa è contemporanea ed è fatta? Ha ancora senso parlare di “genere musicale”?
Parlare di generi musicali oggi puo' avere senso oppure no, e' pratico per molti e spesso per i musicisti stessi. Non so cosa tu intenda esattamente per 'basta a definire un genere musicale', poiche' l'aneddoto che riferisci, per come lo interpreto io, attiene piu' strettamente alla definizione di opera musicale che ad un discorso di genere.
Zappa parla di 'cornice' ed e' proprio con una cornice che i musicisti si sarebbero resi la vita piu' semplice dai tempi delle prime avanguardie (se, cioe', anche in musica ci fosse una cornice, per delineare i campi - ma e' chiaro sto usando un paradosso ontologico).
Non sono per un anything goes riguardo a cio' che e' musica o meno, ci mancherebbe, ma Cage per primo non lo e' mai stato. Berio disse infatti che si annoiava alle performances di lavori di Cage in cui Cage stesso non fosse coinvolto. Una differenza non sottile, nel caso di Cage, anche nei suoi lavori piu' aleatori. Un'opera musicale deve contenere pensiero musicale, per essere tale. Questo puo' interessare la scelta delle note ed altri criteri ovvii, ma anche parametri molto diversi. Quindi, il pezzo del succo d'arancia avrebbe potuto essere musica cosi' come lo e' quella composta statisticamente, o stocastica, o aleatoria/indeterminata, o i suond collages, o i process pieces di Alvin Lucier etc, etc. Il problema si presenta quando non e' presente una riflessione musicale, il che succede in abbondanza.

Ho, a volte, la sensazione che nella nostra epoca la storia della musica scorra senza un particolare interesse per il suo decorso cronologico, nella nostra discoteca-biblioteca musicale il prima e il dopo, il passato e il futuro diventano elementi intercambiabili, questo non può comportare il rischio per un interprete e per un compositore di una visione uniforme? Di una “globalizzazione” musicale?
Il rischio e' gia' molto presente. Siamo in una fase 'post-tutto' senza pero' il fascino ed il ruolo storico che 'post' ha avuto in principio. E' chiaro che una prospettiva storica aiuti nella musica come nella vita, a prescindere dalle conclusioni a cui si voglia arrivare, e da come ci si intenda porre nei confronti della storia. Certo, talvolta e' emozionante trovarsi di fronte ad un lavoro palesemente a-storico (a-, e non anti-), cioe' senza dialettica come 'In a landscape' di Cage, o 'Vexations' di Satie o lo splendido disco solista del cantante dei Talk Talk, Mark Hollis. E tutta l'opera di Partch, oltre a parte del lavoro di Pasolini e di Bene, per citare due non-musicisti.
Per un improvvisatore e' piu' difficile, a mio parere, risultare fuori del proprio tempo, in un modo o in un altro, poiche' l'improvvisazione vive nella contingenza. Con la storia pero' si puo' anche giocare, e in musica ne abbiamo molti casi. Il mio amico Nate Wooley, per esempio, sta per pubblicare un disco tutto di composizioni di Wynton Marsalis!
Piu' problematica e' la globalizzazione in senso geografico, e non tanto nella musica - dove le nostre orecchie non si rifaranno mai una verginita', il che e' perlopiu' un bene - quanto in ambiti come la gastronomia, o l'enologia. In questi casi si', ho talvolta pulsioni reazionarie.

Possiamo parlare un attimo della ristampa digitale avvenuta qualche anno fa della tua produzione discografica? Sono rimasto molto colpito dal The Light and Other Things…
'the light and other things' e' uscito in ristampa digitale su Underwolf Records nel 2012, ma originariamente fu pubblicato dalla Creative Nation Music, un'etichetta indipendente bostoniana, nel 2008 (ho ancora delle copie della prima edizione, se a qualcuno dei tuoi lettori interessasse....). E stato un disco importante per me, che ha fatto un po' da capositipite dettando direzioni estetiche - poi elaborate nei dischi successivi - che, al momento in cui lo registrammo, stavo appena iniziando a digerire. Con nostra sorpresa, fu anche ricevuto molto bene dalla critica. Per me, quel disco naque in primis come pretesto per registrare con Tronzo, che considero essere uno dei piu' importanti chitarristi viventi.
'the light and other things' fu anche il primo disco della partnership con il sassofonista Noah Kaplan, con cui abbiamo poi registrato 'Descendants' (2011) del suo quartetto insieme a Joe Morris - un altro chitarrista fondamentale - e Jason Nazary, uscito su Hat Hut, 'Watch the Walls Instead' (Underwolf, 2012) con Marco Cappelli, Anthony Coleman e Mauro Pagani, ed il recente 'Crows and Motives' (Underwolf, 2014) in trio con il trombettista Joe Moffett, un disco di improvvisazioni ispirate ad una messa di Josquin. Negli stessi anni Noah ed io abbiamo anche registrato 'Ad Faunum', nel quintetto di Joe Moffett, uscito nel 2013 su Not Two Records, ed il primo disco della band Dollshot (Underwolf, 2011) che - allora - proponeva un interessante mix di art songs (Schoenberg, Ives, Poulenc), rock minimale e free jazz. Il secondo disco del Noah Kaplan Quartet dal titolo 'Cluster Swerve' uscira' piu' tardi quest'anno, sempre su Hat Hut, e chiudera' un body of work esteticamente molto unitario, nei confronti del quale solo il mio ultimo disco 'The Surface of an Object' (2014, Rudi Records), in trio con Michael Attias e Satoshi Takeishi, rappresenta un distacco, principalmente perche' e' un lavoro in cui le composizioni sono la premessa e la filigrana di tutta i'improvvisazione.

Che consigli daresti oggi a un giovane che vorrebbe incidere un suo disco o iniziare una attività di musicista professionista?
Come Groucho Marx che disse 'non vorrei fare parte di un club che contasse fra i suoi membri uno come me', non credo che seguirei i consigli dati da uno come me. Tuttavia, se posso consigliare una cosa a chi stia iniziando a lavorare nella musica improvvisativa e', quando possibile, di non gestare un disco sine die, nell'ambizione di renderlo un film di Kubrick. A prescindere dai valori intrinsechi oggettivi che possono trascendere il momento storico/biografico ed essere universali, un'opera di improvvisazione - e mi ricollego a quanto detto in precedenza - ha quasi sempre una natura contingente (specialmente alle orecchie di chi l'ha fatta!). Fra un estremo e l'altro, preferisco piuttosto l'iper-documentazione in stile Zorn ed il lasciare subito spazio al lavoro successivo.

Ultima domanda: qualche anno fa , nel corso di una sua intervista con Bill Milkowski per il sup libro “Rockers, Jazzbos & Visionaries” Carlos Santana disse “Some people have talent, some people have vision. And vision is more important then talent, obviously.” Io credo che abbia un grande talento, ma… qual è la tua visione?
'Visione' e' una parola che intimidisce un po', forse perche' fa' pensare a qualcosa che abbia un valore tangibile, o che sia socialmente utile, o al limite che segua un qualche slancio spiritiuale. 'Ossessione' si presta meglio a descrivere quello che fanno quelli come me, poiche' altro non e' se non un'idiosincrasia molto personale, in un ambito molto specifico e di interesse per una piccola minoranza. Con una certa arroganza e generalizzando un po', la metterei cosi': se hai una poetica e' difficile che tu abbia una visione, e se hai una visione e' probabile che questa porti con se' un ideale punto d'arrivo, che di sicuro non e' affare di poetica. Il non punto d'arrivo, invece, e' un'ossessione che sottoscrivo volentieri, per quanto suoni banale.



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