Quello che segue è un capitolo del saggio di Umberto Eco Verso un nuovo Medioevo (Bompiani, 1973), un’opera quindi vecchia di 35 anni. Ricordo che oltre ad Eco, altri studiosi allora avevano iniziato a parlare dell’epoca contemporanea in questi termini: per esempio, Roberto Vacca, autore di un famoso saggio dal titolo Il Medioevo prossimo venturo, Furio Colombo, Francesco Alberoni, Giuseppe Sacco… Ora non posso certo soffermarmi in questa sede a parlare di ciò che questi studiosi sostenevano: mi basta rilevare il fatto che una delle loro idee forti, il tema del parallelismo fra crisi dell’impero romano e (inizio della) fine dell’egemonia planetaria degli Stati Uniti d’America nel mondo ‘globalizzato’ è in fondo ancora oggi di attualità, nonostante molti avvenimenti successivi agli anni ’70, dal crollo dell’Unione Sovietica alle guerre preventive di Bush, sembrassero in certi momenti testimoniare il contrario.
Un grande potere internazionale, per usare le parole di Eco, che dopo aver unificato il mondo, come lingua, cultura, costumi, ideologie, etc., ad un certo punto, per la sua stessa complessità ingovernabile, crolla. In questo periodo di incalzante crisi finanziaria dei paesi avanzati, Stati Uniti in testa, ciascuno sia libero di pensarla come vuole, a questo riguardo. Qui, dopo questa introduzione anche troppo lunga, preme richiamare l’attenzione su un aspetto particolare delle argomentazioni di Eco, e cioè quelle relative ai ‘paralleli culturali e artistici’ fra ‘vecchio’ e ‘nuovo’ medioevo. Ma diamo direttamente la parola all’autore.
..Abbiamo una corrispondenza abbastanza perfetta tra due epoche che in modi diversi, con uguali utopie educative e con uguale mascheratura ideologica di un progetto paternalistico di direzione delle coscienze, cercano di colmare il divario fra cultura dotta e cultura popolare passando attraverso la comunicazione visiva. Entrambe sono epoche in cui l’élite selezionata ragiona sui testi scritti con mentalità alfabetica, ma poi traduce in immagini i dati essenziali del sapere e le strutture portanti dell’ideologia dominante. Civiltà della visione il Medioevo, dove la cattedrale è il grande libro di pietra, e in effetti è il manifesto pubblicitario, lo schermo televisivo, il mistico fumetto che deve raccontare e spiegare tutto, i popoli della terra, le arti e i mestieri, i giorni dell’anno, le stagioni della semina e del raccolto, i misteri della fede, gli aneddoti della storia sacro e profana e la vita dei santi (grandi modelli di comportamento, come oggi i divi e i cantanti, élite senza potere politico, come spiegherebbe Alberini, ma con enorme potere carismatico).
Accanto a questa massiccia impresa di cultura popolare sui svolge il lavoro di composizione e collage che la cultura dotta esercita sui detriti della cultura passata. Si prensa una scatola magica di Cornell o Armand, un collage di Ernst, una macchina inutile di Munari o Tinguely, e ci si ritroverà in un paesaggio che non ha nulla a che vedere con Raffaello o Canova ma che ha moltissimo a che vedere con il gusto estetico medievale. In poesia sono centoni e indovinelli, i kenning irlandesi, gli acrostici, i tessuti verbali di citazioni multiple che ricordano Pound e Sanguineti; i giochi etimologici dissennati di Virgilio di Bigorre e Isidoro di Siviglia, che fanno tanto Joyce (Joyce lo sapeva), gli esercizi di composizione temporali dei tarttati di poetica, che sembrano un programma per Godard, e soprattutto il gusto della raccolta e dell’inventario. Che allora si concretava nei tesori dei principi e delle cattedrali, dove si raccoglievano indistintamente una spina della croce di Gesù, un uovo trovato dentro un altro uovo, un corno di unicorno, l’anello di fidanzamento di San Giuseppe etc.
E dominava una totale in distinzione tra oggetto estetico e oggetto meccanico (…) e non vi era differenza tra oggetto ‘di ‘creazione’ e oggetto di curiosità, con una in distinzione tra artigianale e artistico, tra ‘multiplo’ ed esemplare individuale e artistico e soprattutto fra trouvaille curiosa (la lampada liberty come il dente di balena) e opera d’arte. Il tutto dominato dal senso del colore squillante e della luce come elemento fisico di godimento, e non conta se là occorresse avere vasi d’oro incrostati di topazi messi a riflettere i raggi del sole rifratti da una vetrata di chiesa, e qui sia l’orgia in multimedia di un qualsiasi Electric Circuì, con proiezioni polaroid cangianti e acquoree.
Diceva Huizinga che per capire il gusto estetico medievale occorre pensare al tipo di reazione che prova davanti all’oggetto curioso e prezioso un borghese stupefatto. Huizinga pensava in termini di sensibilità estetica postromantica: oggi troveremo che questo tipo di reazione è lo stesso che ha un giovane rispetto a un poster che rappresenti un dinosauro o una motocicletta, o a una scatola magica transistorizzata in cui ruotano fasci luminosi, a metà tra il modellino tecnologico e la promessa fantascientifica, con componenti di oreficeria barbarica.
Arte non sistematica ma additiva e compositiva la nostra come quella medievale, oggi come allora coesiste l’esperimento elitistico raffinato con la grande impresa di divulgazione popolare, con interscambi e prestiti reciproci e continui: e l’apparente bizantinismo, il gusto forsennato per la collezione, l’elenco l’assemblage, l’ammasso di cose diverse è dovuto all’esigenza di scomporre e rigiudicare i detriti di un mondo precedente, forse armonico, ma ormai desueto.. Mentre Fellini e Antonioni tentano i loro Inferni e Pasolini i suoi Decameroni (..), qualcuno tenta disperatamente di salvare la cultura antica, pensandosi investito da un mandato intellettuale, e si accumulano le enciclopedie, i digesti, i magazzini elettronici dell’informazione su cui vacca contava per tramandare ai posteri un tesoro di sapere che rischia di dissolversi nella catastrofe..
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