“Siccome non avevo avuto alcuna istruzione formale, per me tra Lightnin’ Slim, il gruppo vocale dei Jewels (che ai tempi cantavano Angel In My Life), Webern, Varèse o Stravinskij non c'era differenza. Per le mie orecchie ERA TUTTA BUONA MUSICA.” Frank Zappa
3. Gli studi sulla musica popolare, in Italia, non sono né una novità né una rarità. Che la canzone, il pop, il rock, la musica del cinema, della televisione, della pubblicità, e gli altri generi che insieme formano il campo musicale definito popular dagli anglosassoni, che questa musica “leggera”, “di consumo” potesse essere presa sul serio, esaminata, interpretata, analizzata, in Italia si è cominciato a pensarlo, a discuterlo, a farlo, almeno fin dalla prima metà degli anni sessanta.
Le spinte che confluivano in questo dibattito erano diverse e fra loro eterogenee: il boom economico e l'emergere dei giovani come categoria di consumatori, l'espansione dell’industria discografica e della televisione e le conseguenti preoccupazioni per la massificazione della cultura, lo scontro politico in una fase sospesa tra guerra fredda e disgelo, una certa visione culturale (e politica) che vedeva il “popolare” come sinonimo di “genuino” e il “colto” come sinonimo di “artefatto” o peggio “borghese”. Erano gli anni dei cantautori e di Bella Ciao (lo spettacolo che scandalizzò l'Italia benpensante riscoprendo il canto popolare), erano gli anni dei Beatles e dei Ferienkurse di Darmstadt (culla della musica d'avanguardia), erano gli anni in cui si pubblicavano gli scritti di Adorno sulla musica e quelli di Umberto Eco sui fumetti e la pubblicità. E su La canzone di consumo. E’ questo il titolo di un saggio inserito nel 1964 in Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, un libro che generò allora le stesse reazioni giornalistiche (tra lo stupefatto, lo scandalizzato, il compiaciuto) che ancora oggi ‑ a più di trent'anni di distanza ‑ si riscontrano ogni volta che si scopre che in qualche università (alla Sorbona, a Liverpool, a Berlino, o a Bologna, a Roma, a Trento, a Lecce) qualcuno si occupa seriamente del rap, dell'estetica dello studio di registrazione, della funzione del backbeat di rullante nel rock'n roll, della forma‑canzone. Il breve saggio di Eco, e il libro del quale era originariamente un commento (M.L. Straniero, S. Liberovici, E. Jona, G. De Maria, Le canzoni della cattiva coscienza, Bompiani, Milano 1964) anticipano di almeno cinque anni le prime riflessioni estetiche e sociologiche pubblicate negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, così come il dibattito di cui fu protagonista il Nuovo Canzoniere Italiano (insieme a vari studiosi e critici, come Roberto Leydi) precede quello, per molti aspetti analogo, da cui nacquero libri come The Sound of Our Time di Dave Laing (Sheed and Ward, London 1969), o The Aesthetics of Rock di Richard Meltzer (Something Else Press, New York 1970), considerati fra gli antesignani degli studi sulla popular music nel mondo anglosassone.
Da allora non si è mai smesso ‑ nel nostro paese ‑ di discutere e di riflettere a vari livelli di profondità e con diversi strumenti disciplinari (dall'emomusicologia alla critica letteraria e ideologica, dall'economia politica alla semiotica, dalla sociologia alla musicologia in senso stretto) di canzone, di rock, di popular music. L’esperienza emomusicologica e politica del Nuovo Canzoniere Italiano e dell'Istituto De Martino è confluita in quella de “I giorni cantati”, rivista nella quale protagonisti del dibattito degli anni sessanta e settanta (come il direttore Sandro Portelli, Cesare Bermani, Franco Coggiola, Giovanna Marini) si sono uniti ad altri (Massimo Canevacci, Ambrogio Sparagna, Felice Liperi, e altri ancora) per affrontare vari aspetti della dimensione urbana e industriale della popular music; la ricerca di un confronto fra musicisti, studiosi e pubblici appartenenti a generi diversi, tipica delle iniziative di "Musica/Realtà" dei primi anni settanta, è continuata sulla rivista omonima, diretta da Luigi Pestalozza, che ha mantenuto in tutti i numeri una presenza costante di saggi sulla popular music, contribuendo in modo determinante a creare contatti fra studiosi italiani (Nemesio Ala, Alessandro Carrera, Umberto Fiori, Emilio Ghezzi, Paolo Prato, me stesso) e stranieri (Richard Middleton, Philip Tagg, John Shepherd, Dave Laing, lain Chambers, Shuliei Hosokawa, e altri); né si può dimenticare 'Laboratorio Musica", la rivista diretta da Luigi Nono, che diede numerose occasioni per riflessioni approfondite sulla canzone e sul rock; altre riviste, come "Musiche" e "Auditorium" hanno affiancato alla cronaca, alle recensioni, alle interviste (spesso fonti di informazioni preziose, anche per il grande rigore della documentazione) dibattiti e saggi importanti; il Club Tenco ha organizzato ‑ oltre alle note rassegne della canzone d'autore ‑ convegni e dibattiti, e alcuni dei suoi principali sostenitori, come Mario De Luigi, Enrico De Angelis, Sergio Sacchi, sono tra i più attivi commentatori della canzone e della sua industria
Inoltre, diverse sono le università italiane nelle quali ci si occupa con continuità (anche se in vari modi e a vario titolo) di popular music; tra i docenti, oltre al già citato Portelli a Roma, Mario Baroni, Gino Stefani, Franco Minganti e Roberto Leydi a Bologna, Rossana Dalmonte e Gino Del Grosso a Trento, Gianfranco Salvatore a Lecce, mentre sta crescendo una generazione di studiosi laureatisi con tesi intorno alla popular music o che su di essa hanno dato contributi importanti (come Luca Marconi, Roberto Agostini, Vincenzo Perna). Esiste dal 1983 una sezione italiana della International Association for the Study of Popular Music (iAspm), che pubblica un bollettino di informazione ("Vox Popular,'). La iAspm italiana fa parte (insieme ad altre società musicologiche) del Gruppo di analisi e teoria musicale, e ha collaborato all'organizzazione del Secondo convegno europeo di Analisi musìcale del 1991, un'intera sessione del quale era dedicata alla popular music. Nel 1995 si è tenuto all'Università di Trento un convegno su Analisi e canzoni, con la partecipazione di un gran numero di studiosi italiani. Insomma, nonostante l'occasíonale cronista si stupisca che il rock possa essere oggetto di studio, nonostante sia ancora difficile convincere un editore che un'analisi della canzone Fernando degli ABBA possa essere altrettanto rigorosa e interessante per il pubblico dei lettori musicofili di una dissertazione sulla forma ABA del Lìed romantico, gli studi sulla popular music in Italia godono di una certa tradizione, diffusione e rispetto (ne siano una testimonianza, in questo volume, i numerosi riferimenti bibliografici e il trattamento di particolare attenzione nei confronti di alcuni studiosi, soprattutto Gino Stefani).
Vedi Franco Fabbri da “Studiare la popular music” di Richard Middleton, Feltrinelli 2001
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