venerdì 29 agosto 2008

Alcune osservazioni sulla 'poesia in dialetto' nel secondo '900

Nel testo che segue sono riportate alcune osservazioni scritte molti anni fa da Fauvel in occasione dell’uscita del volume ‘Le parole perdute. Dialetti e poesie nel nostro secolo’ Einaudi, Franco Brevini, 1990. Le riproponiamo oggi convinti del fatto che il tempo trascorso non abbia assolutamente reso inattuali molte delle considerazioni ivi riportate. Anzi…


Giustamente Brevini constata come, a partire dagli anni ’60-’70, si dia il caso di una crescita significativa di poesia in dialetto, parallelamente alla repentina accelerazione del processo di smantellamento delle culture originarie avviato fin dall’inizio del secolo.
E –fatto altrettanto significativo- come questa produzione poetica non rispetti più la tipica contrapposizione tra livello comico-realistico, proprio della letteratura dialettale, e livello ‘alto’, aulico, caratteristico della letteratura ‘in lingua’. Qui senz'altro, come vedremo meglio in seguito, si pone uno degli snodi cruciali del fenomeno e non è difficile collegarlo al tema più generale delle varie forme di protesta e rifiuto che hanno accompagnato da sempre l’affermazione dei modelli vincenti (e omologanti) della cultura di massa. Altrettanto significativamente, però, è un fenomeno che non rivela alcuna parentela con la tendenza al recupero delle tradizioni locali 'sub specie storia delle classi subalterne’, così tipico del movimento del folk revival degli anni ’50 e ’60, le cui vicende sono intimamente connesse allo sviluppo delle lotte politiche e sociali di quegli anni. Scrive Franco Fortini in una sua recensione al volume di Brevini, dal titolo emblematico ‘Le parole stravolte nella tensione dei dialetti’: ‘L’emersione dei neo-dialettali aiuta a capire quale potente controspinta di separazione e di accanita volontà di chiudersi in un catalogo memoriale (e anche di esclusione e di orgoglio nella sconfitta) si accompagni al processo di massificazione sociale vittoriosa delle differenze e distruttiva delle particolarità’. Non a caso uno di questi poeti parla di una lingua della affettività domestica, della privazione, della soggezione sociale divenuta destino.. A prima vista, non ci potrebbe essere dichiarazione di resa più.. disarmante: l’unico spazio ancora concesso al poeta sembrerebbe quello della testimonianza, del ricordo di ciò che ormai è morto o moribondo.. Questa sensazione di orgogliosa auto-esclusione risulta addirittura più forte se si guarda il lavoro di questi poeti dal punto di vista strettamente formale. Ancora Fortini: ‘chi scrive oggi in dialetto.. cerca una via per dichiararsi fuori dal gioco. La sua è una negativa dichiarazione di voto, un annullare la scheda..’ E infatti più che evocare e invocare una più profonda autenticità e pienezza di esperienze (rispetto alla omologazione della cultura di massa) la poesia neodialettale appare segnata da un grado di intenzionalità letteraria, di operazione formale, addirittura maggiore della poesia in lingua.

Certo, scegliere di scrivere in dialetto all’interno di una società e cultura parlante e scrivente in lingua non è la stessa cosa che scrivere in dialetto quando, fuori dalla Toscana, solo una esigua minoranza conosceva la lingua italiana. Come definire allora la sperimentazione di tanti autori che vengono da un lungo operare in lingua e ricorrono al dialetto con esiti di ‘accentuata polisemia e agglutinazione fonica’, lungo un percorso, in fondo, parallelo a quello di tanta poesia sperimentale in qualsivoglia gergo o lingua o babele di lingue sia stata concepita e scritta? Al punto che è senz’altro giusto chiedersi (e chiedere) che senso abbia il ricorso ad una parlata dialettale con intenti fondamentalmente anticomunicativi, di sperimentazione iperletteraria.. Dice ancora Fortini: ‘Anche dove si tratta di normali ‘personalizzazioni' del dialetto –Noventa, Loi- non ci si allontana dal girone della poesia di oggi, delle sue contraddizioni e tic dominanti’. Un altro esempio? Capita di leggere (nel n.0 della rivista letteraria Baldus) che viene ‘scelta la contaminazione quale campo privilegiato di riflessione’ e che ‘l’apertura ai dialetti, come alla citazione, è condizionata dal grado di torsione cui vengono sottoposti i materiali..’ etc. Più oltre, si parla delle c.d. ‘false traduzioni’ in vernacolo da autori di ogni tempo e lingua: in buona parte queste ‘versioni’ sono esperimenti di terzo grado compiuti da chi adatta in lingua propria testi originariamente redatti in una lingua sconosciuta o non perfettamente nota e si serve di una versione in italiano come di un trasformatore o un interfaccia.. Insomma si tratta di imitazioni, plagi, variazioni sul tema, esercizi di stile, chiamateli come vi pare, comunque cose che denotano, senza ombra di dubbio, un atteggiamento ‘manieristico’ verso la lingua e il lavoro ‘poetico’ su di essa. Ora chi scrive –occorre precisarlo- non ha alcun preconcetto negativo nei confronti del manierismo, anzi.. E potrebbe sembrare discutibile, da un certo punto di vista, distinguere fra un manierismo in lingua e un manierismo in dialetto. Poi però uno pensa al fatto che il dialetto, in quanto lingua del popolo, possedeva una sua vitale carica di contestazione e contrapposizione rispetto alla cultura e alla lingua dominante, o, per dirla con Fortini, ‘un’energia dirompente accumulata da una secolare tradizione di subordinazione’ . E allora, se questa carica, questa energia viene meno; se il dialetto è piegato a declamare il sublime, in forme lirico-elegiache, piuttosto che il comico in forme epico-realistiche; insomma se anche il vernacolo si pone come autoreferenziale, cioè come lingua letteraria di convenzione e di maniera, dove andiamo a finire?
Fingendo la comunicazione cum mortuis in lingua mortua, si ottiene soltanto 'una tiepida perpetuazione decorativa interessante soprattutto i vicini di collegio o di gruppo' conclude brutalmente Fortini. Questa volontà di chiamarsi fuori dal gioco, di rinchiudersi in una dimensione 'domestica', 'materna', ormai fuori dal tempo e dalla storia, d’altra parte, non è neutra, culturalmente e neanche politicamente. Lo si voglia o no, si rischia di ritrovarsi a fare i conti con una Vandea nostalgico-reazionaria, di cui l’affermarsi di un movimento politico come la Lega Nord è sintomo inquietante. Ed è paradossale, infine, che i reduci dalla stagione del folk revival, dopo essersi fatti le ossa imparando antiche lingue ed usanze cantando le canzoni 'popolari' di protesta, si trovino oggi circondati da questa Vandea, che sembra parlare –ma è solo un’illusione ottica- la stessa lingua!

Fauvel



Alcune notizie su Franco Brevini e la sua opera (poche per la verità..)


http://perception.unibg.it/cerco/persone/user.asp?ID=67


http://www.bol.it/libri/scheda/ea978880612211.html;jsessionid=A05E5B3DD76E256E18625DBE43CD048B

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