Come
è nato il tuo interesse per il basso elettrico? Con che strumenti
suoni e con che strumenti hai suonato?
Presi
in mano il basso a 14 anni perche' volevo suonare rock, molto
semplicemente. A quel punto, strimpellavo un po' la chitarra, avevo
psuedo-studiato un poco il violino da piccolo ed ero interessato
istintivamente agli strumenti a corda; e forse del basso mi attraeva
gia' il fatto di percepirlo 'inside the music' e non 'on top of it'.
Ma questa e' una congettura fatta a posteriori, non fu una scelta
consapevole allora. E' vero pero' che avevo sempre avuto l'abitudine
di cercare di canticchiare in testa le note del basso delle canzoni,
sebbene non mi fosse stato insegnato il canto polifonico.
Da
alcuni anni, cioe' pressapoco dal mio arrivo a NYC da Boston, sono
ritornato a suonare bassi a 4 corde e passivi. E' stato un ritorno
alle origini, un processo di purificazione sonora ma anche di
personale storicizzazione di uno strumento anomalo come il basso
elettrico. Al momento, sto suonando un archtop signature model fatto
per me dal bravissimo liutaio Domenico Moffa. Lo suono sull'ultimo
disco, 'The surface of an object', ma lo strumento su cui ho formato
l'estetica bassistica, (nel timbro e nel gesto) di oggi e che tuttora
suono di piu' e' un basso in cui mi imbattei per puro caso, grazie ad
un endorsement offerto alla band del chitarrista Bryan Baker, di cui
facevo parte. E' un First Act Delgada, molto simile ad un Gibson
Thunderbird, ma col manico avvitato. Ricordo che lo ricevetti con
riconoscenza come si riceve, appunto, un regalo ma senza grandi
aspettative, e che invece in breve tempo mi porto' ad abbandonare e
vendere quasi tutti i miei altri bassi, piu' costosi, a 5 corde e
attivi.
Negli
anni bostoniani, quando suonavo molta musica microtonale, che fosse
araba tradizionale con la band Zilzala o fusion con David Fiuczynski
o contemporanea con la Boston Microtonal Society, suonavo
principalmente fretless (avevo un 5 corde acustico di Rick Turner ed
un Fender Jazz che ho tuttora). Oggi molto meno.
Quali
sono state e sono le tue principali influenze musicali
Doverosamente,
cito fra le mie influenze alcuni dei miei maestri, con molti dei
quali ho avuto ed ho anche la fortuna di collaborare: Ran Blake, Joe
Maneri, Anthony Coleman, Joe Morris, David Tronzo ed Eliot Fisk.
Tutti
facciamo i conti con uno spettro di influenze stratificate nel tempo
e di diversa natura e grado di consapevolezza, incluse quelle che si
crede o magari si spera di avere alle spalle, e di tutte queste siamo
la somma. Per quanto mi riguarda, ci sono le influenze di oggi a cui
mi trovo ad accostare quelle di ieri l'altro (tutto il periodo
pre-jazz, scoperto poi a 14 anni), mentre quelle di ieri, cioe' del
decennio (1994-2004) dominato da ascolti e studi jazzistici nel senso
di tradizione in cui inscriversi e di vocabolario
formalizzato/deterministico e relativa pedagogia, sono oggi in gran
parte messe in disparte. La mia dialettica con la maggior parte del
jazz e' di conflitto da molti anni.
Nelle
influenze di oggi non c'e' un'agenda o una programmaticita' lineare,
ci sono ad esempio Feldman ed il suo opposto Stockhausen, Josquin,
improvvisatori vecchi e nuovi come Evan Parker, Nate Wooley, Cecil
Taylor e Tyshawn Sorey, bands come The Walkmen, Foals e Deerhunter.
Amo concentrarmi su musica che mi permetta un ascolto
specializzato/selettivo come ad esempio Sciarrino, Xenakis, Partch,
Ligeti, Merzbow, Meshuggah e Alasnoaxis. Mi rendo conto che sto
andando a ruota libera.... paradossalmente, pero', sono scettico nei
confronti dell'eclettismo musicale come fede, per il rischio che
diventi acritico, che perda un'estetica informante, una
direzionalita' che ritengo essenziale nell'ascolto quale primo stadio
della composizione.
