venerdì 24 settembre 2010

Christian Fennesz: la chitarra è “glitch”, quinta parte


Il resto e storia d'oggi. La partecipazione al recente ultimo disco di David Sylvian “Magnafon”, capolavoro di riduzionismo sonoro e di definizione dell’assenza come valore e come sfondo per un suono al confine assoluto tra “less is more” e ricordi isolazionistici e "Black Sea", il nuovo album uscito per la Touch a fine 2008, un deja-vu che restituisce alla sperimentazione sonora fennesziana corporeità e spessore fisico.
Black Sea si presenta come la più profonda testimonianza della sua emotività e della sua poetica: le levigate ricercatezze linguistiche contaminate dal glitch e dall'industrial "ambientale" degli anni '60 di "Endless Summer" (già smussate nell'altro gioiello "Venice") vengono qui azzerate del tutto permettendo agli istinti basilari di esprimersi nella maniera più spontanea possibile; il risultato non è nient'altro che una musica atmosferica, intensa e riverberata ormai lontana da quelle ultime eco di quotidianità irreale e fittizia in cui la tecnologia si imponeva come sua rappresentazione e allo stesso tempo come suo emblematico distacco. L'ultimo nato in casa Fennesz riesuma invece la sua più profonda intimità, donando all'ascoltatore un prodotto fragile e intenso che avvolge senza risparmiare fasi di assoluto straniamento (i meravigliosi arrangiamenti della titletrack che apre il disco) in cui ipnoticamente si compiono splendide elevazioni atmosferiche ora più distese e malinconiche (Glide) ora più psichedeliche (The Colour Of Three) e oniriche (Saffron Revolution e Glass Ceiling). Ma anche per quanto riguarda la creazione e la gestione del materiale sonoro Black Sea sorprende sin dall'inizio risultando raffinato ed estremamente elegante ad ogni suo movimento, aspetto che vede la sua massima realizzazione nella già citata opener e soprattutto nella magia ambientale di Perfume For Winter e della più soave Vacuum.




Ma laddove il disco sembra perdersi semplicemente in anelati luoghi di perdizione (che alla lunga possono comunque risultare ripetitivi), Fennesz tira fuori dal suo infinito calderone di suoni e idee la meravigliosa Grey Scale che poeticamente riflette tutto quel mondo di emozioni perdute e di ricordi lontani che sembravano ormai definitivamente seppelliti; una perla dal forte sapore nostalgico in cui la malinconia fa da padrona ma timidamente, come se trattenuta da un istinto maggiore, permeando in ogni caso l'intera atmosfera del brano e ponendosi come unico e vero emblema dell'album.
Complessa e raffinata, ma niente affatto inaccessibile, la musica e le idee di Fennesz rappresentano un ponte ideale per avvicinare nuovi proseliti alle infinite esplorazioni della musica contemporanea e dell’avanguardia, un invito irresistibile ad ampliare ulteriormente gli orizzonti, sancendo al contempo un significativo sviluppo tanto in termini di fisionomia sonora che di modalità compositive.
Fennesz ha smussato l'ambient e l'elettronica dei loro più logorati stilemi arricchendone la soave atmosfera di fondo attraverso frammenti di pura musique concrete, ha trasformato radicalmente uno strumento classico (per il rock s'intende) come la chitarra abbattendo qualsiasi limite o costrizione stilistico-concettuale esistente.
Scavalcato così il passato tanto quanto la modernità, Fennesz si è ritrovato davanti un universo interminabile, desolato e silenzioso e, come uno scrittore che riflette d'innanzi ad un foglio bianco ha riversato i suoi pensieri con fiumi d'inchiostro, assorbendo e gestendo quello spazio, per poi crearne una rielaborazione estremamente personale, intima e soffusa.


Empedocle70

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