lunedì 12 maggio 2014

Intervista con Ermanno Brignolo di Andrea Aguzzi, prima parte



La prima domanda è sempre quella classica: come è nato il suo amore e interesse per la chitarra e con quali strumenti suona o ha suonato?

La prima chitarra che io abbia visto, all’età di due anni, è stata quella di mio zio Giorgio, fratello di mia madre: chitarrista per diletto ma artista in altri campi (ricordo le sue splendide chine e degli ineguagliabili modelli in legno di vascelli e golette di varia foggia). Alla sua, seguì quella di mio fratello Corrado che, a 10 anni, espresse il desiderio di imparare a suonare la chitarra. Come resistere alla tentazione (e alla fanciullesca invidia) di mettere le mani su quel suo nuovo, enorme giocattolo? Fu allora, nonostante la chitarra fosse letteralmente più grande di me (avevo sei anni scarsi), che iniziai a muovere i primi passi sullo strumento. Da allora, non ho mai smesso.
Ricordo ancora tutti gli strumenti che ho avuto, tuttavia la mia attuale rosa di strumenti annovera due chitarre classiche, un’elettrica e un basso acustico senza tasti. Le due classiche, molto differenti tra loro per caratteristiche timbriche, sono una F.lli Masetti del 1963 e una Urs Langenbacher del 2010, quest’ultima con puntale.

Come è nata l’idea di un progetto discografico interamente dedicato all’Archivio della Fondazione Segovia?

Sono stati tanti i fattori che hanno portato all’inizio dei lavori del disco The Andrés Segovia Archive: curiosità, interesse personale verso quel tipo di repertorio, voglia di “lasciare un segno”. Credo che la prima volta che questa idea mi Ë balenata in testa sia stato intorno al 2004, o giù di lì: parlando con un paio di colleghi venni a sapere di alcune nuove edizioni di lavori di Castelnuovo-Tedesco e di alcune scoperte nelle casse di Segovia. La curiosità la fece da padrona, così iniziai a prendere informazioni su questa imponente addizione al repertorio. Man mano che le partiture arrivavano, mi resi conto che quei brani, oltre ad avere un elevatissimo contenuto musicale, erano in sintonia con il mio “mondo musicale” (sarebbe meglio dire che io ero affine alla loro natura…) e forse avrei potuto avere qualcosa da dire in merito. A questo si aggiunga che non mi sono mai piaciuti i lavori parziali o le cose lasciate a metà, come l’esecuzione di alcuni movimenti di una suite o di una sonata. Detesto questo tipo di operazioni, quindi di studiare solo alcuni brani dell’Archivio era fuori discussione: una volta iniziato, si va fino in fondo!
L’idea, quindi, è nata così: non certo per caso, nè per suggerimento di altri… anzi, quante sono state le persone che hanno tentato di dissuadermi dal tuffarmi in questo lavoro! Merita menzione, in questo frangente, un avvenimento che materializza e accredita un giudizio critico espresso nei confronti di un collega. Tra il 2004 e il 2007, Cristiano Porqueddu ha realizzato, pioniere in molti sensi, il progetto “Trascendentia”. Mentirei se dicessi che quell’uscita non mi ha influenzato: era la dimostrazione che un progetto così “imponente” si poteva realizzare. Non ho mai pensato che fosse facile: tutt’altro, ma difficile non significa impossibile. Non avevo bisogno di altro: la decisione era presa.

Un cofanetto di 7 cd Ë un’impresa semplicemente poderosa, quanto l’ha impegnata a livello professionale e emotivo?

L’assorbimento è stato pressochè totale. Il vero e proprio inizio dei lavori è avvenuto nel 2008. Prima di allora, sebbene quell’idea fosse sempre presente, in qualche modo sentivo che non era ancora il momento: avvertivo di non essere ancora pronto per affrontare tutta quella musica, per decifrarla con la dovuta profondità, per esprimerla al mio meglio. Era come se, ogni volta che avvicinavo un brano, mi sfuggisse qualcosa: non avevo difficoltà a comprendere la musica, ma da lÏ a renderle giustizia la strada era ancora lunga e si poteva scavare di pi_, ma dovevo individuare meglio la direzione in cui scavare. Mi resi conto di essere pronto a iniziare quando portai in concerto alcuni brani dell’Archivio Segovia: dapprima la Sonata di Desderi, poi il tema variato della Peyrot, le Inventions di Tansman, i Quattro pezzi di Berkeley e altri ancora. Impiegai tre anni per analizzare e studiare tutti quei brani (inclusi quelli che, nel frattempo, venivano aggiunti alla collezione) e finalmente, a maggio del 2011, iniziarono le riprese, proprio con la Sonata di Desderi. Avendo la fortuna di poter lavorare nel mio studio, le sessioni erano irregolari: alternavo periodi di studio intenso e meticoloso ad altri di registrazione e editing, senza dover seguire uno schema preciso o scadenze prestabilite. Ho così potuto soppesare con attenzione le interpretazioni, valutare le registrazioni, rifare le tracce che ritenevo insoddisfacenti e conseguire un risultato che secondo me era adeguato. Questa apparente tranquillità, però, è controbilanciata da un lato dal peso di gestire tutto da solo (aspetto artistico – la musica – e tecnico – le riprese), e dall’altro dalla responsabilità – che ho sempre avvertito – di tratteggiare quei brani con decisione, indagando a fondo il carattere e le peculiarità di ogni frase. Ricordo di essere uscito sfinito da alcune sessioni di registrazione, tra tutte, quella per la ripresa della Fantasia-Sonata op. A=22 di Manèn. Di tutto il lavoro, però, il peso maggiore l’ha avuto la responsabilità di dare forma non solo a pagine di musica meravigliosa, ma a quello che lo stesso Gilardino, nella prefazione al suo libro “Andrès Segovia, l’uomo e l’artista” ha definito come “l’eredità di Segovia”. Questo senso di responsabilità ha aleggiato su tutto il progetto, non certo limitandolo o condizionandomi nelle scelte, quanto, piuttosto, acuendo la cura dei dettagli e l’attenzione altissima ad ogni piccolo e apparentemente insignificante passettino.