Ascolto
molta musica per strumenti a corda, dalla kora all'oud, alla pipa e
molta musica per chitarra. Fra i bassisti elettrici seguo in primis
Skuli Sverrisson, e apprezzo il bassista siciliano Daniele Camarda,
che fu una scoperta importante al mio arrivo a Boston. Anche per i
bassisti vale la dinamica dell'oggi/ieri/ieri l'altro, quindi in
questi anni mi sono riappassionato a suoni di bassi utilitaristici,
dati per scontati e senza frilli, come Robert DeLeo degli Stone
Temple Pilots.
Poi
hai fatto il salto di qualità, sei andato negli Stati Uniti e hai
studiato con Joe Maneri al NEC e Boston Microtonal Society, che
differenze hai travato rispetto all’Italia e cosa significa poter
studiare e suonare negli Stati Uniti, a New York?
Non
dimenticherei appunto che fra Genova e NYC ci sno stati sei anni di
Boston, dove ho studiato alla Berklee e poi al New England
Conservatory (NEC, che ho assai preferito). Boston potrebbe essere
una citta' invisibile di Calvino, la citta' fatta solo di scuole. Con
Boston oramai ho fatto la pace, e ci ritorno volentieri, ma questo
suo aspetto - l'eccessiva dipendenza dall'accademia - e' un limite
pesante della scena musicale e lo si avverte, vivendoci.
A
New York la vitalita' e la varieta' della scena musicale restano
forti, ed il livello altissimo. In realta', da quando e' nata mia
figlia, lo scorso Maggio, vado a sentire molta meno musica che in
passato e mi sembra di vivere in una campana: la scena e' come una
droga, ed ha le sue controindicazioni. Non potrei pero' fare un
paragone con la situazione genovese o italiana poiche', piu' degli
anni che sono passati, pesa il fatto che ero un musicista molto
diverso a Genova, con diverse esigenze ed ambizioni rispetto ad oggi.
Si tratta di un bel salto, questo e' sicuro. Ma per tutto c'e' un
prezzo, e poi New York si sta sinistramente riempiendo di hipsters
con white collar jobs - che non contribuiscono in alcun modo alla
vita culturale della citta' - e sta marginalizzando i propri artisti,
la cui presenza ed il cui input vengono dati per scontati da troppo
tempo. E qualcosa potrebbe cambiare, questo primato culturale
potrebbe presto svanire. Ho letto proprio oggi una dichiarazione di
uno dei Lightning Bolt - forse il bassista? - in cui diceva che
Manhattan non ha una piu' scena musicale e che per Brooklyn sara'
presto lo stesso. Premesso che lui parlava di un certo tipo di
underground rock o post-rock che in effetti si e' decentrato gia' da
tempo, io credo che quest'iperbole abbia molto di vero anche
trasversalmente. Dopotutto, il declino del post-minimalismo negli
stessi minimalisti e poi nelle nuove leve con Bang on a Can eccetera
e' un esempio emblematico, ma non il solo, di un conformismo
'corporate' che trita quasi tutto, anche qui a New York.
Quale
significato ha l’improvvisazione nella tua ricerca musicale? Si può
tornare a parlare di improvvisazione in un repertorio così
codificato come quello classico o bisogna per forza uscirne e
rivolgersi ad altri repertori, jazz, contemporanea, etc?
L'improvvisazione
e' una metodologia/comportamento primario, primordiale ed in quanto
tale non puo' scomparire. Gli aspetti di estemporaneita' e
suscettibilita', oltre alla possibilita' di sperimentare sulla
'sociologia' della performance, sono cio' che piu' mi lega
all'improvvisazione, il cui rapporto (o non rapporto) con l'assetto
compositivo e' al centro della mia ricerca da tempo. Premettendo che
non concordo con chi, come Berio, dava all'improvvisazione uno status
di inferiorita' rispetto alla musica composta per un supposto minore
potenziale di suddivisione in particelle controllabili ed
articolabili di senso musicale, di sicuro la pratica improvvisativa
ha giovato a molti compositori anche recenti, da Messiaen a Scelsi.
