Empedocle70: Eugenio Becherucci: Chitarrista? Musicista? Compositore? Come è nato il suo amore e interesse per la chitarra?
Eugenio Becherucci: La mia vocazione principale è senz’altro quella di chitarrista. Nella mia famiglia di provenienza, italo-spagnola, è uno strumento molto amato, e sono stato indotto al suo studio da mio fratello Antonio, ma anche incoraggiato da tutti gli altri. In verità le mie prime esperienze musicali risalgono a quando ho cominciato a cantare in un coro polifonico di voci bianche in parrocchia, mentre in casa mi divertivo a scimmiottare i grandi su chitarre giocattolo. Mi ricordo molto chiaramente i primi esperimenti di registrazioni su rudimentali apparecchi Geloso a nastro, in cui cantavo e suonavo con i miei fratelli improbabili blues metropolitani…poi sono arrivati i primi gruppi ( o come si diceva allora: complessi), in cui ci si faceva le ossa con chitarra elettrica, acustica e classica su un repertorio vario tra il pop e il rock, non disdegnando qualche brano originale. Questo fino ai 14 anni, quando fui fulminato dall’ascolto della “vera” chitarra classica (un disco del Concierto de Aranjuez di Joaquin Rodrigo suonato da NarcisoYepes: ascoltando in famiglia l’Adagio, l’attacco dell’orchestra dopo la lunga cadenza commuoveva mia madre fino alle lacrime) e decisi che sarebbe stato il mio strumento. All’epoca frequentavo parallelamente un corso di chitarra classica e un corso di violino, ma ero talmente entusiasta delle sei corde che non esitai a scegliere…Fin da questi primi approcci è stata presente in me una forte esigenza creativa, per cui posso dire di essere nato chitarrista-compositore: conservo ancora tutti i miei quaderni di musica di quei tempi, in cui si aveva la buona abitudine di scrivere a mano gli esercizi e i brani da studiare, e sono costellati di appunti e abbozzi di piccoli pezzi che provavo a comporre. Di questi tempi, siamo all’inizio degli anni ’70, ricordo la curiosità onnivora che mi spingeva all’esplorazione del repertorio, tanto che in due anni avevo già letto una buona parte della letteratura per chitarra allora conosciuta, e che fuori dallo strumento mi spingeva all’ascolto di musica a 360 gradi, ma con una forte predilezione già allora verso il moderno e contemporaneo, ma con uno sguardo speciale anche all’antico…ricordo ascolti pieni di stupore delle Cantigas de Sancta Maria o delle messe di Guillaume de Machaut, insieme al Gesang der Jünglinge di Karlheinz Stockhausen o alla Musica per archi, percussione e celesta di Bartók Béla.
E: Come compositore quali sono le correnti stilistiche nella quale lei si riconosce maggiormente?
E.B.: E’ sempre difficile oggi, con la grande varietà di atteggiamenti stilistici e linguaggi presenti nel panorama musicale riuscire a inquadrarsi in una scuola o in una corrente. Dopo gli studi di composizione in conservatorio con Mauro Bortolotti (un allievo di Goffredo Petrassi), la mia esperienza di autore è stato improntata alla più grande libertà dagli schemi accademici, anche se con la consapevolezza che un percorso di conoscenza era appena iniziato. Era un periodo di transizione, alla fine degli anni ’70, in cui si stava passando dal radicalismo avanguardista di Darmstadt a posizioni meno rigide. Il mio esempio era Petrassi, che oggi si può considerare quasi un classico, ma che nel suo arco creativo aveva dimostrato che un linguaggio moderno, per essere vivo e attuale, deve possedere la forza di rinnovarsi ed evolvere, e non può e non deve essere solo autoreferenziale, né essere asservito a idee e regole che non hanno nulla di artistico.
Per tornare alla domanda potrei dire di essere un compositore eclettico, con uno sguardo speciale al minimalismo, corrente musicale che mi ha sempre affascinato.
E.: Quale approccio segue per comporre? Usa il computer o preferisce un approccio più “tradizionale”? Scrive su pentagramma o ricorre a altre sistemi come diagrammi, disegni etc.?
