Sì,
già altre volte avevo lavorato in un simile contesto, ma su effetti
non musicali. Tra l’altro, nel ’95 avevo elaborato i "rumori"
che furono poi usati da Riccardo Muti per il mozartiano “Die
Zauberflöte”, nell'inaugurazione della stagione del Teatro alla Scala di Milano,
per la regia di R.De Simone.
Tornando
a Brouwer, l’elaborazione del “Paesaggio” piacque moltissimo
anche a Leo - sempre alla ricerca di sonorità nuove - che ne fu
entusiasta, e quindi decidemmo di inserirla nel CD.
Dell’album
uscito per la GHA è stata recentemente pubblicata una bellissima
recensione ad opera del famoso chitarrista uruguayano Eduardo
Fernandez, sulla rivista “Il Fronimo”. Mi ha fatto molto piacere
che Eduardo abbia scritto che “Le
esecuzioni del Guitart Quartet ci restituiscono (finalmente) queste
opere di Brouwer come i capolavori che indiscutibilmente sono”.
Purtroppo
poi nel CD non abbiamo potuto includere, per un problema di diritti,
la registrazione del “Concierto Italico” fatta con Leo come
direttore, registrazione che è stata pubblicata poi a Cuba in un CD
monografico di musiche di Leo.
Al
posto del concerto, visti i tempi ristrettissimi che avevamo, abbiamo
inserito una mia versione per quartetto solo della “Gismontiana”.
Anche
la storia di questa versione è abbastanza particolare e legata al
caso.
Leo
- allora direttore del Festival di Cordoba - ci aveva invitato a
suonare la Gismontiana con l’orchestra, vista la rinuncia
(ufficialmente per una tendinite) data da J.Williams per l’esecuzione
del concerto per due chitarre e orchestra (“Book of signs”) che
doveva suonare con C.Cotsiolis. Pochi giorni prima del concerto però,
Williams ci ripensa e dà la sua disponibilità a suonare. Non
volendo rinunciare al concerto, proposi a Leo di suonare la mia
versione per quartetto solo, e lui ne fu entusiasta, sia per la
proposta, che dopo averla ascoltata.
Rimase
fuori da questa versione solo un brano, “Loro”, perché per come
era scritto, con numerosi passi delle 4 chitarre all’unisono, non
aveva molto senso arrangiarlo per quartetto solo.
Quella
serata “cordobesa” (alle 11 di notte, con un caldo insopportabile
e un pubblico di mille persone) è testimoniata da un video della
“Cadenza”, che ho trovato per puro caso su YouTube, filmato da un
ascoltatore che aveva un bel daffare nel cercare di non muoversi nel
trambusto di pubblico che c’era....
Parlando
di compositori innovativi, che ne pensi di John Zorn, dei suoi studi
Book of Heads e della scena musicale downtown newyorkese così pronta
ad appropriarsi e a ricodificare qualunque linguaggio musicale,
dall’improvvisazione, al jazz, alla contemporanea, al noise, alla
musica per cartoni animati?
Conosco
gli studi di John Zorn attraverso le splendide esecuzioni - le ho
sentite anche dal vivo - del nostro comune amico Marco Cappelli. E’
un ambito che mi attrae moltissimo e, devo confessare, più volte con
Marco - durante i nostri incontri su Skype - ci siamo vicendevolmente
rammaricati di non avere l’opportunità di collaborare insieme,
cosa un po’ problematica, visto che lui abita a New York e spesso i
suoi fugaci passaggi italiani sono coincisi con miei impegni
all’estero. Credo anche io che la scena del downtown della Grande
Mela sia la più reattiva a farsi permeare da tutti i linguaggi, non
solo quelli da te citati, ma anche quelli, diversissimi, dell’est
del mondo.
Credo
che però sia difficile, se non impossibile, per chi vive lontano da
questa realtà, farsi “trasportare” da quest’onda innovativa
che sta dando esiti imprevedibili, ma anche talmente multiformi, da
essere quasi proibitivi per chi ne “vive” al di fuori. Non è un
caso che Marco abbia fatto una scelta ben precisa in tal senso
decidendo di risiedere stabilmente a New York.
Berio
nel suo saggio “Un ricordo al futuro” ha scritto: “...Un
pianista che si dichiara specialista del repertorio classico e
romantico, e suona Beethoven e Chopin senza conoscere la musica del
Novecento, è altrettanto spento di un pianista che si dichiara
specialista di musica contemporanea e la suona con mani e mente che
non sono stati mai attraversati in profondità da Beethoven e
Chopin.” Tu suoni sia un repertorio tradizionalmente classico che
il repertorio contemporaneo … ti riconosci in queste parole?
Anche
se non sono un appassionato delle considerazioni in stile “aforisma”,
devo dire di trovarmi sostanzialmente d’accordo con quanto scrive
Berio.
In
genere io suono il repertorio che mi piace e che ha la capacità di
attrarmi. Questo mi ha portato ad interessarmi a musiche che vanno
dal rinascimento ai giorni nostri con tutte le epoche intermedie...
