La prima domanda è sempre quella classica: come è nato il tuo amore e interesse per la chitarra e con quali strumenti suoni o hai suonato?
E’ stato il destino! A Mestre, la città dove sono nato, c’era un negozio di strumenti musicali con una bella chitarra rossa in mostra; io sentivo che la volevo anche se per pudore non la chiedevo, finchè mio padre me la fece trovare a casa per i miei nove anni. Riguardo alle chitarre di certo non sono un maniaco degli strumenti: una vecchia Di Giorgio, una Ramirez “prima classe” (1982), ed in seguito una bellissima Rolf Heichinger. Ora posseggo anche una fantastica Rubio che utilizzo per i concerti.
Come è nato il tuo interesse verso il repertorio contemporaneo e quali sono le correnti stilistiche nella quali ti riconosce maggiormente?
E’ un discorso per molto difficile perché, oltre agli innamoramenti insiti nel periodo di formazione musicale, nessuno stile riesce a radicarsi dentro di me. Credo che ogni musica necessiti di una filosofia ovvero la decifrazione del “messaggio artistico” (che poi determina l’emozione all’ ascolto) discenda da molti fattori - tra l’altro - non tutti musicali: uno di questi, il più importante, è la contestualizzazione del brano rispetto ad preciso momento della propria vita reale. L’emozione, la vibrazione, l’ansia, le aspettative, le vittorie, le sconfitte, sono tutti elementi che entrano come sangue nel brano stesso, anzi lo ridescrivono.
Berlioz disse che comporre per chitarra classica era difficile perché per farlo bisognava essere innanzitutto chitarristi, questa frase è stata spesso usata come una giustificazione per l’esiguità del repertorio di chitarra classica rispetto ad altri strumenti come il pianoforte e il violino. Allo stesso tempo è stata sempre più “messa in crisi” dal crescente interesse che la chitarra (vuoi classica, acustica, elettrica, midi) riscuote nella musica contemporanea. Come compositore e chitarrista ritieni che ci sia ancora qualcosa di veritiero nella frase di Berlioz?
Credo sia una alibi e spiego: essendo io figlio di una generazione che letteralmente “tifava” per lo sdoganamento della chitarra nei confronti di altri strumenti allora considerati “principini”, il violino, il pianoforte, ecc. (parlo degli anni ’70) ogni qual volta una casa editrice pubblicava un brano per o con chitarra di Paganini, di Schubert, di Matietkga, mi partiva dal cuore un bel “finalmente anche noi!” dimenticando irrazionalmente che ben altre erano le opere di valore per il nostro strumento già vive, reattive, comunicative, ma nonostante ciò ero così deciso, che parlavo persino a nome di Berlioz, di Beethoven, …. che forse avrebbero voluto scrivere per chitarra, ma il destino, la vita… e così via una serie di indimostrabili stupidaggini, citando frasi a loro attribuite ma mai dimostrate. In realtà se qualcuno tra i grandi compositori romantici avesse davvero voluto scrivere per chitarra di certo non avrebbe temuto le insidie della scrittura, questa è una certezza! Illustri storiografi hanno dedicato la vita intera a cercare ciò che in realtà, purtroppo, non esiste: il Quintetto di Gaetano Donizzetti, un’autentica rarità è privo di qualsiasi valore musicale, mentre opere di Mertz, di Sor di Giuliani manifestano un dinamismo e una maturità musicale sorprendente. Con questo voglio affermare che il motivo principale che “fissa” le cose, ovvero la volontà ad imporre precise radici non c’è, ma risiede soltanto nell’ incrocio tra il momento storico, la città dove il compositore svolge/va la propria azione, la forza della casa editrice, il committente; all’epoca di Berlioz, le sorti della musica si decidevano a Vienna, negli uffici di Artaria, Cappi e Diabelli, quindi la chiave di lettura è ancorata una volta legata ad un incrocio, in questo caso il territorio “alla moda” e lo stile di vita che lo circondava. Rispetto alla seconda parte della domanda, la presunta crisi della chitarra, credo in parte sia vero e mi dispiace, se tuttavia è corretto affermare che oggi per “chitarra” si intende tutto , acustica, elettrica, dodici corde, ecc. è altrettanto doveroso (non immodesto) comprendere che la nostra, la cosiddetta “classica” parla, le altre recitano. Il problema è capire chi è capace davvero di amarla questa benedetta chitarra: in dialetto sloveno di dice “nema problema” (nessun problema), e dico questo perché convinto che la rivoluzione arriva dal nordest e si chiama Marko Feri, Max Grgic, Marko Topchii, e Srdjan Bulat: ascoltare please! In Italia due fra tutti vorrei citare, Adriano Del Sal che come Re Mida rende d’oro ogni nota che esegue, ed Aniello Desiderio che semplicemente sta innovando la filosofia dell’interpretazione chitarristica, e non è poco.
