martedì 23 dicembre 2008

Ravi Shankar: ragas and talas parte seconda di Empedocle70

Il violinista Yéhudi Menuhin è probabilmente il primo artista di fama mondiale ad avvicinarsi a Shankar non in maniera superficiale e sulla spinta di un interesse che lo porta a mettersi in gioco su un piano paritario con le altre culture del mondo. Già nel 1952 Menuhin aveva avuto la possibilità di ascoltare in concerto Shankar a Nuova Delhi, ma alla coppia ci sarebbero voluti quattordici anni e il festival di Bath per poter far nascere l'occasione di prodursi in un duetto dal vivo. Un connubio segnato dai tre dischi di «West Meets East", un punto fermo nella storia dell'incrocio tra le culture, e foriero di altri incontri analoghi nei decenni successivi, dal Concertofor Sitar and Orchestra dei 1971 con André Previn ai Passages del 1990 con Philip Glass.
Però è stato l'avvicinamento al jazz il vero passo d'esordio, la prima collaborazione effettiva verificatasi tra Shankar e i musicisti occidentali. L’interesse in questo caso è reciproco e si spiega facilmente se si pensa alla grande importanza che l'improvvisazione riveste nella musica indiana. Shankar incontra dapprima il flautista Bud Shank, con il quale incide nel 1962 "Improvisations", poi il batterista Buddy Rich. Infine, dopo aver dato lezioni a Don Ellis, non può fare a meno di incrociare lo sguardo di John Coltrane. Shankar rimane assai colpito e turbato dal sassofonista, avverte il grido di dolore che fuoriesce dalle sue performance, si rende conto di avere di fronte un'anima inquieta e tormentata. John è in piena fase mistica, ha abbandonato le droghe, è divenuto vegetariano, si interessa di yoga, legge testi sacri indiani. A Shankar fa domande sulle scale dei raga, sul modo in cui gli esecutori indiani concepiscono l'improvvisazione. Nel 1967 pianificano di annullare tutti i loro impegni per sei settimane e di ritrovarsi a Los Angeles per approfondire la loro conoscenza e parlare di musica. Ma a quell'appuntamento Coltrane, che ha dato a suo figlio, anche lui brillante sassofonista, il nome Ravi, non giungerà mai. Shankar continuerà a ricordarlo e a descriverlo come un essere umile e gentile, rammaricandosi non poco per quell'incontro mancato che chissà a quali idee e innovazioni avrebbe potuto dar luogo.

Ravi Shankar & Yehudi Menuhin-Prabhati




Alla metà degli anni Sessanta il sitarista indiano si impone definitivamente all'attenzione del mondo della (contro)cultura occidentale: l’attenzione della beat generation e del flower power per le filosofie orientali e l'India in particolare contribuisce a rendere Shankar un’icona del movimento nel volgere di un lasso di tempo brevissimo. Fondamentalmente Shankar si ritrova a essere l'uomo giusto nel posto giusto in un'epoca assolutamente ricettiva verso il modello musical-esistenziale da lui veicolato. Egli in realtà non amava troppo e criticò spesso con parole dure il modo approssimativo con cui il suo paese veniva dipinto dalla cultura hippie, che fagocitava tantra, kamasutra, mantra, yoga, droghe e ammennicoli vari con disinvolta superficialitá (la propensione del periodo a considerare la droga come intimamente connessa alla cultura indiana lo mandava in bestia). Nel 1966 Shankar conosce George Harrison (che l'anno precedente aveva impiegato il sitar nella celeberrima Norwegian Wood giudicata da Shankar un brano «assolutamente spaventoso») a una riunione della Ayana Deva Angadi a Londra. E’ l’inizio di un’amicizia destinata a durare sino alla morte del chitarrista e nello stesso tempo l'avvio di una nuova era del pop. George che si stava appassionando alla filosofia e alla musica indiana, domanda a Shankar di istruirlo all'arte del sitar. Ravi è diretto come sempre e gli fa capire che non è esattamente come imparare a suonare la chitarra, e non basta avere un po’ di talento: Per il sitar ci vogliono anni e anni di disciplinata applicazione, l'esatto contrario di quell'approccio istintuale alla materia musicale che è la miglior caratteristica del rock.
In ogni caso quest'incontro segna il definitivo passaggio di Shankar allo status di star, testimoniato dalla sue esibizioni ai festival di Monterey (1967), Woodstock (1969) e al concerto per il Bangla Desh del 1971 organizzato dallo stesso Harrison con il contributo di Shankar, teatro anche di un gustoso episodio che rende bene l'idea approssimativa che i giovani occidentali, per quanto proprietari di una "coscienza allargata”, avevano all'epoca della musica indiana. Shankar e Ali Akbar Khan, che lo accompagnava nell'occasione, cercano l'accordatura dei loro rispettivi strumenti on stage prima di dare inizio all'esibizione. immancabile, al termine, scatta l'applauso entusiasta dei presenti. «Se apprezzate così tanto già l'accordatura spero vi piaccia ancora di più quando suoneremo» fu il commento tagliente di Ravi.



continua domani ....

Nessun commento: