- Quando hai iniziato a suonare al chitarra e perché?
Ho
inziato a undici anni appena compiuti. I miei regalarono una
chitarra a mia sorella e io nel tempo ne divenni il possessore. Lei
la usava solo di rado, mentre io la osservavo tutto il giorno e la
prendevo in mano alla prima occasione. Così è incominciato tutto.
- Che studi hai fatto e qual è il tuo background musicale?
Il
mio percorso di formazione è stato breve quanto frammentario. Tanti
nodi irrisolti ho cercato di dipanarli in seguito da autodidatta (la
ricerca non è mai più finita). Ho iniziato con la chitarra
classica. Dopo anni di esperimenti, a sedici anni mi sono iscritto
in Conservatorio, ma nove mesi dopo ero già in conflitto con
l'insegnante (non faccio il nome, ma non voglio chiamarlo maestro),
quindi non iniziai il secondo anno, sebbene fossi stato confermato
con esito positivo. Dopo un paio d'anni ho provato un secondo
approccio con un professionista locale, Daniele Grasso, questa volta
però con l'elettrica e con il jazz (o meglio la fusion, che
impazzava all'epoca). Avevo già una discreta tecnica ma ero ancora
digiuno riguardo l'improvvisazione. Questo rapporto è stato più
proficuo e duraturo, ma dopo due anni sentivo di dover studiare in un
altro modo, così continuai da solo. Ho studiato privatamente armonia
e composizione con Albino Taggeo, un compositore di mentalità molto
aperta che mi ha fatto scoprire la ricchezza del pentagramma e della
scrittura. Spesso mi fermavo ad ascoltare tutte le lezioni successive
alla mia. La sera ascoltavamo contemporanea e free jazz. Ero curioso
e vorace e lui mi prese in simpatia. In tre anni abbiamo fatto di
tutto, dal contrappunto all'analisi, dalla fuga alla musica seriale.
Ho conseguito la licenza di teoria e solfeggio al S.Cecilia davanti
ad una commissione severissima, poi ho tentato di entrare al corso di
Composizione, ma qualcosa è andato storto. Nel frattempo mi ero
iscritto al Dams di Bologna, ma, a parte alcune memorabili lezioni di
Aldo Clementi, Roberto Leydi, Luciano Nanni e Giampiero Cane, sapevo
di non essere nella mia strada, quindi a 22 anni ho deciso
contestualmente e definitivamente di vivere di musica e di studiare
da solo.
- Con quali chitarre suoni e con quali hai suonato?
La
prima chitarra elettrica l'ho avuta già a diciotto anni: la classica
“colletta” dei compagni di classe. Era una B.C. Rich. Ancora oggi
mi chiedo come mai abbia scelto quella chitarra. La tenni solo un
anno. Attualmente ho cinque chitarre: quella che definisco "storica"
perché l'ho comprata 27 anni fa è una Ibanez GB 30 modificata con
pick-up attivi EMG e con materiale fono-assorbente all'interno della
cassa; poi una classica Sergio Piretti, una dodici corde Eko
Eldorado, storico modello del '77. Negli ultimi anni si sono aggiunte
due belle archtop, entrambe da 16": una D'Acquisto Jazz Line
con cassa 3/4 e una Eastman AR 805 con la cassa più profonda e con
un pick-up Zoller sospeso. Sono contento perché posso dire di avere
tutta la gamma sonora, dall'acustico all'elettrico.
- Come è nato il progetto di Camera Lirica?
Da
una commissione del Festival Angelica di Bologna per l'edizione del
2006; più esattamente da una chiacchierata con il direttore
artistico Massimo Simonini, col quale già collaborato diverse volte
negli anni precedenti. Si trattava di un concerto di mie composizioni
degli anni '90 adattate ad un ensemble di tredici elementi, sul
modello degli ensemble di musica contemporanea, ma con una leggera
prevalenza di sassofoni. Per l'occasione scrissi una nuova suite
("Baccanale") che sottotitolata “allegoria sonora in
cinque quadri”. All'epoca avevo organizzato un gruppo aperto di
circa venti musicisti chiamato “Libero Ostile”. Ci vedevamo ogni
domenica in uno spazio (Container Club) per studiare particolari
esercizi di improvvisazione collettiva. In quel periodo arrivò la
commissione e di conseguenza la scelta ricadde su un nucleo di questi
“amici della domenica”.
- Quali sono state e sono le tue principali influenze musicali?
