giovedì 3 marzo 2011

Intervista a Stefano Viola, terza parte


Quale significato ha l’improvvisazione nella sua ricerca musicale? Si può tornare a parlare di improvvisazione in un repertorio così codificato come quello classico o bisogna per forza uscirne e rivolgersi ad altri repertori, jazz, contemporanea, etc?

Ritengo che il “saper improvvisare” sia una qualità innata che ovviamente va poi sviluppata, mai schematizzata o codificata; si percepisce subito la differenza tra una improvvisazione “pura”o per meglio dire “spuria” ed una improvvisazione “accademica” e cioè basata in qualche modo su schemi o eccessiva ripetitività. Personalmente non ritengo di possedere tale “dono”anche perché il praticare quotidianamente il repertorio classico porta inevitabilmente a sviluppare percorsi espressivi basati sulle forme e sugli stili che sono, in qualche misura, codificati; anche pensando alla “ornamentazione” nella musica barocca, che potrebbe essere confusa con una improvvisazione, ci rendiamo conto che in realtà non lo è affatto o lo è solo parzialmente dal momento che nei vari trattati dell’epoca se ne parla dettando e suggerendo una grandissima quantità di indicazioni sul modo di ornamentare che abbisognano sì di essere applicate con il cosiddetto “buon gusto”, ma mai del tutto improvvisate. Credo che entrando nel classicismo e successivamente nel romanticismo l’aspetto improvvisativo sia del tutto assente visto il consolidarsi di forme e strutture musicali sempre più definite e, a parte qualche cadenza nei concerti con orchestra (che tra l’altro veniva spesso scritta), non saprei dove l’indole improvvisativa di un interprete potrebbe trovare spazio senza rischiare di cadere nel “cattivo gusto”. Risulta da numerosi scritti e corrispondenze tra musicisti dell’epoca (in particolare chitarristi) che spesso i grandi virtuosi eseguivano le loro opere in pubblico in modo sostanzialmente diverso da come le stesse erano pubblicate ma ciò non derivava da un moto “improvvisativo” ma dal semplice fatto che nel pubblicare un brano spesso, essendo destinato ad un uso da parte di fruitori per lo più dilettanti, veniva volutamente semplificato e scarnificato per renderlo di più facile esecuzione e quindi “commercialmente” più appetibile. In conclusione credo che si possa parlare di vera e propria improvvisazione solo nella musica contemporanea, dove i concetti di “forma, codici di scrittura e codici teorici” sono pressoché assenti lasciando in questo caso molto spazio ad un moto veramente improvvisativo da parte dell’esecutore. Emblematico a questo riguardo l’aneddoto raccontatomi da un valente collega che pratica assiduamente il repertorio contemporaneo che mi ha detto come due esecuzioni dello stesso brano fatte alla presenza del compositore in occasioni diverse, siano state giudicate dal compositore stesso come “pregevoli”, nonostante egli (il collega) avesse di volta in volta improvvisato e introdotto nel brano situazioni, strutture, e forme del tutto antitetiche.

Ci può parlare delle linee e degli obiettivi che caratterizzano la sua didattica?

Anche il mio modo di intendere la didattica è profondamente mutato nel corso degli anni; all’inizio della mia carriera pensavo che il soggetto delle mie lezioni fosse la chitarra e quindi sviluppavo tematiche prevalentemente tecnico-meccaniche nella convinzione che fossero propedeutiche all’interpretazione (forse lo sono, ma solo agli inizi) e noto che ancora oggi vi sono molte scuole che continuano a muoversi in tal senso. Poi ho capito che il soggetto vero delle mie lezioni doveva essere la musica e la persona-studente nella sua naturalezza facendo musica spostando l’attenzione sul “come” riuscire a coniugare il soggetto (studente) con l’oggetto (chitarra) nel modo più naturale possibile salvaguardando la genuinità del gesto musicale sovrapponendolo al gesto tecnico che viene così risucchiato e guidato dall’intenzione espressiva stessa.
Negli ultimi anni mi sono completamente discostato da un “chitarrismo” fatto di perfezione estetica e funzionale ma che risulta alla fine svuotato di ogni contenuto determinando una globalizzazione e una standardizzazione del modo di suonare; l’evoluzione tecnica degli ultimi decenni se comprensibile da un punto di vista storico vedendola come esigenza di crescita rispetto ai chitarristi del passato piuttosto vulnerabili da questo punto di vista (salvo rare ed illuminate eccezioni), ha determinato uno spostamento in primo piano dell’”oggetto chitarra” rispetto al “soggetto musicista”ribaltando completamente l’idea rispetto all’origine del fenomeno musicale stesso che , non dimentichiamolo, sta dentro di noi e non al di fuori (sullo strumento). L’esasperazione di concetti quali le “preparazioni”e la filosofia del “praticismo” nella scelta delle diteggiature hanno indotto e inducono moltissimi esecutori a pensare che l’origine del suono sia lo strumento, che invece,secondo me, deve rimanere un luogo di transito; in sintesi una perfetta simbiosi e sovrapposizione di intenti tra il “gesto musicale” e il “gesto tecnico”.

