Un caleidoscopio di suoni che viene assorbito nell' ondata d'entusiasmo per l'estetica del glitch, della frammentazione sonora, dei rumori digitali, a cui lo stesso Fennesz si accosta in questo momento anche con il progetto Fenn O'Berg, con Pita e Jim O'Rourke, un trio di laptop impegnato a dissestare la materia sonora scardinandone ogni punto saldo. In ognuna di queste tappe verso la segmentazione assoluta del suono, Fennesz conserva però sempre un gusto tutto personale per certe inflessioni meno concitate, per certe melodie quasi nascoste nella frana di detriti digitali ma sempre presenti seppur in trasparenza e per istanti inafferrabili.
Il singolo "Plays", 7" pubblicato dalla Mego e ristampato dalla Moikai di Jim O'Rourke nel 1995, cioè in tempi non sospetti, contiene invece riletture quasi irriconoscibili, due reinterpretazioni che procedono per impressioni e suggestioni più che per similitudini formali di due classici di Beach Boys e Rolling Stones. E' l'omaggio di Fennesz ad alcuni miti dell'adolescenza, in particolare al suono della West Coast, che prima prorompe in un mantra dronico galleggiante in un mare tropicale ed atarassico per Don't Talk (Put l'Our Head on my Shoulder) e poi viene declinato in una sorta di piccolo saggio di composita astrazione granulare per Paint It Black. I due brani appaiono come frammenti adirezionali di enigmatica bellezza, in cui Fennesz riprende le atmosfere e alcune tonalità degli originali ma senza utilizzarne campionamenti: la sua è una trascrizione personale delle due canzoni, polverizzate in coriandoli di suoni soffusi. Al momento della sua uscita "Plays" sembra il geroglifico di una lingua dimenticata, eppure riesce a toccare le corde giuste in chi ascolta, insinuando il dubbio che qualcosa esista al di là dello schermo luccicante delle produzioni digitali che vanno per la maggiore e dando un colpo mortale alla dilagante moda del citazionismo campionato che si stava diffondendo come un morboso virus a ogni livello, dal pop all’avanguardia. E' un' avvisaglia di un fermento creativo al momento senza esito ma che continuerà il suo lento lavorio fino a sfociare tre anni dopo in "Endless Summer.
Numerose le collaborazioni che prendono forma in questa breve lasso di tempo: le pregevoli improvvisazioni elettroacustiche nell'omonimo lavoro realizzato con Werner Dafeldecker e Christof Kurzmann, arricchito dai preziosi interventi di Jim O'Rourke, Kevin Drumm e Martin Siewert (Charhizma, 1999) e "The Magic Sound Of Fenn O'Berg" (Mego, 1999], realizzato a sei mani con O'Rourke e Rehberg, opera ermetica e astratta, spiazzante per la varietà delle soluzioni adoperate sia in chiave timbrica che di scelta dei suoni. Ne scaturisce un album ridondante e un po' appesantito dall'atmosfera magniloquente che grava sull'intero impianto strutturale, tesa a sorprendere continuamente l'uditore con nuovi e improvvisi esiti.
Il singolo "Plays", 7" pubblicato dalla Mego e ristampato dalla Moikai di Jim O'Rourke nel 1995, cioè in tempi non sospetti, contiene invece riletture quasi irriconoscibili, due reinterpretazioni che procedono per impressioni e suggestioni più che per similitudini formali di due classici di Beach Boys e Rolling Stones. E' l'omaggio di Fennesz ad alcuni miti dell'adolescenza, in particolare al suono della West Coast, che prima prorompe in un mantra dronico galleggiante in un mare tropicale ed atarassico per Don't Talk (Put l'Our Head on my Shoulder) e poi viene declinato in una sorta di piccolo saggio di composita astrazione granulare per Paint It Black. I due brani appaiono come frammenti adirezionali di enigmatica bellezza, in cui Fennesz riprende le atmosfere e alcune tonalità degli originali ma senza utilizzarne campionamenti: la sua è una trascrizione personale delle due canzoni, polverizzate in coriandoli di suoni soffusi. Al momento della sua uscita "Plays" sembra il geroglifico di una lingua dimenticata, eppure riesce a toccare le corde giuste in chi ascolta, insinuando il dubbio che qualcosa esista al di là dello schermo luccicante delle produzioni digitali che vanno per la maggiore e dando un colpo mortale alla dilagante moda del citazionismo campionato che si stava diffondendo come un morboso virus a ogni livello, dal pop all’avanguardia. E' un' avvisaglia di un fermento creativo al momento senza esito ma che continuerà il suo lento lavorio fino a sfociare tre anni dopo in "Endless Summer.
Numerose le collaborazioni che prendono forma in questa breve lasso di tempo: le pregevoli improvvisazioni elettroacustiche nell'omonimo lavoro realizzato con Werner Dafeldecker e Christof Kurzmann, arricchito dai preziosi interventi di Jim O'Rourke, Kevin Drumm e Martin Siewert (Charhizma, 1999) e "The Magic Sound Of Fenn O'Berg" (Mego, 1999], realizzato a sei mani con O'Rourke e Rehberg, opera ermetica e astratta, spiazzante per la varietà delle soluzioni adoperate sia in chiave timbrica che di scelta dei suoni. Ne scaturisce un album ridondante e un po' appesantito dall'atmosfera magniloquente che grava sull'intero impianto strutturale, tesa a sorprendere continuamente l'uditore con nuovi e improvvisi esiti.
Se gia "Plays" aveva testimoniato per certi versi l'avvicinamento di Fennesz alla popular culture è con "Endless Summer" (Mego, 2001), che l'autore mette un piede fuori dai territori d'avanguardia per riscuotere le attenzioni di una fascia di pubblico più ampia: l'universo avant-rock viene colto alla sprovvista dalla pubblicazione di un lavoro che scuote alla base le fondamenta di un genere ormai agonizzante, per conferirgli improvvisamente linfa e colore ed estenderne inaspettatamente i confini. Un disco destinato a fare epoca. Il riferimento è chiaramente ai Beach Boys e al film omonimo del 1966 di Bruce Brown in cui un gruppo di surfer insegue letteralmente l' estate attraverso le spiagge del mondo, in un meriggio estivo senza fine: come la California di Brian Wilson, le ambientazioni disegnate dal musicista austriaco diventano un vero e proprio state della mente, in un complesso circuito di rimandi (vengono alla mente My Bloody Valentine e Jesus & Mary Chain), in un processo di rimediazione culturale che capovolge ogni prospettiva precedente. "Endless Summer" e un album noise-pop, che fa della collisione tra due prospettive, della sovrapposizione tra due visioni del suono apparentemente inconciliabili, della stratificazione di sensazioni, umori, immagini, rumori e melodie la propria ragione di esistenza. Le asprezze, gli intoppi, le rugosità precedenti vengono levigate da una mana calda e morbida, che carica il suono di una sensibilità nuova e visionaria.
continua domani
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