giovedì 25 marzo 2010

Intervista a Enrico Coniglio, terza parte


Qual è il ruolo dell’Errore nella tua visione musicale? Dove per errore intendo un procedimento erroneo, un’irregolarità nel normale funzionamento di un meccanismo, una discontinuità su una superficie altrimenti uniforme che può portare a nuovi sviluppi e inattese sorprese...

Le cose nuove si scoprono sempre per errore, tutta la storia dell’umanità ne dà conferma. Personalmente mi sono avvicinato all’errore digitale, al glitch, tentando di recuperare dei file persi dal mio computer. Dalla memoria dei file soprascritti dell’hard-disk ho riesumato dei sample audio che contenevano errori digitali - ahimè - cioè che risultavano parzialmente sovrapposti tra loro, oppure troncati, oppure trasformati in rumore. Inizialmente ho pensato di aver perso tempo, ma poi ho capito che da quei file danneggiati si poteva ricavare qualcosa di buono. Alcuni di quei glitches sono diventati parte dell’ossatura di Cloudlands uscito come Aqua Dorsa (in duo con Oophoi, per la Glacial movements di Alessandro Tedeschi).
Analogamente è così che procedo: un nuovo lavoro è sempre figlio del lavoro precedente, magari di qualcosa che si è scoperto per errore, ma che si pensa di poter trasformare in un nuovo concept.


Quale significato ha l’improvvisazione nella ricerca musicale? Si può parlare di improvvisazione in una musica così legata alle macchine come la tua o bisogna per forza uscirne e rivolgersi ad altri repertori, jazz, contemporanea, etc?

La musica è probabilmente sempre frutto dell’improvvisazione, magari un’improvvisazione ragionata e poi successivamente rielaborata. In tal senso la “macchina” si presta bene ad essere utilizzata in modo libero e dà il vantaggio poi di poter aggiustare e lavorare di cesello in un secondo momento. Fare musica elettronica è manipolazione del suono, suono che può essere campionato, generato oppure “performato” con strumenti analogici e acustici. L’importante è non farsi ingabbiare, anche se è vero che un software tenderà pur sempre a condurti verso schemi logici secondo i quali è stato programmato: è una sfida aperta. In fondo partiamo tutti dai preset, poi mano mano che la ricerca personale si fa più sofisticata, impariamo ad abbandonare la strada facile.

Ho, a volte, la sensazione che nella nostra epoca la storia della musica scorra senza un particolare interesse per il suo decorso cronologico, nella nostra discoteca-biblioteca musicale il prima e il dopo, il passato e il futuro diventano elementi intercambiabili, questo non può comportare il rischio per un interprete e per un compositore di una visione uniforme? Di una “globalizzazione” musicale?

Non saprei, io ho più che altro la sensazione opposta. Un tale suono mi sembra facilmente databile, questo soprattutto per i suoni elettronici. La banalizzazione della musica avviene piuttosto perché i suoni tendono ad uniformarsi. Se pensiamo che la musica sia cultura, alta o bassa che sia, stiamo vivendo semplicemente le conseguenze della globalizzazione economica, dove globalizzazione significa omologazione, nel nostro caso del suono.
Poi ci sono altri fattori che portano al rischio dell’appiattimento, frutto di comportamenti individuali, di cui tutti noi dobbiamo fare mea culpa. Ogni nuova sperimentazione tende ad “incistarsi” e diventare un modello da riprodurre (pensa a cosa è successo alla glitch, dove si sono instaurate consuetudini laddove per eccellenza non dovevano essercene). I musicisti aderiscono alla nuova moda per sentirsi al passo coi tempi: si ha il terrore che il proprio lavoro suoni vecchio, in un mondo in cui tutto si evolve estremamente in fretta. Inoltre gli strumenti tecnologici a disposizione sono per lo più sempre gli stessi e tendono ad essere usati in modo da creare sonorità corrispondenti al genere musicale che si prende a riferimento. Il vero problema è che vorremmo tutti inventarci qualcosa di nuovo, ma non siamo nemmeno capaci di concepire qualcosa che sia al di fuori di un determinato genere.

continua domani

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