venerdì 10 febbraio 2012

Kristallnacht di John Zorn, quarta parte


Il disco

Dicevamo disco amato dai fan della prima ora di Zorn, disco di grande interesse musicale ed ideologico, pietra angolare che porterà nel giro di qualche anno allo sviluppo dell’immenso canzoniere Masada, poi replicato nel Nuovo Millennio con il successivo Book Of Angels, imperniati sul rinnovamento e l’attualizzazione della musica klezmer.
Ma “Kristallnacht” non è Masada, diversi i musicisti impiegati, diversi i suoni, diverso il contesto. Zorn crea cinema per le orecchie, fotografie sonore: un lungo piano sequenza della notte fra il 9 ed il 10 novembre 1938, poche ore che impressero una svolta alla storia, dove non vi è salvazione, né redenzione: la storia non l’ha portata con sé, in dono, assieme alle macerie ed alle vite distrutte. E come tale nella sua cruda realtà mostra una musica giocata sui contrasti, dilaniata dai rumorismi, in grado di lasciare un marchio indelebile per chi la ascolta.
L’ascolto non è assolutamente facile, ma penso che questo sia uno di quei lavori imprescindibili per chi voglia avvicinarsi all’universo di Zorn. Oltre il virtuosismo a cui i musicisti di Zorn ci hanno abituati, aldilà del sentimento e dell’avanguardia, lontano anni luce dall’easy listening di album come The Dreamers e The Gift, questo lavoro colpisce come arte, come shock, come esperienza, come potenza e espressività fotografica che emana da ogni singolo passaggio.
Gli strumenti, le musiche, i suoni, i rumori non cedono un millimetro, un solo grammo della ferocia insensata che animava le anime delle alte cariche naziste: la musica esprime un dramma corporeo, concreto, devastante. La tromba secca, lancinante, disperata che toglie il velo a “Shtetl (Ghetto Life)”, le registrazioni radio, a sollevare la nazione in propria difesa (“Republiken, Fallen!”), l’inutile dolce nenia mitteleuropea in sfumare, unica traccia di melodia all’interno di un blocco cupo, ossessivo, claustrofobico, violento, senza speranza, come senza speranza fu la storia stessa.
“Gahelet (Embers)” è silenzio ambientale, appena percorso da scosse ed archetti, l’omertà che il mondo osservò nei confronti del massacro, una contrapposizione traumatizzante ed estrema verso il free jazz compulsivo e nevrastenico di “Tikkun (Rectification)” e le aggressioni industrial di una pesantissima “Barzel (Iron Fist)”, litanie e versetti salmodiati ridotti in brandelli all'interno di un coacervo di brutture noise, dove ogni tonfo, ogni gemere è il pugno ponderoso delle percosse, dei supplizi. Un disordine cavalcato dalla sei corde di Ribot in “Gariin (Nucleus - The New Settlement)”, inferno no wave no future, altro che punk del 1977, che suona, agghiacciante e vaticinante, alla stregua del disastro che fu, e che si ricompone solamente a tratti su “Tzfia (Looking Ahead)”, febbricitante spaccato di tensione e desolazione per elettronica, violino e chitarra.
Chiudono le urla e i rumori di “Never Again”. Mai più, mai più. Basta parole e discorsi da doppiopetto. Basta immagini, basta strumenti, basta musica, solo rumore, feroce, un suono bianco che taglia la bocca, dodici minuti di raggelante realtà: i vetri dei negozi che passano in frantumi, le urla della gente che gioisce dello scempio, del dolore inferto agli altri. Il sangue del capro espiatorio che viene immolato e il giubilo di chi agisce. Cocci che volano e si schiantano come le vite che rappresentano, raramente contrastati da pochi momenti di tenue melodia, rapidi attimi di sollievo in un maelestrum di dolore, coperti da una coltre di feedback sparge sale sulle ferite e rammenta l'intrinseca sofferenza della condizione ebraica.


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