Negli
anni '80 non ero molto attratto dalla musica in circolazione, così
più che altro ascoltavo il progressive degli anni '70, soprattutto i
Gentle Giant, i Genesis del primo periodo (fino al '76), ma anche i
Pink Floyd e gli Yes. Poi sono arrivato alla produzione della ECM
ascoltando Ralph Towner, John Abercrombie, Jack De Johnette ed altri.
Da lì il passo verso il Jazz è stato breve, ma confesso di essere
stato "catturato" (fortunatamente per due anni soltanto)
anche dal fenomeno della fusion. Dopo ho cominciato a scoprire anche
la musica classica, sinfonica soprattutto, attraverso un metodico
ascolto notturno di Radiotre.
- In che modo esprimi la tua “forma” musicale sia nell’ambito dell’esecuzione che nell’improvvisazione, sia che tu stia suonando “in solo” sia assieme altri musicisti?
Quando
suono da solo stabilisco un area tonale e due o tre temi sui quali
improvviso creando estemporaneamente una struttura nella quale il
primo tema può anche ritornare dopo il secondo o dopo il terzo e
così via. In generale cerco nell'improvvisazione la stessa
concentrazione e profondità data dalla parte scritta. La “forma”
che mi attrae di più è la composizione istantanea, all'interno
della quale ritengo fondamentale la metrica e la ricerca timbrica;
questo risulta più evidente e dinamico quando suono con altri
musicisti. Mascherare l'improvvisazione con la scrittura e viceversa
è forse la pratica meno facile in assoluto, ma quando il mix è
fluido si crea un'energia unica e insostituibile.
- Elabori una “forma” predefinita apportando aggiustamenti all’occorrenza o lasci che sia la “forma” stessa ad emergere a seconda delle situazioni, o sfrutti entrambi gli approcci creativi?
Nei
miei gruppi raramente stabilisco un programma ben preciso. Più
sovente scrivo la "griglia" del reperorio e stabilisco solo
il brano di apertura. Ogni brano ha un proprio incipit non
necessariamente appannaggio della chitarra. In questo modo quando si
suona un brano nessuno sa esattamente quale sarà il successivo,
quindi la concentrazione del gruppo aumenta creando una grande
tensione emotiva. La cosa alla quale tengo di più nei
live e mantenere un ritmo, inteso non tanto nella mera accezione
musicale, quanto nel senso narrativo della performance.
- Ascoltando il disco ho avuto netta la percezione di una connessione diretta con il pensiero musicale di Frank Zappa: si sente che le musiche sono state scritte, che c’è stato un arrangiamento e una rigorosa “orchestrazione” della musica, devo dire che alcune parti mi hanno ricordato lo Zappa di Grand Wazoo … ci ho azzeccato?
Mi
dispiace deluderti ma non ho dischi di Zappa, a parte il memorabile
"Yellow Shark". E' curioso come gli accostamenti ai modelli
presistenti a volte non coincidano con la volontà dell'autore, ma
siano in un certo senso già acquisiti ad un livello subliminale. Ho
conosciuto molto tardi la musica del grande Frank Zappa, e ovviamente
ho ascoltato tanto di lui, soprattutto su Internet, ma non al punto
da comprare anche solo la metà della sua opera omnia (per la quale
ci vorrebbe uno stipendio).
- Quale significato ha l’improvvisazione nella tua ricerca musicale? Si può tornare parlare di improvvisazione in un repertorio così codificato come quello classico o bisogna per forza uscirne e rivolgersi ad altri repertori, jazz, contemporanea, etc?
Ho
sempre visto l'improvvisazione come un meraviglioso sistema di
ricodificazione di qualcosa che già conosciamo, ma che possiamo
riformulare considerando il margine di imprevedibilità dato
dall'interpretazione in tempo reale. E' una sfida talmente
affascinante da essere divenuta imprescindibile nella mio percorso
musicale. Il suo significato è quindi molteplice e multiforme:
complementare è l'aggettivo che può riassumere il concetto.
Riguardo il repertorio della musica classica – non a caso definita
da qualcuno “musica esatta” - credo che il discorso sia
definitivamente caduto, fin da quando le cosiddette “cadenze” dei
concerti per strumento solista vennero fissate sul pentagramma. In
quell'ambiente il margine è dato dall'interpretazione e dalla scelta
del tempo musicale. E' una ricerca altrettanto interessante, ma esula
dal “nostro” concetto di improvvisazione.
Nella musica colta contemporanea ci sono diversi stilemi e
notazioni grafiche che richiamano l'improvvisazione, che comunque da
sempre è presente in quasi tutte le musiche.