Come affronti da compositore il difficile compito di scrivere per strumenti che non suona o ensemble che non conosce a fondo?
Lo dico con grande franchezza: chiedo aiuto. Come ho già detto a me interessa la filosofia e non l’alchimia, quindi se ricevo la commissione per un brano, ad esempio per clarinetto, scrivo le relazioni contemporanee che incrociano tutti gli attori della richiesta, l’esecutore, la finalità, il mio gatto che sta male, il suono della strada che mi ispira, l’essere stupido o credermi intelligente in quel determinato momento, semplicemente attraverso il suono del clarinetto che diviene quindi discriminante di tutti questi elementi. In alcune composizioni ho volutamente dimenticato lo strumento a tal punto da prevedere almeno sei stesure successive con l’esecutore presente, finendo per sfinirlo a colpi di “…prova ancora una volta se si può…”. Vi è un solo strumento che non permette queste divagazioni ed è la viola, perché ha lo spettro dei suoni armonici collocato dentro un “range” con pochissimi rimbalzi; il risultato che ne consegue è che la musica ideata risulta totalmente diversa da quella poi realizzata se non si tiene “superaccuratamente” da conto l’aspetto puramente meccanico dello strumento. Quando consegnai al “Baltimora Sohua trio” il brano “Incident at Baltimora” per flauto, viola ed arpa, il miei amici Nathan, Jack e sua moglie Liza Isbin lo eseguirono credendo di sognare tanto era “violistico”!
E’ stato il destino! A Mestre, la città dove sono nato, c’era un negozio di strumenti musicali con una bella chitarra rossa in mostra; io sentivo che la volevo anche se per pudore non la chiedevo, finchè mio padre me la fece trovare a casa per i miei nove anni. Riguardo alle chitarre di certo non sono un maniaco degli strumenti: una vecchia Di Giorgio, una Ramirez “prima classe” (1982), ed in seguito una bellissima Rolf Heichinger. Ora posseggo anche una fantastica Rubio che utilizzo per i concerti.
Come è nato il tuo interesse verso il repertorio contemporaneo e quali sono le correnti stilistiche nella quali ti riconosce maggiormente?
E’ un discorso per molto difficile perché, oltre agli innamoramenti insiti nel periodo di formazione musicale, nessuno stile riesce a radicarsi dentro di me. Credo che ogni musica necessiti di una filosofia ovvero la decifrazione del “messaggio artistico” (che poi determina l’emozione all’ ascolto) discenda da molti fattori - tra l’altro - non tutti musicali: uno di questi, il più importante, è la contestualizzazione del brano rispetto ad preciso momento della propria vita reale. L’emozione, la vibrazione, l’ansia, le aspettative, le vittorie, le sconfitte, sono tutti elementi che entrano come sangue nel brano stesso, anzi lo ridescrivono.
Berlioz disse che comporre per chitarra classica era difficile perché per farlo bisognava essere innanzitutto chitarristi, questa frase è stata spesso usata come una giustificazione per l’esiguità del repertorio di chitarra classica rispetto ad altri strumenti come il pianoforte e il violino. Allo stesso tempo è stata sempre più “messa in crisi” dal crescente interesse che la chitarra (vuoi classica, acustica, elettrica, midi) riscuote nella musica contemporanea. Come compositore e chitarrista ritieni che ci sia ancora qualcosa di veritiero nella frase di Berlioz?