Ho, a volte, la sensazione che nella nostra epoca la storia della musica scorra senza un particolare interesse per il suo decorso cronologico, nella nostra discoteca-biblioteca musicale il prima e il dopo, il passato e il futuro diventano elementi intercambiabili, questo non può comportare il rischio per un interprete e per un compositore di una visione uniforme? Di una “globalizzazione” musicale?

Indubbiamente anche la storia della musica è assoggettata al ritmo frenetico con cui si sta evolvendo la società in genere, per cui non c’è il tempo di metabolizzare le nuove direzioni e/o tendenze che subito appaiono all’orizzonte nuovi scopi e nuove mete da raggiungere. La sensazione è che nessun compositore riesca ormai a radicare nell’immaginario collettivo perché si trova lui stesso a dover mutare spesso stile compositivo e non per convinzione ma spesso per convenienza; credo che ci vorrebbe più tempo per far sedimentare le correnti compositive innovative nel periodo storico in cui si manifestano e questo è impossibile perché il mondo è sempre più consumistico anche nell’ascolto musicale. Quindi l’uniformità o la sensazione che non vi sia niente di così significativo da annotare nella cronologia storico-musicale moderna nasce dall’impossibilità di una maturazione dei soggetti e dei nuovi concetti compositivi. Per non parlare delle contaminazioni e delle sperimentazioni che, se da un lato sono fondamentali per tracciare le linee per il futuro, rischiano se praticate in modo casuale e frettoloso di far smarrire la propria identità.

Più che una domanda .. questa è in realtà una riflessione: Luigi Nono ha dichiarato “Altri pensieri, altri rumori, altre sonorità, altre idee. Quando si ascolta, si cerca spesso di ritrovare se stesso negli altri. Ritrovare i propri meccanismi, sistema, razionalismo, nell’altro. E questo è una violenza del tutto conservatrice.” … ora .. la sperimentazione libera dal peso di dover ricordare?

Credo che se ammettiamo di poter essere “fallibili” automaticamente dobbiamo essere capaci di ascoltare gli altri tendendoci in modi diversi; da un lato cercando di riconoscerci e identificarci nelle cose che oggettivamente riteniamo consolidate come “sensate”e che quindi saranno conservatrici di sensi assoluti e definiti, e dall’altro aprendoci alla percezione di altre identità dalle quali cercare di trarre ispirazione per una sperimentazione ed eventuale crescita personale. Credo che un ragionamento simile si possa traslare anche nella didattica; non riconoscersi troppo negli studenti che diverrebbero inevitabilmente dei cloni privi di identità, ma aprirsi, nel ruolo di Maestro, verso una funzione di guida verso una libera identità.

Qual è il ruolo dell’Errore nella sua visione musicale? Dove per errore intendo un procedimento erroneo, un’irregolarità nel normale funzionamento di un meccanismo, una discontinuità su una superficie altrimenti uniforme che può portare a nuovi sviluppi e inattese sorprese...

L’errore va considerato semplicemente come una “esperienza”e come tale va vissuto, come facente parte delle possibilità della vita e quindi, nel nostro caso, dell’interpretazione musicale; entro certi limiti quantitativi e tipologici direi che rende “umana” l’esecuzione nel senso più profondo del termine. Posseggo dei dischi “storici” di Horowitz o Rubinstein appartenuti a mia madre ed incisi per importanti etichette discografiche dove l’errore è stato volutamente lasciato (anche se avrebbero potuto tranquillamente reincidere o correggere) proprio a rappresentare un moto genuino ed espressivo “bello” in quanto tale, a prescindere da una perfezione estetica…bellissimo!!!
Traslando questa visione nella didattica che è il mio campo espressivo predominante il ruolo del Maestro è appunto quello di trasmettere fin dall’inizio una visione dell’errore esecutivo che lo inquadri come qualcosa che fa parte dell’esecuzione stessa e dal quale trarre esperienze ed indicazioni formative ed equilibrate; evidenziare troppo l’ errore come un fatto che non deve accadere porta inevitabilmente ad una frustrazione anche nello
studio, specialmente con uno strumento come la chitarra. Senza contare che il maniacale controllo meccanico proteso ad evitare l’errore stesso porta inevitabilmente ad una inibizione espressiva parziale o addirittura totale. Quanti esempi si potrebbero trovare nella vita quotidiana relativi a questa “ansia da prestazione e da perfezione” che pervade la società contemporanea e che sta portando le nuove generazioni ad inibire le emozioni, quasi come se ne vergognassero; credo che anche la famiglia nelle figure genitoriali dovrebbe aiutare i figli ad accettare gli errori e i fallimenti (inevitabili) che possano accadere, anche in questo caso con equilibrio e senza sconfinare nel lassismo…bella domanda, complessa ed interessante della quale consiglierei di considerare soprattutto la parte conclusiva dove si parla di “nuovi sviluppi ed inattese sorprese”!

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