- In che modo la tua metodologia musicale viene influenzata dalla comunità di persone (musicisti e non) con cui collabori? Modifichi il tuo approccio in relazione a quello che direttamente o indirettamente ricevi da loro?
Se
la mia metodologia fosse influenzata dagli altri non avrebbe più la
forza necessaria. Posso dire invece che la scelta dei musicisti è
già una prima composizione, quindi in un certo senso il carattere
della scrittura (ma non il metodo) spesso è influenzata dalle
caratteristiche di ognuno di essi. Questa è un'altra grande
differenza tra il jazz e la musica classica, nella quale, a meno che
una composizione non sia pensata per uno specifico solista,
l'approccio compositivo è avulso dalla specificità dell'esecutore.
- Se ascolti una diversa interpretazione di un brano da te già suonato e che vuoi eseguire tieni conto di questo ascolto o preferisci procedere in totale indipendenza?
Se
possibile non ne tengo conto. Se una bella e originale
interpretazione è stata già eseguita, non c'è motivo di rovinarla
con una riproposizione di maniera. Cerco sempre di seguire una via
personale, modificando alcuni dettagli che possano darmi la
sensazione (o l'illusione) di essere il padre leggitimo del brano in
questione.
- Una domanda un po’ provocatoria sulla musica in generale, non solo quella contemporanea o d’avanguardia. Frank Zappa nella sua autobiografia scrisse: “Se John Cage per esempio dicesse “Ora metterò un microfono a contatto sulla gola, poi berrò succo di carota e questa sarà la mia composizione”, ecco che i suoi gargarismi verrebbero qualificati come una SUA COMPOSIZIONE, perché ha applicato una cornice, dichiarandola come tale. “Prendere o lasciare, ora Voglio che questa sia musica.” È davvero valida questa affermazione per definire un genere musicale, basta dire questa è musica classica, questa è contemporanea ed è fatta? Ha ancora senso parlare di “genere musicale”?
Non
ha mai avuto un senso o una grande importanza, se non per fini di
mercato discografico o (peggio) per favorire specifici cortili
musicali che il più delle volte hanno danneggiato il genere stesso,
saturandolo e creando delle gabbie stilistiche spesso limitanti. In
generale è più una necessità del musicologo che non del musicista.
Molto banalmente io distinguo la musica buona da quella cattiva. Il
più delle volte quest'ultima è quella commerciale, ma non è
escluso il contrario.
- Luciano Berio ha scritto “la conservazione del passato ha un senso anche negativo, quanto diventa un modo di dimenticare la musica. L’ascoltatore ne ricava un’illusione di continuità che gli permette di selezionare quanto pare confermare quella stessa continuità e di censurare tutto quanto pare disturbarla”, che ruolo può assumere la ricerca storica e musicologica in questo contesto?
Preferisco
rilanciare con una più accomodante affermazione di Gustav Mahler:
“la tradizione è la salvaguardia del fuoco, non l'adorazione della
cenere”. Credo che cercare il nuovo abbia una fondamentale
importanza a patto di non rinnegare ciò che di buono c'è stato.
Filtrare il passato con nuove modalità è il trait-d'union
essenziale per arrivare ad un nuovo assoluto. Il processo creativo si
blocca quando si ripropone il passato senza alcun nuovo messaggio.
Nella musica pop questo accade già da anni e si gli effetti del
conseguente impoverimento sono molto evidenti. Spero fortemente che
nel jazz la “fiamma” dell'evoluzione duri a lungo.
- Ho a volte la sensazione che nella nostra epoca la storia della musica scorra senza un particolare interesse per il suo decorso cronologico. Nella nostra discoteca-biblioteca musicale il prima e il dopo, il passato e il futuro diventano elementi intercambiabili. C'è il rischio di una “globalizzazione” musicale?
E'
una domanda inquietante, che merita una adeguata risposta. La
sensazione che tu avverti credo sia la conseguenza più diretta della
nostra epoca. La fruizione musicale è totalmente cambiata. Se vado
su yotube posso passare in pochi secondi da Vivaldi ai Doors, da Van
Halen a Debussy, e così via all'infinito. Questo prima di Internet
era impossibile, almeno non con la stessa frenesia. Un altro dato è
che il disco sta agonizzando da tempo, mentre il vinile torna come
oggetto di culto, da mettere in salotto accanto ai liquori. I
teen-ager ascoltano tanta di quella roba da non capire più
esattamente cosa stanno ascoltando e spesso non si chiedono il
perché. Tutto ciò è allo stesso tempo spaventoso e fantastico.