Credo sia una alibi e spiego: essendo io figlio di una generazione che letteralmente “tifava” per lo sdoganamento della chitarra nei confronti di altri strumenti allora considerati “principini”, il violino, il pianoforte, ecc. (parlo degli anni ’70) ogni qual volta una casa editrice pubblicava un brano per o con chitarra di Paganini, di Schubert, di Matietkga, mi partiva dal cuore un bel “finalmente anche noi!” dimenticando irrazionalmente che ben altre erano le opere di valore per il nostro strumento già vive, reattive, comunicative, ma nonostante ciò ero così deciso, che parlavo persino a nome di Berlioz, di Beethoven, …. che forse avrebbero voluto scrivere per chitarra, ma il destino, la vita… e così via una serie di indimostrabili stupidaggini, citando frasi a loro attribuite ma mai dimostrate. In realtà se qualcuno tra i grandi compositori romantici avesse davvero voluto scrivere per chitarra di certo non avrebbe temuto le insidie della scrittura, questa è una certezza! Illustri storiografi hanno dedicato la vita intera a cercare ciò che in realtà, purtroppo, non esiste: il Quintetto di Gaetano Donizzetti, un’autentica rarità è privo di qualsiasi valore musicale, mentre opere di Mertz, di Sor di Giuliani manifestano un dinamismo e una maturità musicale sorprendente. Con questo voglio affermare che il motivo principale che “fissa” le cose, ovvero la volontà ad imporre precise radici non c’è, ma risiede soltanto nell’ incrocio tra il momento storico, la città dove il compositore svolge/va la propria azione, la forza della casa editrice, il committente; all’epoca di Berlioz, le sorti della musica si decidevano a Vienna, negli uffici di Artaria, Cappi e Diabelli, quindi la chiave di lettura è ancorata una volta legata ad un incrocio, in questo caso il territorio “alla moda” e lo stile di vita che lo circondava. Rispetto alla seconda parte della domanda, la presunta crisi della chitarra, credo in parte sia vero e mi dispiace, se tuttavia è corretto affermare che oggi per “chitarra” si intende tutto , acustica, elettrica, dodici corde, ecc. è altrettanto doveroso (non immodesto) comprendere che la nostra, la cosiddetta “classica” parla, le altre recitano. Il problema è capire chi è capace davvero di amarla questa benedetta chitarra: in dialetto sloveno di dice “nema problema” (nessun problema), e dico questo perché convinto che la rivoluzione arriva dal nordest e si chiama Marko Feri, Max Grgic, Marko Topchii, e Srdjan Bulat: ascoltare please! In Italia due fra tutti vorrei citare, Adriano Del Sal che come Re Mida rende d’oro ogni nota che esegue, ed Aniello Desiderio che semplicemente sta innovando la filosofia dell’interpretazione chitarristica, e non è poco.
Come affronti da compositore il difficile compito di scrivere per strumenti che non suona o ensemble che non conosce a fondo?
Lo dico con grande franchezza: chiedo aiuto. Come ho già detto a me interessa la filosofia e non l’alchimia, quindi se ricevo la commissione per un brano, ad esempio per clarinetto, scrivo le relazioni contemporanee che incrociano tutti gli attori della richiesta, l’esecutore, la finalità, il mio gatto che sta male, il suono della strada che mi ispira, l’essere stupido o credermi intelligente in quel determinato momento, semplicemente attraverso il suono del clarinetto che diviene quindi discriminante di tutti questi elementi. In alcune composizioni ho volutamente dimenticato lo strumento a tal punto da prevedere almeno sei stesure successive con l’esecutore presente, finendo per sfinirlo a colpi di “…prova ancora una volta se si può…”. Vi è un solo strumento che non permette queste divagazioni ed è la viola, perché ha lo spettro dei suoni armonici collocato dentro un “range” con pochissimi rimbalzi; il risultato che ne consegue è che la musica ideata risulta totalmente diversa da quella poi realizzata se non si tiene “superaccuratamente” da conto l’aspetto puramente meccanico dello strumento. Quando consegnai al “Baltimora Sohua trio” il brano “Incident at Baltimora” per flauto, viola ed arpa, il miei amici Nathan, Jack e sua moglie Liza Isbin lo eseguirono credendo di sognare tanto era “violistico”!
continua domani
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