I due musicisti
in questione sono, ovviamente, John Zorn e Sato Michihiro, virtuoso
di shamisen.
A questo punto
concediamoci una digressione per parlare di questo strumento
tradizionale giapponese. Con questo termine, forse enigmatico per
molti, si indica uno strumento giapponese a tre corde dal manico
molto allungato, con cassa di forma rotondeggiante spesso ricoperta
di pelle di serpente; simbolo della cultura musicale giapponese, esso
è in realtà nipponico solo per adozione, dal momento che si ritiene
sia originario dell'Asia Centrale, e comunque fu importato dalla Cina
(questo è storicamente provato) solo fra XV e XVI secolo. Largamente
impiegato nell'ambito del teatro "kabuki", l'apprendimento
della sua tecnica esecutiva costituiva materia di studio per le
aspiranti "geishe", che se ne servivano a scopo di
intrattenimento. La particolarità di questo strumento sta nel fatto
che in esso siano compresenti (direi anzi complementari) un'anima
"melodica" ed una più propriamente "percussiva":
si pùò suonare pizzicandone le corde come si farebbe con un
contrabbasso, ma anche facendo cozzare il plettro (che i Giapponesi
chiamano "bachi") contro la cassa di risonanza.
Lo shamisen _e
chiamato ufficialmente sangen [tre corde]. Tra gli strumenti musicali
della
musica tradizionale
giapponese, mentre il so è rappresentativo della famiglia della
cetra, lo
shamisen non solo è
rappresentativo della famiglia del liuto ma si può dire senza
esagerare che sia lo strumento musicale rappresentativo di tutta la
musica tradizionale nel suo complesso.
La teoria
generalmente accreditata a proposito dell'introduzione dello shamisen
è che il sangen cinese sia stato importato in Giappone alla fine del
periodo Muromachi passando per Okinawa. A Okinawa lo strumento era
costruito utilizzando pelle di serpente (e per questo motivo veniva
chiamato jabisen7) e veniva suonato toccando le corde con le dita.
Dopo che fu introdotto in Giappone vennero operate modifiche di
diverso tipo: si usò pelle di gatto o di cane al posto del serpente,
si cominciò a suonarlo usando un bachi [plettro] e furono anche
apportate alcune modifiche alla forma. Tra queste trasformazioni la
più notevole è data dal fatto che si cominciò a suonarlo con il
plettro; ciò fu causato dal fatto che, dopo l'importazione dello
shamisen, i primi a usare lo strumento furono biwa hoshi che lo
suonavano in modo simile al biwa .
Non appena lo shamisen fu
importato cominciò ad essere usato nel jiuta e nel joruri;
all'inizio dell'epoca Edo si cominciò poi a usarlo in vari campi
della musica tradizionale giapponese dell'epoca moderna. Di
conseguenza a seconda del campo in cui era impiegato lo strumento
venne a poco a poco ad assumere forme differenti che possono essere
in linea di massima divise in tre tipi: futozao [a manico spesso]
(usato nel gidayubushi e nel sekkyobushi), chuzao [a manico medio]
(usato nel jiuta, tokiwazubushi, tomimotobushi, kiyomotobushi,
shinnaibushi ecc.) e hosozao [a manico sottile] (usato nel nagauta,
sokyoku di scuola Yamada, hauta, kouta, katobushi ecc.); in seguito
nacquero ulteriori differenziazioni anche all'interno dei chuzao e
degli hosozao.
Lo shamisen è senza
dubbio uno strumento a corda, ma in generi musicali come il nagauta
lo si suona facendo battere il bachi sul bachigawa8 e nel gidayubushi
si colpisce con forza la pelle della cassa armonica con il bachi,
producendo effetti simili a quello di uno strumento a percussione.
Quanto di più
diverso e lontano dal sax di Zorn.
E’ quindi
facile intuire come dietro alla semplice musica in questo disco
(dall’ascolto sicuramente complesso) ci sia una struttura e delle
relazioni più profonde, Zorn e Michihiro (come Mushashi e koijro)
rappresentano due punti di vista corrispondenti ad altrettante
visioni di una "materia" musicale profonda, unica e
universale.
Abbiamo già
visto come lo stesso Zorn ami sottolineare quanto le distinzioni fra
generi e relative categorie non siano altro che attributi accessori
di quella che è la "struttura superficiale" ("surface
structure") della musica, mentre tutte le musiche,
indipendentemente dalla loro collocazione stilistica e
storico-geografica, mantengono punti di reciproco contatto in quanto
a "struttura profonda" ("deep structure"): solo
il musicista capace di cogliere i nessi a livello di struttura
profonda è in grado di esprimere un discorso musicale coerentemente
"avanguardistico", nel senso più letterale del termine.
Osservare le forme musicali da una simile prospettiva significa
soprattutto saper abbracciare più esperienze dall'alto di un
invidiabile approccio "totalizzante", privo di confini o
limitazioni di sorta, lontano da un'impostazione rigorosamente (e
tradizionalmente) "puristica".
La scelta di
suonare con Sato Michihiro, tra i massimi interpreti contemporanei
dello "shamisen", è quindi perfettamente coerente con
questa visione, il fatto poi che lo stesso Michihiro stesse in quel
periodo sperimentando una nuova tecnica esecutiva in cui largo spazio
avevano stilemi ("patterns" in gergo tecnico) di matrice
Jazzistica, mutuati dalle tecniche improvvisative di certa cultura
musicale afro-americana non deve ulteriormente sorprendere. Ganjuro
Island non è stato suonato e registrato a caso e nessuna nota è
“piovuta dal cielo”: non è raro, nell'album in questione,
ascoltare lo "shamisen" impegnato a districarsi fra
passaggi armonici tipici del Blues e del Jazz modale, nel contesto di
un'improvvisazione profondamente "umorale" in cui ben poco
è preliminarmente pianificato. Spicca, all'ascolto, la varietà
timbrica di un John Zorn comunque interessato ad esplorare
soprattutto i registri acuti di sax e clarinetto, con particolare
predilezione per dissonanze e sonorità difficili, spigolose,
bizzarre, capaci di insinuarsi a mo' di sordo e prolungato lamento
tra i fraseggi di Michihiro. L'atmosfera generale è però lungi dal
risultare freddamente accademica, dal momento che ovunque si respira
la leggerezza, la velata auto-ironia di un duetto confidenziale, del
tutto informale; in questo approccio auto-ironico ed
anti-intellettualista si inseriscono i curiosi suoni-versi inseriti
qua e là da Zorn: miagolii, cinguettii, gorgheggi, esilaranti
mugugni di "zappiana" memoria. E particolare rilievo
merita, in questo singolare capitolo di dissacrante poetica della
creatività, il ruolo attribuito ai silenzi, alle pause, alle
sospensioni, ai "tempi morti" che sono parte costitutiva
della narrazione.
L'estetica del
disco è poi quanto di più giapponese ci si possa aspettare con la
cover tratta da un fotogramma e il retro che ospita un dipinto del
combattimento stesso: niente bondage, niente donne torturate.
continua domani
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