giovedì 16 dicembre 2010

Intervista con Luigi Attademo, terza parte


Ho, a volte, la sensazione che nella nostra epoca la storia della musica scorra senza un particolare interesse per il suo decorso cronologico, nella nostra discoteca-biblioteca musicale il prima e il dopo, il passato e il futuro diventano elementi intercambiabili, questo non può comportare il rischio per un interprete e per un compositore di una visione uniforme? Di una “globalizzazione” musicale?

Io sinceramente non penso. O meglio, penso che ci sia una tendenza ad appiattire, una tendenza della cultura contemporanea che forse è legata anche alla trasparenza di un'epoca con l'altra. In questo momento storico tutto è possibile, anche a livello di linguaggio artistico, e questo può generare smarrimento e indifferenza. Vorrei citare qui un passo delle sacre scritture, quello in cui nell'Apocalisse di Giovanni si condanna la chiesa di Laodicea per non essere né calda né fredda. Questa medietà è forse uno dei mali dell'uomo e dell'artista in questo momento.

Più che una domanda .. questa è in realtà una riflessione: Luigi Nono ha dichiarato “Altri pensieri, altri rumori, altre sonorità, altre idee. Quando si ascolta, si cerca spesso di ritrovare se stesso negli altri. Ritrovare i propri meccanismi, sistema, razionalismo, nell’altro. E questo è una violenza del tutto conservatrice.” … ora .. la sperimentazione libera dal peso di dover ricordare?

Fermo restando che andrebbe contestualizzata la frase di Nono, non mi trovo molto d'accordo con lui. Questa esigenza di rottura, e in particolare la necessità di eliminare la tradizione, la memoria della tradizione, rappresenta a mio avviso uno dei maggiori danni che la musica d'avanguardia e la sua estetica ha determinato sull'idea del far musica. Penso e credo che non ci si possa emancipare dal passato e dalla tradizione, dalla propria storicità: anzi, con Gadamer, direi che è solo a partire da questa storicità che possiamo essere a pieno interpreti. Non è un caso che in certa musica d'avanguardia la figura dell'interprete sia stata ridotta a quella di puro esecutore. Le sperimentazioni più valide artisticamente partono sempre da persone che hanno ben presente il significato della loro storia.

Qual è il ruolo dell’Errore nella sua visione musicale? Dove per errore intendo un procedimento erroneo, un’irregolarità nel normale funzionamento di un meccanismo, una discontinuità su una superficie altrimenti uniforme che può portare a nuovi sviluppi e inattese sorprese...

Apprezzo l’uso della lettera maiuscola. Effettivamente l’Errore ha una portata molto più ampia di uno sbaglio. Spesso ci preoccupiamo di non sbagliare, che una buona interpretazione sia frutto di assenza di errori. Certamente questa domanda apre la porta a un discorso difficile, quello della verità – pensiamo l’errore infatti sempre in relazione a qualcosa che riteniamo giusta o ben fatta, in qualche modo dando per scontato che una lettura possa essere esaustiva. Molto più facile limitarsi all’oggettività della nota giusta o sbagliata – ma questo solo se ci si riferisce all’altezza della nota – ma la nota non è solo un’altezza, essendo all’interno di un discorso musicale vive in relazione dinamica con le altre note e ha un’intenzione, esattamente come una parola nel discorso. Quindi oltre all’aspetto quantitativo dello sbaglio, c’è un discorso qualitativo, rispetto al senso che ha quella nota: e allora scopriamo che l’aspetto oggettivo viene meno. Ma la domanda mi sembra non andasse in questa direzione, bensì a sottolineare la possibilità che le cose siano e accadano diversamente da come sono progettate. Un errore interpretativo è sempre qualcosa che mostra la nostra fallibilità, ma sicuramente offre una possibilità di crescita. Talvolta, come accade nella scienza, l’errore è un’occasione. La differenza sta nella capacità di includere l’errore nel processo creativo e in qualche modo essere consapevoli di quanto l’errore possa cambiare la geografia della nostra conoscenza e della nostra sensibilità.

Parliamo di marketing. Quanto pensa che sia importante per un musicista moderno? Intendo dire: quanto è determinante essere dei buoni promotori di se stessi e del proprio lavoro nel mondo della musica di oggi?

Provengo da un contesto formativo in cui questo discorso era assente: anzi, se c’era, era per mostrare certi aspetti negativi che distolgono dal fare musicale. Sicuramente il mondo di oggi ha necessità di musicisti capaci di studiare, come dicevo, di scrivere e anche di promuoversi. Io sono abbastanza poco portato, immagino per carattere e per formazione, a coltivare questa attitudine, ed è certamente un limite. Purtroppo viviamo in un contesto dove un chitarrista classico è per un’agenzia un artista poco interessante (e poco redditizio) da rappresentare. Dunque il fai-da-te è indispensabile. Voglio però precisare che questo non implica il tuffarsi nella giungla dello “scambismo”, dove esplicitamente non conta più cosa fai, ma cosa organizzi e cosa offri in cambio. Assistere dunque alla sostituzione del contenuto musicale con un “packaging” basato sull’immagine o peggio sulla creazione di una rete di scambi, è una deriva che il nostro contesto non ci sta risparmiando, e che dà un brutto segnale alle nuove generazioni, perché sembra sia impossibile suonare senza questa premessa.

continua domani

1 commento:

Leonardo De Marchi ha detto...

Bella intervista. Concordo in particolare sui pericoli dei messaggi lanciati dal cosiddetto scambismo.