E.B.: Non ho uno schema rigido di lavoro nella composizione, nel senso che il sistema può variare a seconda delle circostanze. Non mi metto mai immediatamente al computer se sto lavorando con la scrittura, preferisco semmai prendere degli appunti (spesso spunti, frammenti di idee melodiche, ma anche descrizioni di climi sonori) da cui poi svilupperò il pezzo. Altra cosa è un approccio più “materico” che può significare lavorare alla modifica di suoni mediante macchine, o studio di fasce sonore prodotte acusticamente: in tal caso il lavoro può prescindere dalla scrittura. In genere quello che mi intriga è creare diversi piani espressivi, anche nello stesso brano, dove convivano linguaggi diversi, dall'improvvisazione atonale o rumoristica al tonalismo o modalismo, all’elaborazione elettronica.. Un esempio di questo procedere è il Concerto per Garcia Lorca del 2002, per chitarra, archi e traccia audio: http://www.4shared.com/file/72672533/b63fad51/concerto_per_Garcia_Lorca.html Anche il brano Contrasto, del 2003, per due chitarristi che suonano e cantano, ha un clima di questo tipo: http://it.youtube.com/watch?v=ylNSl37K4PE
In Invisibile cities per ensemble, del 2006, ho cercato di rendere pagine sospese in una dimensione atemporale, ad un tempo antica e attuale, ispirandomi allo scritto di Italo Calvino, che sembra quasi abbia intuito che insieme alle sue parole potessero scaturire anche dei suoni con simili qualità archetipiche.
In molti miei lavori la ricerca è stata quella di dare una veste musicale ad una suggestione letteraria, nel caso del Concerto la poesia di Garcia Lorca, in Contrasto una Lauda di Jacopone da Todi, in Invisible cities il testo di Calvino, nel Notturno indiano la poesia di Tagore. Di quest'ultimo brano esiste, oltre a quella per sola chitarra, anche una versione per soprano e ensemble.
Nel comporre cerco di lavorare sui tre distinti piani percettivi dell’uomo, l’istintivo, il sentimentale e il razionale, in modo che ogni persona che ascolta, indipendentemente dalla sua età, educazione, preparazione, possa trovare degli elementi di interesse, anche se questo non vuol dire che la mia musica sia costruita coi criteri o gli stereotipi di un prodotto commerciale, in quanto essa è del tutto fuori da questa logica. Questo metodo di lavoro cerco di applicarlo a tutte le attività musicali che svolgo, ad esempio l’insegnamento o l’interpretazione.
E.: Berlioz disse che comporre per chitarra classica era difficile perché per farlo bisognava essere innanzitutto chitarristi, questa frase è stata spesso usata come una giustificazione per l’esiguità del repertorio di chitarra classica rispetto ad altri strumenti come il pianoforte e il violino. Allo stesso tempo è stata sempre più “messa in crisi” dal crescente interesse che la chitarra (vuoi classica, acustica, elettrica, midi) riscuote nella musica contemporanea. Lei come compositore e chitarrista ritiene quanto ritiene che ci sia di veritiero ancora nella frase di Berlioz?
E.B.: La figura del compositore nel XIX° secolo era molto diversa dall’attuale, esistevano un buon numero di chitarristi compositori al di fuori della cui cerchia difficilmente ci si provava a mettere mano a brani per il nostro strumento. Infatti lo stesso Berlioz, che pure la suonava, compose solo qualche romanza con accompagnamento di chitarra… in quel periodo i grandi autori erano proiettati verso la dimensione sinfonica, le grandi sonorità orchestrali cui il nostro strumento risulta decisamente estraneo. Negli anni ’80 ho avuto modo di approfondire questo particolare argomento confrontandomi con una letteratura del tutto particolare, qual’ è quella per chitarra e pianoforte, suonando spesso in duo con mio fratello Cristiano. Se escludiamo pagine di autori come Carl Maria von Weber, Jan Krtitel Vanhal, e pochi altri, appartenenti al genere chiamato Hausmusik, musica da suonare in casa, questo tipo di composizioni era nell’800 esclusivo appannaggio di chitarristi come Ferdinando Carulli, Mauro Giuliani, Anton Diabelli e altre figure minori. Se andiamo poi a vedere il trattamento della chitarra esso risulta assai convenzionale e poco interessante in brani prodotti da non chitarristi, ed è curioso constatare come le parti chitarristiche di brani ad alto impegno concertistico come quelli di Johann Nepomuk Hummel e Ignaz Moscheles fossero dichiaratamente scritte da Mauro Giuliani, che era all’epoca residente a Vienna e collaborava con quei pianisti.
Se guardiamo al repertorio classico non c’è dubbio che il gap nei confronti degli altri strumenti sia pressoché incolmabile, perché, nonostante nell’immenso repertorio ottocentesco per chitarra si trovino anche esempi di buona musica, strumenti come il violino o il pianoforte straboccano di grandissima musica. Inoltre era diversa la conoscenza e lo sviluppo della tecnica strumentale della chitarra, che nel XX° secolo e poi nell’attuale ha avuto un’importante progresso. Dalla fine dell’800 a oggi sono cambiati i linguaggi e si è posto sempre di più l’accento sul timbro, sulle sonorità rarefatte, la musica occidentale ha iniziato ad esplorare mondi esotici, le culture popolari, di modo che la chitarra, in questa nuova ottica, ha avuto maggiori possibilità di essere valorizzata. Inoltre c’è da dire che i modelli di scrittura chitarristica dell’800 non sono più gli unici utilizzati oggi dai compositori: certo c’è anche oggi, come nel passato, un nutrito numero di chitarristi compositori (tra i quali mi annovero), ma la tecnica e le potenzialità dello strumento sono molto più conosciute anche tra i compositori non chitarristi. Se a questo aggiungiamo le infinite possibilità di combinazioni timbriche e di sonorità che oggi offre l’elettronica applicata a uno strumento come la chitarra elettrica, le applicazioni si ampliano enormemente.