Altrettando evidentemente, improvvisatori come Threadgill, Braxton e
Zorn hanno dato alla propria musica una dimensione ulteriore grazie
alla ricerca specifica in ambito compositivo. Su questa
simbiosi/osmosi/dicotomia si potrebbe parlare molto piu' a lungo
dello spazio che abbiamo qui.
Io
sono per un'improvvisazione concentrata sulle microstrutture e sulle
piu' piccole articolazioni sonore non meno che sulle macrostrutture e
i modelli formali, un'improvvisazione linguisticamente trasversale,
necessariamente imbastardita ma che non insegue il mito del
non-idioma, un mito che apprezzo in un gigante come Derek Bailey e in
pochi altri, ma che non mi rappresenta. Io mi riconosco invece nella
definizione di Klee "Io sono astratto con qualche ricordo",
che per me e' un manifesto di poetica che accomuna idealmente mondi
molto diversi, e che ritrovo in Webern come in Joe Maneri, passando
per Feldman, Eric Dolphy e molti dei nomi gia' citati qualche domanda
fa, fra gli altri.
La
tua tecnica è davvero eccellente, quanto è ancora importante avere
una ottima tecnica per un chitarrista o un bassista? Te lo chiedo
perché mi viene in mente un aneddoto: negli anni ’70 Robert Fripp,
pesantemente contestato da alcuni punk che lo consideravano ormai un
dinosauro rispose serafico “chi è più schiavo della tecnica? Chi
ne ha troppa o chi non ne ha?”
Mi
sembra che in pittura abbiano affrontato la problematica della
tecnica in rapporto al contenuto molto prima e molto meglio che in
musica. In altre parole, da molto tempo nessuno si pone il problema
di come sarebbe stata la tecnica di De Kooning qualora avesse dovuto
copiare Caravaggio, poiche' sarebbe irrilevante e capzioso come, per
citare quanto Stockhausen disse ad Adorno, 'cercare un pollo in un
quadro astratto'.
La
tecnica non deve precludere il gesto ma con il solo gesto, in musica
rispetto alla pittura, non si costruisce abbastanza 'discorso'. La
tecnica serve quindi in questo senso, a fornire discorso e contesto.
E' un problema di tempi, cioe' dello svolgimento in tempo reale della
musica. Il gesto, a sua volta, puo' sussistere con o senza tecnica ,
ma penso anche che il concetto di tecnica debba potere includere
molti parametri diversi, cosi' da potere smettere di chiederci
perche' mai Albert Ayler non abbia trascritto i Capricci di Paganini
per sassofono, per parlare in metafora.
Detto
cio', io sono ossessionato dal concetto di tecnica, anche
nell'accezione piu' tradizionale, quasi bigotta del termine. La vedo
proprio come una catarsi quotidiana: sfiancare le mani per liberare
lo spirito. Lo disse bene Lucio Dalla: "tutta la vita a far
suonare un pianoforte, lasciandoci dentro anche le dita". In
altre parole, il mistico hindu che decide di rinunciare ad un braccio
e lo lascia atrofizzare. Questa e' la quintessenza della tecnica,
sebbene tragica.
Una
domanda un po’ provocatoria sulla musica in generale, non solo
quella contemporanea o d’avanguardia. Frank Zappa nella sua
autobiografia scrisse: “Se John Cage per esempio dicesse “Ora
metterò un microfono a contatto sulla gola, poi berrò succo di
carota e questa sarà la mia composizione”, ecco che i suoi
gargarismi verrebbero qualificati come una SUA COMPOSIZIONE, perché
ha applicato una cornice, dichiarandola come tale. “Prendere o
lasciare, ora Voglio che questa sia musica.” È davvero valida
questa affermazione per definire un genere musicale, basta dire
questa è musica classica, questa è contemporanea ed è fatta? Ha
ancora senso parlare di “genere musicale”?
