martedì 27 dicembre 2011

Intervista a Bruskers di Carlo Siega, prima parte


  1. La prima domanda è sempre quella classica: com’ è nato il vostro amore per la chitarra?

E: Tutto è nato molto semplicemente e un po’ inconsapevolmente. Ho iniziato perché c’era una chitarra in casa. A 8 anni io a dire il vero volevo suonare il pianoforte! E’ uno strumento che da bambini è visto come qualcosa di importante, misterioso, quasi imperscrutabile, ed è molto comune la volontà di avvicinarsi a questo “gigante” buono. Purtroppo non fui selezionato alla prova d’ingresso della scuola di musica della mia città e mi proposero di studiare chitarra classica. Mi ricordai della chitarra che avevo in casa perché mia madre molti anni prima prese lezioni e dei momenti in cui tentavo invano di tirarci qualche suono “sensato”, per cui prevalse la curiosità e risposi qualcosa come: “Ma sì, va bene!”. Iniziai proprio con l’insegnante che di fatto mi portò fino al diploma: Mauro Bruschi. All’inizio presi lo studio della chitarra quasi come un gioco, ma dopo gli alti e bassi dei primi 2 anni iniziai a capire che forse qualche suono sensato poteva uscire dalle mie mani: e ci presi proprio gusto! Poi il resto venne con gli anni: lo studio intensivo, il diploma, la curiosità di apprendere altri generi, di sperimentare, è stato un interesse che negli anni si è evoluto, ha preso nuove sfaccettature, ma è rimasto sicuramente inalterato.

M: La passione per la musica è nata da bambino, all’età di circa sette anni, ma devo ammettere che l’incontro con la chitarra è stato quasi casuale. Inizialmente infatti avevo fatto richiesta di essere iscritto al corso di pianoforte presso la locale scuola comunale: non vi era più posto e mi fu proposto di partecipare alla classe di chitarra classica.. una fortuna. Non ricordo esattamente quale fu la ragione scatenante della mia voglia di iscrivermi, ma rammento perfettamente, e facevo le scuole elementari, che quando il bidello entrò in classe domandando chi volesse partecipare ai corsi di musica, prontamente mi alzai esclamando “io, io !! ” … e in casa mia nessuno praticava uno strumento.

2) Nel panorama chitarristico italiano, ma anche internazionale, oggi sono presenti moltissimi duo di chitarra, però sembra che voi tendiate suonare “fuori dal seminato”, a cominciare proprio dal repertorio (di stampo non-accademico): volete raccontarci del vostro progetto? Chi sono il Bruskers duo? E com’è nato?

Hai ragione, suoniamo “fuori dal seminato”, ma ci permettiamo di aggiungere che non riguarda solo il repertorio di stampo accademico, ma anche quello jazzistico da cui prendiamo molti brani. Gli standard jazz solo soltanto un pretesto, un mezzo per trovare un terreno comune su cui lavorare e in cui far incontrare un chitarrista classico e uno di formazione più moderna. Non siamo jazzisti, quella musica ci piace e ci affascina molto ma non è quello che cerchiamo. Il jazz è il punto di partenza per cercare di creare il nostro linguaggio personale che non credo sia esattamente circoscrivibile da definizioni nette di genere.

La nascita del nostro progetto può risultare anomala poiché è nato in seno a un’orchestra che aveva, e tuttora ha, l’obiettivo di unire insieme chitarristi derivanti dalle due differenti preparazioni scolastiche: chitarra classica e moderna, o come è preferibile definire quest’ultima, “chitarra acustica”. Nella scuola di musica presso la quale siamo insegnanti (Fondazione C. e G. Andreoli), da sempre i corsi di chitarra hanno avuto numerosi iscritti: il problema è quello di far suonare insieme così tanti ragazzi. Una soluzione è stata quella di creare un’orchestra di sole chitarre che permettesse agli iscritti ai vari corsi (classico e acustico) di fare musica d’insieme: nel 2000 nacque così la “Lybra Guitar Orchestra”. In questa maniera ci siamo potuti conoscere e alcuni di noi hanno iniziato a sperimentare in una formazione ridotta questa contaminazione fra generi, prima con un ensamble di quattro, poi tre e infine soli due elementi: i Bruskers attuali, cioè un chitarrista classico e uno di estrazione moderna!

Siamo partiti, quasi per scherzo, partecipando ad un noto festival di “Buskers” come puro divertimento e come svago tra chitarristi che si conoscevano ma non avevano mai suonato insieme. Poi siamo rimasti in due e il lavoro si è intensificato, cercando di prendere una direzione il più possibile personale e riconoscibile. Hai detto giustamente che ad oggi sono presenti moltissimi duo di chitarra, tantissimi davvero bravi aggiungiamo. Crediamo che la strada per farsi notare sia proprio la ricerca di una propria identità musicale precisa, e per il nostro genere penso sia un fattore assolutamente determinante. Nel caso di un duo che esegue repertorio classico, oltre alla ricerca di questa propria personalità pensiamo che siano altrettanto importanti anche altri elementi, fatto dovuto semplicemente al repertorio che si esegue, come l’aspetto filologico o una ricerca maggiore del suono anche da un punto di vista “estetico”. La nostra è una ricerca focalizzata su dettagli di tipo leggermente differente, ma credo che non possa essere diversamente.

3)Nei vostri album, a partire dal primissimo (in cui eravate un trio), sino all’ultimo, eseguite vostri arrangiamenti di “standard” più o meno famosi. Ma come avviene la scelta dei brani da inserire nella scaletta?

