martedì 9 giugno 2009

Luciano Berio saggista parte seconda di Empedocle70



Alcuni punti alcuni motivi cardine appaiono, scompaiono, riemergono nelle 280 pagine dei due libri, nello scarto inevitabile fra parlato e scritto e nelle tante possibili formulazioni di un pensiero che tuttavia resta identico nella sostanza, quasi fosse una sinfonia, in cui i temi rinforzati da quanto detto in precedenza progressivamente vengono gradualmente messi a fuoco nelle tante implicazioni di ciascuno. Si può dire che Berio è un artista capace di amministrare se stesso con acume. Se fosse un calciatore, potremmo dire di lui che possiede in misura rilevante il senso della posizione in campo e quello tattico della partita, dai suoi scritti emerge l' impressione di un grande controllo, d' una cordialità che non nasconde mai del tutto le distanze, di una buona educazione che salva le forme senza mai superare un fondo di ritrosia, e allontana così la possibilità di possibili incursioni al di là del puro ambito professionale.
Scrivo questo perché sembra quasi di sentirlo parlare, con quel tono tra il pacato e l' ironico che hanno alcuni bravi insegnanti quando invece di cercare di spiegarti tutto in modo pedante scelgono di ricorrere alle vie della logica per cercare di tirar fuori dagli allievi quei concetti che altri invece cercano di cacciare a forza nelle loro teste. E’ una rete di affinità e rimandi quella che crea Berio ossia "una costruttiva revisione o, addirittura, (…) una sospensione del nostro rapporto col passato e (…) una sua riscoperta sulle tracce dei percorsi futuri": una "selva oscura" a rovescio, che ci invita periodicamente "al sacrificio dei cammini volutamente smarriti e ritrovati". Perché se è vero che ogni testo (anzi, Testo) è un unicum, dato oggettivamente una volta per tutte, è però altrettanto vero che "un testo implica una pluralità di testi", assimilati dall'autore in modo più o meno consapevole. Ecco quindi il problema appassionante e irrisolvibile della citazione, dei suoi poteri allusivi, dei suoi limiti e di tutti i casi in cui siamo forse noi a sospettarla, al di là delle intenzioni dell'autore: o almeno di quelle consapevoli.
Il richiamo a Babele, lasciato scivolare fin dalle prime parole, non può che evocare un confronto continuo con i vari aspetti della "traduzione" in musica, suggerendo anzi che la musica sia intrinsecamente "traduzione", forse più di ogni altra forma espressiva. Fatta per essere ascoltata, si configura tuttavia come testo scritto: molta parte della sua evoluzione è determinata dalla codificazione cartacea, ma il rapporto fra la pratica musicale, anche nel senso empirico di tecnica dei singoli strumenti, e la partitura "astratta" varia secondo epoche e artisti: e comunque risulterà sempre impossibile separare il "musicista sistematico" dal "musicista empirico", il che detto da Berio ha un certo peso, tanto più provenendo da un secolo che spesso ha preteso una sdegnosa separatezza tra il "creatore" e il "bricoleur", senza tener conto della dialettica inesauribile fra idea e realizzazione.
, nelle sue molte forme tra cui quella teatrale.
Non a caso tra gli autori italiani spesso e volentieri citati figurano due scrittori le cui vicende s' intrecciano a quelle di Berio. Sono Umberto Eco, molto amico del musicista, con cui negli anni ' 50 lavorò nel leggendario Laboratorio di Fonologia della Rai di Milano, e Italo Calvino, che scrisse per Harvard le Sei proposte per il prossimo millennio, e che oltre al libretto dell' opera La vera storia (1978), firmò parte dei testi di un altro lavoro teatrale di Berio, Un re in ascolto (1983), da cui giunge il titolo delle Lectures americane del compositore: Un ricordo al futuro sono le ultime parole cantate da Prospero quando, nel finale, prende congedo dalla vita.


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