Parlare
di generi musicali oggi puo' avere senso oppure no, e' pratico per
molti e spesso per i musicisti stessi. Non so cosa tu intenda
esattamente per 'basta a definire un genere musicale', poiche'
l'aneddoto che riferisci, per come lo interpreto io, attiene piu'
strettamente alla definizione di opera musicale che ad un discorso di
genere.
Zappa
parla di 'cornice' ed e' proprio con una cornice che i musicisti si
sarebbero resi la vita piu' semplice dai tempi delle prime
avanguardie (se, cioe', anche in musica ci fosse una cornice, per
delineare i campi - ma e' chiaro sto usando un paradosso ontologico).
Non
sono per un anything goes riguardo a cio' che e' musica o meno, ci
mancherebbe, ma Cage per primo non lo e' mai stato. Berio disse
infatti che si annoiava alle performances di lavori di Cage in cui
Cage stesso non fosse coinvolto. Una differenza non sottile, nel caso
di Cage, anche nei suoi lavori piu' aleatori. Un'opera musicale deve
contenere pensiero musicale, per essere tale. Questo puo' interessare
la scelta delle note ed altri criteri ovvii, ma anche parametri molto
diversi. Quindi, il pezzo del succo d'arancia avrebbe potuto essere
musica cosi' come lo e' quella composta statisticamente, o
stocastica, o aleatoria/indeterminata, o i suond collages, o i
process pieces di Alvin Lucier etc, etc. Il problema si presenta
quando non e' presente una riflessione musicale, il che succede in
abbondanza.
Ho,
a volte, la sensazione che nella nostra epoca la storia della musica
scorra senza un particolare interesse per il suo decorso cronologico,
nella nostra discoteca-biblioteca musicale il prima e il dopo, il
passato e il futuro diventano elementi intercambiabili, questo non
può comportare il rischio per un interprete e per un compositore di
una visione uniforme? Di una “globalizzazione” musicale?
Il
rischio e' gia' molto presente. Siamo in una fase 'post-tutto' senza
pero' il fascino ed il ruolo storico che 'post' ha avuto in
principio. E' chiaro che una prospettiva storica aiuti nella musica
come nella vita, a prescindere dalle conclusioni a cui si voglia
arrivare, e da come ci si intenda porre nei confronti della storia.
Certo, talvolta e' emozionante trovarsi di fronte ad un lavoro
palesemente a-storico (a-, e non anti-), cioe' senza dialettica come
'In a landscape' di Cage, o 'Vexations' di Satie o lo splendido disco
solista del cantante dei Talk Talk, Mark Hollis. E tutta l'opera di
Partch, oltre a parte del lavoro di Pasolini e di Bene, per citare
due non-musicisti.
Per
un improvvisatore e' piu' difficile, a mio parere, risultare fuori
del proprio tempo, in un modo o in un altro, poiche'
l'improvvisazione vive nella contingenza. Con la storia pero' si puo'
anche giocare, e in musica ne abbiamo molti casi. Il mio amico Nate
Wooley, per esempio, sta per pubblicare un disco tutto di
composizioni di Wynton Marsalis!
Piu'
problematica e' la globalizzazione in senso geografico, e non tanto
nella musica - dove le nostre orecchie non si rifaranno mai una
verginita', il che e' perlopiu' un bene - quanto in ambiti come la
gastronomia, o l'enologia. In questi casi si', ho talvolta pulsioni
reazionarie.
Possiamo
parlare un attimo della ristampa digitale avvenuta qualche anno fa
della tua produzione discografica? Sono rimasto molto colpito dal The
Light and Other Things…
'the
light and other things' e' uscito in ristampa digitale su Underwolf
Records nel 2012, ma originariamente fu pubblicato dalla Creative
Nation Music, un'etichetta indipendente bostoniana, nel 2008 (ho
ancora delle copie della prima edizione, se a qualcuno dei tuoi
lettori interessasse....). E stato un disco importante per me, che ha
fatto un po' da capositipite dettando direzioni estetiche - poi
elaborate nei dischi successivi - che, al momento in cui lo
registrammo, stavo appena iniziando a digerire. Con nostra sorpresa,
fu anche ricevuto molto bene dalla critica. Per me, quel disco naque
in primis come pretesto per registrare con Tronzo, che considero
essere uno dei piu' importanti chitarristi viventi.
