giovedì 3 novembre 2011

Recensione di Aria Meccanica di Sergio Altamura


Sembra che abbiamo trovato un compagno di giochi ideale per Paolo Angeli.
“Aria Meccanica” inizia con una annuncio, di quelli che siamo soliti ascoltare distrattamente negli aeroporti e nelle stazioni, e che invece che indicare l’arrivo o la partenza di un convoglio o di un aereo parla di “alberi parlanti” e strane “libellule”. Poi parte la chitarra acustica, bella, tranquilla, dal riverbero caldo e ampio e non capisci il nesso tra la sua ballata e l’introduzione modello “The Florida Airport Tape” di prima, ma le cose si chiariscono andando avanti. Questo è un disco di meditata sperimentazione, progressivamente la chitarra acustica di Altamura si modifica, si trasforma, si mescola con loop elettronici, voci, percussioni, rumori di eliche, archetti passati sulle corde di metallo e drones risonanti.
Forse prima di tutto “Aria Meccanica” è un concept album, idea alla base di tanti successi di dischi rock e prog pubblicati negli anni ’70, il disco come un viaggio, la musica come narrazione. In “Aria Meccanica” spesso non c’è linea di confine tra i brani che semplicemente subiscono una metamorfosi per diventare qualcos’altro, un riassemblaggio di geni, di DNA musicale che porta a una nuova canzone. Un meccanismo che fa vibrare le molecole dell’aria che opportunamente “solleticate” massaggiano la membrana del timpano del nostro orecchio portandoci nuova musica.
Se non ricordo male Derek Bailey scriveva nel suo saggio sull’improvvisazione che i musicisti si dividono in due categorie: quelli che suonano con e quelli che suonano contro lo strumento.
I primi diventano dei virtuosi e dei grandi esecutori, i secondi cercano costantemente nuovi modi di suonare il loro strumento, a costo di maltrattarlo e di violentarlo cercano nuove soluzioni, nuove tecniche o più semplicemente nuovi suoni. Sergio Altamura molto probabilmente appartiene a questa seconda categoria e “Aria Meccanica” è semplicemente un esempio della sua visione poetica.

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