Bisognerebbe sfruttare la parte del fantastico, ascoltare in modo
creativo e costruttivo. Quando sento qualcuno dire: “sai, da questa
chiavetta posso ascoltare 4.000 ore di musica” confesso che mi
scappa da ridere: penso: “io non ho ancora finito di ascoltare i
miei 100 dischi dopo anni!” In sostanza, credo che il disinteresse
per i decorsi storici sia dovuto principalmente all'ingordigia
dell'ascolto che, inevitabilmente, crea confusione e scarsa
attenzione. La “globalizzazione” musicale esiste già da almeno
trent'anni, Internet ne è l'emblema. Mantenere la propria onestà
intellettuale aiuta a conviverci.
- Ci consigli cinque dischi per te indispensabili, da avere sempre con se.. i classici cinque dischi per l‘isola deserta..
Nefertiti
del quintetto di Miles Davis; The Black Saint and the Sinner Lady di
Mingus; The Lamb lies down on Broadway dei Genesis; Sunday a the
Village Vanguard del trio di Billl Evans; Pictures an Exibition degli
Emerson, Lake & Palmer.
- Quali sono invece i tuoi cinque spartiti indispensabili?
La
Sagra della Primavera di Igor Strawinskj; Il Clavicembalo Ben
Temperato di J.S.Bach; 24 preludi di Chopin; i Concerti Sacri di Duke
Ellington; La rapsodia in Blue di George Gershwin.
- Il Blog viene letto anche da giovani neodiplomati e diplomandi, che consigli ti senti di dare a chi, dopo anni di studio, ha deciso di iniziare la carriera di musicista?
Consiglio
intanto di andare all'estero almeno per un periodo (c'è chi non
ritorna), per un confronto che abbia un respiro internazionale. Il
secondo consiglio è di ponderare bene le scelte artistiche,
soprattutto all'inizio, senza paura di rischiare. Poi ovviamente
consiglierei di cercare il proprio suono, la propria idea, con
umiltà e senza autoreferenza, ma con amorevole passione e segreta
complicità. Meglio essere la bella copia di se stessi che la brutta
di un altro.
- Con chi ti piacerebbe suonare e cosa ti piacerebbe suonare? Che musiche ascolti di solito?
Pensando
agli italiani, mi piacerebbe suonare con Enrico Pieranunzi, non una
versione italiana del duo Evans-Hall, ma qualcosa di più profondo
dentro l'improvvisazione. Suonerei con estremo piacere anche con il
grande Massimo Manzi, batterista di gran classe. Con Antonello Salis
invece mi piacerebbe suonare ancora. Abbiamo avuto un duo per un
breve periodo ed è un peccato averlo perso di vista. Pensando agli
stranieri la risposta rischia di allungarsi troppo, però sarebbe
molto stimolante suonare in un progetto con Louis Sclavis e con Tim
Berne, due artisti che ammiro da sempre. Escludo che possa succedere,
ma non si sa mai. Intanto l'ho detto!
- Quali sono i tuoi prossimi progetti? Su cosa stai lavorando?
Camera
Lirica, ovviamente! Cercherò di lavorare per il 2015 (in autonomia
perché non ho un'agenzia di booking). Sto lavorando ad una
difficile trascrizione di un lavoro di John Oswald sui Gratedul Dead
che sarà presentato al Festival Angelica nel maggio 2015.
Prossimamente si riunirà un progetto dopo anni in pausa, il Dedalo
Guitar Project quartetto di chitarre con il sottoscritto, Maurizio
Grandinetti, Roberto Cecchetto e Marco Cappelli. Sto lavorando anche
alla preparazione di un nuovo recital in solo e nello stesso tempo
sto pensando ad un nuovo gruppo a mio nome, questa volta di organico
ridotto, quartetto o quintetto. Infine sto aspettando con ansia che
esca il disco in duo con Ares Tavolazzi “Dialoghi a Corde”. Si
tratta di un live del 2013 per il festival Gezziamoci di Matera per
la Onyx Jazz Club con brani originali (due miei e due di Ares) ed
alcune particolari rivisitazioni di vecchi standards. La formula è
quella del noto “crowdfunding”, cioé la sottoscizione mediante
acquisto anticipato. Mancano poche quote perchè il disco possa
essere “liberato”, come Aladino dalla lampada. L'invito è esteso
a tutti i lettori!
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