La prima domanda è sempre quella classica: come è nato il tuo amore e interesse per la chitarra e con quali strumenti suoni o hai suonato?
Quello che attrae di uno strumento è sempre il suono, la sua voce particolare. Niente a che vedere quindi col linguaggio della musica, che arriva sempre dopo e rimane comunque in ogni istante differito rispetto al puro suono. La voce arriva prima della parola, no? Ho sempre suonato chitarre Ramirez; quella che suono attualmente è del 1969, ha il piano armonico in abete ed è di tiro lungo (664mm). Non ho mai trovato chitarre migliori, anche se è difficile dominarle, motivo per cui tanti se ne sono allontanati. A dispetto dei tempi questo strumento rimane una sfida, sia per chi vi si cimenta che per i liutai, i quali forse non la considerano più tanto importante come in passato.
Berio nel suo saggio “Un ricordo al futuro” ha scritto: «.. Un pianista che si dichiara specialista del repertorio classico e romantico, e suona Beethoven e Chopin senza conoscere la musica del Novecento, è altrettanto spento di un pianista che si dichiara specialista di musica contemporanea e la suona con mani e mente che non sono stati mai attraversati in profondità da Beethoven e Chopin.» Tu suoni sia un repertorio tradizionalmente classico che il repertorio contemporaneo … ti riconosci in queste parole?
No, perchè sono parole che riflettono un’attitudine di tipo didascalico («come si forma un musicista completo?»), mentre la distinzione stessa tra classico e contemporaneo è secondo me un falso. Per definizione il classico si dà per sempre e ‘contemporaneo’ è secondo me un aggettivo riferito a un’attualità che è solo cronologica: non bastano le nozze - molte volte ahimé infelici - tra la dissonanza e il ‘presente dell’oggi’, per produrre qualcosa di contemporaneo. Richard Strauss è la prova che si può essere fuori del proprio tempo da vivi. In quanto musicisti bisogna semmai essere contemporanei dell’autore, chiunque esso sia, ed è questo il passaggio che conduce finalmente fuori di ogni tempo inteso come kronos: questa è l’essenza della classicità e la via che mi piace percorrere. Più di quelle parole di Berio trovo interessante il bel titolo del saggio: penso che dobbiamo cimentarci col ‘ricordo al futuro’, cioè guadagnare l’attimo, l’immediato, dove passato e futuro si annullano, perché non sono mai nel presente… È questa la modalità possibile per uscire dalla didattica, che è sostanzialmente noia. Questo tipo di operazione restituisce alla musica una vera contemporaneità, quella appunto del ‘classico’, senza bisogno di urla al posto del canto, di chiodi nel pianoforte, di ‘cacca d’artista’ (che dopo la prima, grande provocazione di Piero Manzoni ha ben poco senso), etc. Ciò stabilito, penso naturalmente che il Novecento è pieno di splendida musica; non mi riferisco, tanto per essere chiari, soltanto a Stravinskj o a Shostakovich, ma anche ai Preludi per pianoforte di Jorge Ligeti, ai Capricci per violino di Salvatore Sciarrino o al suo magnifico Perduto in una città d’acque per piano (momenti in cui Sciarrino riesce veramente ad andare oltre lo strumento, ad ‘eccederlo’). Potrei fare molti altri esempi, ma per almeno sfiorare quell’oceano che è la musica del Novecento - non dico certo per esplorare a fondo - si potrebbe parlare per una settimana intera!
Quale significato ha l’improvvisazione nella tua ricerca musicale? Si può tornare a parlare di improvvisazione in un repertorio così codificato come quello classico o bisogna per forza uscirne e rivolgersi ad altri repertori, jazz, contemporanea, etc?
Questo è un punto assai interessante, una domanda che porta al cuore del problema. Partiamo dall’inizio: ogni atto musicale, bello o brutto, scaturisce da un’intuizione e la porta a terra (da dove, poi, è tutt’altro discorso). Più raffinato è l’orecchio di chi la coglie, migliore sarà il risultato. In ogni caso la forma non coincide mai con il contenuto, semmai è uno stato emotivo a esprimere l’urgenza di una forma; ma delle infinite forme possibili una deve essere scelta, se non altro per poter portare a termine un lavoro... Per meravigliosa e compiuta che sia, come in Mozart, l’intuizione scende sempre più o meno ‘grezza’; e mentre in Oriente si è continuato per secoli a suonare gli antichi modi improvvisando (l’esempio eclatante è oggi il meraviglioso liuto arabo di Munir Bashir), in Europa da un certo punto in poi abbiamo sentito il bisogno di rifinire l’intuizione, un po’come si soffia la polvere da un antico, prezioso vaso. Ed ecco così sopraggiungere la dannazione della forma, ecco la polifonia, il conflitto tra l’immediatezza e il lavorìo sulle proprie idee immancabilmente percepite come perfezionabili. Il musicista ideale in questo senso non esiste: a furia di perfezionare, le forme classiche si sono fatte perlopiù inaccessibili all’improvvisazione: la Grande Fuga in do per violino di Bach è improvvisabile..? Ci vorrebbero gli angeli in persona, o almeno per il momento è così. C’è però una musicista che ci si avvicina, la pianista Gabriela Montero: basta accennarle un qualsiasi temino ed ecco che lei in pubblico improvvisa interi minuti di musica dove puoi sentire echi di Ravel, Debussy, Bach, senza una sbavatura, con una forza poderosa; ma la forma, necessariamente, non va oltre il capriccio, la breve fantasia. Personalmente credo che le grandi creazioni dello stile classico impongano il ripensamento/arrangiamento. Non esiste ancora vera improvvisazione (nel senso autenticamente ‘divino’ di intuizione non mediata) e i tentativi di una certa avanguardia che lascia all’esecutore qualche margine di intervento - vedi i Klavierstücke di Stockhausen - sono solo palliativi. La velocità con la quale si rende il flusso delle proprie intuizioni, quella sì è improvvisazione, che se ne faccia una performance o meno: più è rapida, più si improvvisa con abilità. Ma anche nel jazz tradizionale quella libertà è sempre ‘condizionata’, vincolata agli accordi dello standard: né più e né meno di ciò che facevano i clavicembalisti del Barocco col loro ‘basso numerato’. Artisti come John Coltrane (che amo moltissimo) hanno cominciato a dissolvere quell’impianto, ma il free jazz è come tanta ‘contemporanea’, cioè tutto ‘in libertà’. Dobbiamo dunque chiederci: è vera libertà quella che sta nell’estemporaneo? Il mio concetto di improvvisazione coincide con l’essere attraversato dallo spirito di un’opera e divenire così la sua risonanza: l’opera torna a crearsi da sé, dunque si reimprovvisa. Ora potresti giustamente chiedermi se mi piacerebbe tirar giù un intero album in quaranta minuti, con la stessa fluidità della Montero: lasciami sospirare...!
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