Oltre che chitarrista lei è anche laureato in Ingegneria … questo spiega la sua passione per gli studi di registrazione? So che in questo campo lei è un esperto.

Quello dell’ingegneria (meccanica) è sempre stato un percorso parallelo alla musica. La scienza (più della tecnica) mi ha sempre affascinato, e la necessità di avere un’àncora di salvezza nel caso – non remoto – in cui vivere di sola musica fosse stato difficile mi ha portato a scegliere questa facoltà. D’altra parte, in quegli anni era ancora possibile iscriversi a un’università e sostenere gli esami in conservatorio come privatisti allo stesso tempo, pertanto ho potuto conseguire entrambi i titoli, sperando comunque un giorno di poterli sfruttare entrambi. Fatta questa premessa, devo dire che le basi apprese nei corsi d’ingegneria sono state sicuramente utilissime nello sviluppo delle mie conoscenze nel campo delle tecniche audio, ma non ne sono state la causa, né le motivano. A guidarmi; anzi, a iniziarmi al mondo della registrazione fu un mio carissimo amico, Simone Lampedone, stimatissimo ingegnere del suono dotato, per di più, di uno squisito e non comune gusto musicale. Lavorai al suo fianco per cinque anni, e mentre realizzavamo alcune produzioni, lui rispondeva – paziente come un santo – a tutte le mie domande in merito ai processi, alla teoria di fondo e ai trucchi del suo mestiere. Qualche anno più tardi, appena ne ebbi l’occasione, usai – questa volta sì, e in modo massiccio – la mia formazione ingegneristica per progettare e costruire il mio studio, portando a termine con successo calcoli sul trattamento acustico, selezione dei materiali, dimensionamento degli ambienti e tutto l’occorrente per allestire i locali agli usi che mi occorrevano.

Ascoltando la sua musica ho notato la tranquilla serenità con cui lei si approccia allo strumento indipendentemente dal repertorio, con chi sta suonando, dal compositore, dallo strumento che lei adopera dimostrando sempre un totale controllo sia tecnico che emotivo, quanto è importante il lavoro sulla tecnica per raggiungere a questo livello di “sicurezza”?

Intanto, grazie: credo sia uno dei più bei complimenti che un musicista possa ricevere. Per rispondere alla sua domanda, la tecnica è uno strumento: più è affinato, meglio potrà trasporre e realizzare il proprio pensiero musicale. Il lavoro sulla tecnica, quindi, è fondamentale non solo per quanto riguarda la meccanica esecutiva, ma anche – anzi, soprattutto e prima di tutto – per l’analisi dei brani. La direzione che ho voluto dare nelle mie interpretazioni è legata a una visione polistrumentale della musica per chitarra: un’orchestra allargata che può prendere la forma ora del quartetto d’archi (Colloquio con Andrés Segovia di Gilardino), ora dell’organo (Intermezzo di Frazzi), ora della chitarra manouche (Spiritual di Ferroud), ora dell’orchestra sinfonica (Fantasia-Sonata di Manén) e così via. Per dare un aspetto credibile alle evocazioni sonore e alle articolazioni che ho individuato, ho dovuto necessariamente agire sotto il profilo tecnico per portare sulla chitarra queste caratteristiche, tuttavia ho ritenuto di primaria importanza fare in modo che il ricorso ad artifici tecnici non sempre immediati fosse del tutto naturale nel fluire del discorso sonoro. L’utilizzo del pollice della mano sinistra come dito “attivo” e non solo come puntello contro il manico; l’utilizzo di timbri estremi; il ricorso a diteggiature “impervie” per mantenere la trama polifonica sono solo alcune delle tecniche che ho approfondito, oltre allo sviluppo della naturalezza nei passaggi virtuosisticamente più impegnativi come il secondo dei Quatre pièces di Martelli. Dunque sì: lo sviluppo della tecnica è imprescindibile, ma occorre ricordare che non è quella la finalità del lavoro; come dicevo, è nient’altro che uno strumento al servizio di un’idea musicale.

__ continua domani ___

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