E: Arriva da brani che ci sono rimasti impressi per qualche motivo, che conosciamo magari perché rivisitate in formazioni e con organici dei più svariati ma di cui non conosciamo rivisitazioni chitarristiche, e lo voglia di misurarci con questi brani è davvero tanta. Altre volte la scelta è molto più legata a serate passate insieme a suonare, a sfogliare i Real Book del jazz alla ricerca di nuovi stimoli o di brani a noi sconosciuti che possono tuttavia fornirci validi spunti al nostro lavoro. Quest’ultimo “processo” si svolge un po’ così:

E: “dai leggiamo questo..”

M: “..mmh..noioso..guarda questo invece!”

E.: “non mi piace, non suona..”

M: “questo??”

E.: “Bello, il tema si potrebbe rivedere così”

M: “Ok..magari lo trasportiamo di tonalità che funziona meglio”

E: “Sì giusto!”

E così si inizia a suonare e si passa una serata a metter in fila idee, provare magari versioni diverse con altrettanto svariati “feel” dello stesso brano, poi le registriamo e le riascoltiamo a casa a mente fresca. Magari dopo qualche giorno il nostro lavoro non ci piace affatto e viene accantonato, altre volte siamo più fortunati e un nuovo brano comincia a prendere vita. Ha inizio così il vero proprio processo di elaborazione, di arrangiamento e di rivisitazione. Molto spesso decidiamo di affiancare alle rivisitazioni dei temi e delle sezioni completamente nuove scritte da noi. I più attenti, e i conoscitori del genere, a volte le riconoscono, e ci fa piacere, altri invece pensano che siano parte dell’originale, e magari ci fa piacere comunque perché può significare che il brano ha una buona resa, e “funziona”. Questi interventi “strutturali” poi possono, anche a ragione, non piacere affatto, ma questa ovviamente è un’altra storia e siamo pienamente consapevoli che le nostre scelte possono non soddisfare ad esempio i puristi del jazz, ma non ce ne preoccupiamo. Il nostro come ho già detto non è jazz, come non è in realtà pienamente inscrivibile in altri generi.

M: Occorre innanzitutto precisare che noi non siamo musicisti jazz o “jazz addicted”. Questa puntualizzazione può far risultare strana la nostra scelta di includere numerosi brani derivanti appunto dalla tradizione jazzistica. Consideriamo il repertorio jazz come una ricca e generosa cornucopia di ispirazione dalla quale attingere con assiduità. Solitamente, a meno di brani particolarmente noti, la nostra scelta si basa sulla lettura dei cosiddetti “Real Book”, ovvero i testi che raccolgono numerosissimi spartiti jazz: li proviamo a suonare insieme a prima vista.. se scatta la scintilla della curiosità allora proseguiamo nell’elaborazione. Tutto questo necessita un tempo variabile: vi sono stati brani che hanno richiesto semplicemente un paio di incontri per raggiungere la forma definitiva, altri che hanno subito metamorfosi continue, anche di mesi, per poi magari alla fine essere scartati. Inoltre, per i brani meno noti, di solito non cerchiamo la versione audio originale e nemmeno una rielaborazione già eseguita da altri artisti, per non essere influenzati nella nostra creatività.

4) Nella domanda precedente mi sono riferito al vostro “ultimo” album, senza però specificare nulla: ebbene, si intitola “Addition” e, se non sbaglio, è uscito pochissimi giorni fa. Raccontateci di questo nuovo progetto!

M: “Addition” è il frutto di un’attività certosina e contemporaneamente frenetica in sala prove durata parecchi mesi. Il lavoro più impegnativo è stato quello di mantenere costantemente vivo il dialogo fra le nostre chitarre. Il disco è inteso come un conversazione fra due persone che, continuando a scambiarsi opinioni, reciprocamente si arricchiscono e scoprono vicendevolmente nuovi aspetti riguardo argomenti che pensavano già di conoscere. Il tutto senza pronunciare una sola parola ma esprimendo i propri pensieri attraverso la musica.

Uno dei commenti che spesso riceviamo al termine dei nostri concerti è quello di aver incuriosito l’ascoltatore mantenendo viva in lui, durante l’esibizione, la domanda “.. e adesso cosa farà quell’altro?!”

Questo è l’intento di “Addition”, ovvero creare un intreccio di idee che spostino ritmicamente l’attenzione prima su uno e poi sull’altro protagonista senza che ve ne sia uno sostanzialmente principale. “Addition” è realmente la somma dei contributi di due persone e non vuole limitarsi al semplice “1+1 = 2” ma mira a creare qualcosa in più, spesso inaspettato. Il vero valore aggiunto del disco è quello di concretizzare la sinergia fra idee provenienti da differenti esperienze.

E: “Addition” è senza dubbio un album che ci è costato tantissimo impegno. Un anno e mezzo di lavoro e due settimane in studio con ritmi decisamente faticosi. “Addition” credo però che rappresenti molto bene quello che sono i Bruskers in questo momento. Rappresenta una visione comune ma allo stesso tempo diversa di intendere la musica e unisce molte contaminazioni in brani legati dal filo conduttore del jazz. Al pubblico starà a decidere se è un bel disco, non certo a noi! Sicuramente è quasi tutto quello che possiamo dare in questo momento: dico volutamente “quasi” perché credo sia sempre presente, in qualsiasi cosa, un margine di miglioramento, piccolo o grande che sia.

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