'the
light and other things' fu anche il primo disco della partnership con
il sassofonista Noah Kaplan, con cui abbiamo poi registrato
'Descendants' (2011) del suo quartetto insieme a Joe Morris - un
altro chitarrista fondamentale - e Jason Nazary, uscito su Hat Hut,
'Watch the Walls Instead' (Underwolf, 2012) con Marco Cappelli,
Anthony Coleman e Mauro Pagani, ed il recente 'Crows and Motives'
(Underwolf, 2014) in trio con il trombettista Joe Moffett, un disco
di improvvisazioni ispirate ad una messa di Josquin. Negli stessi
anni Noah ed io abbiamo anche registrato 'Ad Faunum', nel quintetto
di Joe Moffett, uscito nel 2013 su Not Two Records, ed il primo disco
della band Dollshot (Underwolf, 2011) che - allora - proponeva un
interessante mix di art songs (Schoenberg, Ives, Poulenc), rock
minimale e free jazz. Il secondo disco del Noah Kaplan Quartet dal
titolo 'Cluster Swerve' uscira' piu' tardi quest'anno, sempre su Hat
Hut, e chiudera' un body of work esteticamente molto unitario, nei
confronti del quale solo il mio ultimo disco 'The Surface of an
Object' (2014, Rudi Records), in trio con Michael Attias e Satoshi
Takeishi, rappresenta un distacco, principalmente perche' e' un
lavoro in cui le composizioni sono la premessa e la filigrana di
tutta i'improvvisazione.
Che
consigli daresti oggi a un giovane che vorrebbe incidere un suo disco
o iniziare una attività di musicista professionista?
Come
Groucho Marx che disse 'non vorrei fare parte di un club che contasse
fra i suoi membri uno come me', non credo che seguirei i consigli
dati da uno come me. Tuttavia, se posso consigliare una cosa a chi
stia iniziando a lavorare nella musica improvvisativa e', quando
possibile, di non gestare un disco sine die, nell'ambizione di
renderlo un film di Kubrick. A prescindere dai valori intrinsechi
oggettivi che possono trascendere il momento storico/biografico ed
essere universali, un'opera di improvvisazione - e mi ricollego a
quanto detto in precedenza - ha quasi sempre una natura contingente
(specialmente alle orecchie di chi l'ha fatta!). Fra un estremo e
l'altro, preferisco piuttosto l'iper-documentazione in stile Zorn ed
il lasciare subito spazio al lavoro successivo.
Ultima
domanda: qualche anno fa , nel corso di una sua intervista con Bill
Milkowski per il sup libro “Rockers, Jazzbos & Visionaries”
Carlos Santana disse “Some people have talent, some people have
vision. And vision is more important then talent, obviously.” Io
credo che abbia un grande talento, ma… qual è la tua visione?
'Visione'
e' una parola che intimidisce un po', forse perche' fa' pensare a
qualcosa che abbia un valore tangibile, o che sia socialmente utile,
o al limite che segua un qualche slancio spiritiuale. 'Ossessione' si
presta meglio a descrivere quello che fanno quelli come me, poiche'
altro non e' se non un'idiosincrasia molto personale, in un ambito
molto specifico e di interesse per una piccola minoranza. Con una
certa arroganza e generalizzando un po', la metterei cosi': se hai
una poetica e' difficile che tu abbia una visione, e se hai una
visione e' probabile che questa porti con se' un ideale punto
d'arrivo, che di sicuro non e' affare di poetica. Il non punto
d'arrivo, invece, e' un'ossessione che sottoscrivo volentieri, per
quanto suoni banale.
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