E.: Parliamo di marketing. Quanto pensa che sia importante per un compositore moderno? Intendo dire: quanto è determinante essere dei buoni promotori di se stessi e del proprio lavoro nel mondo della musica di oggi?
E.B.: Qui tocchiamo un tasto dolente, nel senso che è verissimo che oggi il compositore rischia di vivere in splendido isolamento se non trova il modo di inserirsi in un canale che porti a conoscere la sua musica e quindi ad eseguirla. C’è il mondo dei concorsi di composizione che può essere una buona vetrina, inoltre l’essere pubblicati da una edizione e/o una casa discografica che curi la diffusione delle proprie opere è anche fondamentale. Non so se sia buona cosa che il compositore (come anche l’interprete) diventi agente di se stesso, ma oggi sembra che la tendenza generale sia questa, considerando che un mezzo pubblicitario potente come internet è praticamente alla portata di tutti.
Sono certamente da apprezzare le possibilità che la tecnologia mette a disposizione di noi musicisti nel campo della comunicazione, soprattutto se si riflette sul fatto che essa ha facilitato enormemente la diffusione della promozione dell’artista. C’è però il rovescio della medaglia, che è poi l’altra faccia, quella cattiva, della globalizzazione: questo mare magnum di messaggi, video, clip audio, email, rischia di sommergerti e affogarti in un isolamento ancora più doloroso se non hai dietro una struttura più solida.
Per quanto mi riguarda, ho avuto la fortuna di essere affiancato da un gruppo di ottimi musicisti, il Logos Ensemble, con i quali ho avuto la possibilità di realizzare ed eseguire i miei progetti compositivi nel corso degli ultimi 20 anni.
E.: Ho notato in questi ultimi anni un progressivo avvicinamento tra due aspetti della musica d’avanguardia, da un lato l’aspetto più accademico e dall’altro quello portato avanti da musicisti ben lontani dai canoni classici e provenienti da aree come il jazz, l’elettronica e il rock estremo come Fred Frith, John Zorn, la scena downtown newyorkese e alcune etichette di musiche eletroniche come la Sub Rosa e la Mille Plateux. Lei ha suonato con Otomo Yoshihide, uno dei migliori rappresentanti dell’avanguardia e dell’improvvisazione non accademica. Che ne pensa di queste possibile interazioni e pensa che vi sia spazio anche per esse in Italia? Come è nata l’esperienza di suonare con Yoshihide?
E.B.: Naturalmente penso tutto il bene possibile di queste collaborazioni e auspico che ne possano nascere di nuove anche in Italia. Il problema è solo trovare la disponibilità di questi artisti, in genere tutti con una agenda piuttosto intensa. L’esperienza con Otomo Yoshihide è stata esaltante, perché è maturata dopo un lungo periodo in cui con il Logos Ensemble lavoravamo regolarmente in sedute di improvvisazione radicale, quindi come gruppo eravamo pronti a confrontarci con questo mostro sacro. Il Logos è un gruppo ormai storico nel panorama della musica contemporanea, e in una prima fase della sua attività ha lavorato molto nel campo dell’avanguardia accademica. Col passare degli anni, spinta soprattutto da mio fratello Cristiano, pianista e tastierista, (con il quale ho un sodalizio artistico risalente all’infanzia) si è fatta forte l’esigenza all’interno del gruppo di percorrere strade più originali e staccate dai canoni classici: sono nati così gli spettacoli “Zapping”, dedicati alla musica di Frank Zappa ed al suo mondo sonoro, Suoni Medioccidentali, Ipervlx, le collaborazioni con artisti come Otomo, Elliot Sharp, e ultimamente Desert contemporain, con il cantante e polistrumentista berbero Nour Eddine. Lo spettacolo con Otomo Yoshihide consisteva in un’improvvisazione di un’ora e mezza durante la quale ognuno di noi ha avuto il privilegio di dialogare con questo straordinario musicista. Solo nel primo brano del concerto, della durata di circa 10 minuti, era stata concordata una piccola struttura grafica relativa all’intensità e alla frequenza degli interventi strumentali: questo tempo è servito per ascoltarci, sentire i timbri e l’attacco di tutti gli strumenti e capire come interagire, per il resto della performance siamo andati avanti come se avessimo suonato insieme da sempre. Qui si può ascoltare un estratto da questo concerto: http://www.4shared.com/file/72334987/db9a2148/01_otomo_logos_.html
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