Ho
avuto lo stesso approccio - l’interesse derivato dall’attrazione
- sia suonando il liuto come continuo nelle Quattro Stagioni
vivaldiane, che le canzoni di Berio (in una versione approvata dal
compositore con la chitarra al posto dell’arpa) in ensemble in un
concerto di musica contemporanea, o alcuni brani dal Marteau
sans maître di
P.Boulez - suonati al Teatro S.Carlo di Napoli alla presenza del
compositore francese - passando per le sonate di Cimarosa e
Scarlatti, per gli studietti facili dell’op. 50 di M.Giuliani o per
i Capricci di L.Legnani e per l’integrale (probabilmente la prima
in assoluto) dei 24 Preludi e Fughe di M.Castelnuovo-Tedesco per due
chitarre, o per gli studi di A.Gilardino.
Naturalmente
non mi riferisco all’approccio interpretativo, diverso per ogni
autore, ma a quella autenticità di intenzioni che ti rende “onesto”
di fronte ad ogni composizione, nella considerazione che la musica va
sempre studiata e assimilata nel profondo, imparando a sentirla come
“propria”, anche quando gli autori sono lontani tra loro anni
luce.
Quale
significato ha l’improvvisazione nella tua ricerca musicale? Si può
tornare a parlare di improvvisazione in un repertorio così
codificato come quello classico o bisogna per forza uscirne e
rivolgersi ad altri repertori, jazz, contemporanea, etc?
Io
credo che l’ambito interpretativo, anche quando investe il
repertorio cosiddetto “colto”, possa dare a volte spazio a modi
di suonare che possono tranquillamente essere ascritti all’ambito
improvvisativo.
Mi
spiego: se per improvvisazione si intende elaborare quello che è il
materiale musicale intervenendo sulla sua essenza (note, armonia,
struttura, etc.), certamente questo esula dal campo della musica che
tu giustamente definisci “codificata”.
Ma
se invece improvvisare significa farsi trasportare dalle emozioni che
può creare l’estemporaneità di una esecuzione o di un “momento”
(una sorta di “duende classico”: “il
duende è un potere e non un agire, è un lottare e non un pensare”),
allora certo che mi capita di improvvisare.
L’altra
sera, ad esempio, nel concerto di debutto del duo che ho formato con
il mio amico Aniello Desiderio (il “Virtuoso Duo”) abbiamo avuto
moltissimi momenti di sintonia perfetta, nei quali ci siamo in
continuazione rincorsi in improvvisazioni interpretative, soprattutto
nella musica di Albeniz e Granados, che nulla avevano che fare con
ciò che nelle prove avevamo preparato. Il risultato, soprattutto sul
piano emotivo, oltreché musicale, è stato straordinario e mi fa
piacere che anche il pubblico ne sia stato preso....
Ascoltando
la tua musica ho notato la tranquilla serenità con cui ti approcci
allo strumento indipendentemente dal repertorio, da chi stai
suonando, dal compositore, dallo strumento che adoperi, dimostri
sempre un totale controllo sia tecnico che emotivo. Quanto è
importante il lavoro sulla tecnica per raggiungere questo livello di
“sicurezza”?
Certamente
il lavoro sulla tecnica è importante, ma avere il controllo di “ciò
che si fa” deve solo servire come mezzo per poter rendere appieno
“ciò che si pensa”, questo è il ruolo della tecnica, secondo
me. Anzi, più che di tecnica, parlerei di controllo e sviluppo di
“tecniche”, cioè di tutto l’insieme delle varie “meccaniche”
che consentono di avere una tecnica specifica da applicare alle
singole esigenze che la “tecnica musicale” richiede per esprimere
il proprio pensiero di interprete.
Ti
faccio un esempio molto banale: ho sempre sorriso quando qualcuno mi
ha chiesto “che tecnica adoperi per l’esecuzione delle scale?”
e ho sempre risposto che questa è una domanda, per me, senza senso.
Se
devo suonare una monodia molto legata e cantabile, non ho alcun
problema a farlo con un solo dito della destra - magari con un tocco
di polso senza articolazione delle dita -, così invece se il
materiale musicale che sto suonando richiede un'articolazione binaria
spiccata, uso l’alternanza i,
m,
ma se mi serve una velocità ed una scioltezza virtuosistiche (penso
ai capricci di Legnani) allora frequentemente uso una diteggiatura a
tre dita con a,
m,
i
e non è che mi importi più di tanto se questo è un atteggiamento
che non può certo definirsi, per molti autori, filologico.
E
un discorso simile si potrebbe fare per l’uso del tocco volante o
appoggiato o per tutti gli aspetti meccanici conosciuti.
Per
questo dico che più “tecniche” si hanno a disposizione, più si
può essere in grado di “rispondere” alle problematiche
interpretative che la musica pone.
In
questo senso devo dire che i “momenti” fondamentali della
chitarra moderna, quelli che hanno segnato una svolta nel reale
sviluppo delle “tecniche”, non possono che essere i 12 studi di
Villa-Lobos e, con un linguaggio più vicino alla nostra modernità,
i 60 Studi di Virtuosità e Trascendenza di A.Gilardino. Il loro
studio dovrebbe essere obbligatorio, come è nei miei corsi, per
tutti i chitarristi...
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