giovedì 1 maggio 2008

Speciale Elena Càsoli: intervista di Empedocle70 parte prima

Foto di Roberto Masotti

Empedocle70: Come nasce l’amore di Elena Càsoli per la chitarra?

Elena Càsoli: Come forse è accaduto a molti, è stato il caso a farmi incontrare la chitarra, attraverso la mia maestra delle elementari. Un’occasione fortunata, e forse negli anni ‘60 non così comune come oggi, grazie alla quale già a sette anni ho cominciato a suonare. Meno casuale è stato invece l’incontro con la musica, nato dalle passioni culturali di mio padre. Nella nostra casa c’erano tanti dischi in vinile che si ascoltavano alla sera, molti libri, e non appena ho avuto l’età per frequentare una sala da concerto o un teatro, mi sono ritrovata a passare in quei luoghi molte delle nostre serate. Così la chitarra e la musica sono diventate molto presto una presenza naturale e costante delle mie giornate.

E.: "Suono uno strumento che vive oggi uno dei momenti più felici della sua lunga storia. Uno strumento che ha saputo evolversi adeguando struttura e caratteristiche timbriche ai mutamenti del pensiero musicale, fino a trovare nel XX secolo una molteplicità di forme ed espressioni pari solo al periodo rinascimentale e barocco." Devo ammettere di essere rimasto molto impressionato da questa dichiarazione di intenti: spesso e volentieri ho letto di chitarristi lamentarsi della “povertà” del repertorio chitarristico, nei confronti di quello di altri strumenti come il violino e il pianoforte. Lei sembra invece ribaltare questa questione…. sottolineando la “contemporaneità” della chitarra …

E.C.: Non credo sia una mia visione esageratamente ottimistica, ma un dato reale, confermato dalla quantità di bella musica per chitarra scritta e pubblicata. Senza alcun atteggiamento critico, devo dire che io mi stupisco sinceramente quando leggo o sento di chitarristi che lamentano una carenza di repertorio. Nel mio studio si accumulano spartiti di pezzi nuovi e non, che ricevo volentieri dai compositori e dalle case editrici, ma che non ho purtroppo il tempo di suonare e di mettere in programma in concerto, proprio perché già studio ogni anno un grande numero di altri nuovi pezzi.
E’ una miniera di musica per la quale chiedo aiuto anche ai miei allievi di Berna, affinchè li leggano e li suonino nei loro concerti.

E.: Nel libretto che accompagna Changes Chances, lei fa più volte riferimento alla “Nuova Musica”, in particolare parlando di Terry Riley. Lo stesso Riley in alcune sue incisioni parla di “New Music”, ma non sono riuscito a capire cosa si intende effettivamente: un nuovo genere musicale? Una diversa attitudine?

E.C.: Potrei dire che con questa definizione di Nuova Musica mi unisco a quella comunità internazionale di musicisti, musicologi, critici e pubblico che riconosce come tale tutta la musica che viene scritta con un’intenzione di ricerca e di creazione artistica. Che gli esiti siano poi più o meno sperimentali questo dipende dal percorso di ogni compositore, ma comune è l’atteggiamento. In particolare si sono riconosciuti in questa definizione compositori che hanno legami e derivazioni poetiche e culturali dalla storia musicale classica europea, ma oggi questa definizione è sicuramente imperfetta e limitante, se si considera la vastità e varietà della produzione musicale di ricerca a livello internazionale.
E’ un mondo di pura creazione, affascinante e multiforme, nel quale i compositori inventano, elaborano, trasformano la materia musicale con un atteggiamento di profonda libertà e indipendenza. I loro pensieri si materializzano sulla carta o nelle tracks di un computer in totale sfrenata indipendenza da qualsiasi regola o condizionamento, che non nasca dalla loro ispirazione.

E.: Una cosa che mi ha sempre stupito è la versatilità con cui lei si approccia con disinvoltura a diversi tipi di chitarre dalla classica, alla acustica, all’arciliuto, alla elettrica sempre con l’intento di essere il più possibile al servizio del compositore … come riesce a gestire questo “parco” di chitarre? Quali sono le difficoltà che ha incontrato passando da uno strumento all’altro?

E.C.: A volte anch’io mi stupisco di come i compositori pensino che io possa essere flessibile e mi scrivano in partitura di passare dall’arciliuto all’elettrica nello spazio di pochi secondi! Immagini poi quanto tempo sia necessario, prima di questo tipo di concerti, solo per cambiare le corde a tre o quattro strumenti. Ma così è e negli anni, seguendo le richieste dei compositori e le mie curiosità, alla classica si è affiancata -ormai vent’anni fa- una Blue Blade elettrica con effetti vari, poi sono arrivate una splendida Taylor per un’opera di John Adams, la Panormo del 1846 -una elegante signora sulla quale suono Paganini e Takemitsu- e infine l’arciliuto a 13 cori. Qualche anno fa ho studiato anche la pipa cinese per due opere di Philip Glass al Piccolo Teatro Regio di Torino con Sentieri Selvaggi e ho inciso per Stradivarius con una Carlo Raspagni a10 corde Y Despuès di Bruno Maderna.
Le differenze sono notevoli, sul piano tecnico e timbrico. Io cerco di “sentire” lo strumento sotto le dita, di cogliere il più a fondo possibile la sua natura vibrante, la sua fisicità, acustica o elettrica che sia, e poi su questo lavorare fino a sentirmi in confidenza, di trovare il “suono”.

E. Dei suoi strumenti confesso che quello che mi incuriosisce di più è la Palormo del 1846 che lei ha adoperato in Changes Chances per i brani di Riley. Ricordo una intervista a Uto Ughi dove lui parlando del suo Stradivari si considerava come l’ultimo “custode” di uno strumento al di là del tempo e del semplice concetto di nuda proprietà, ci vuole raccontare qualcosa su questa chitarra? La sua storia, come è arrivato nelle sue mani…

E.C.: Incontrare una chitarra così è stata una fortuna. Lucio Antonio Carbone, liutaio di grande esperienza che opera nel suo laboratorio milanese, ha trovato questa Panormo durante un viaggio in Inghilterra. Come sempre accade non tutte le Panormo ancora in circolazione sono uguali e di egual valore, anche per i danni del tempo. Io l’ho provata prima del restauro e ho sentito che aveva un suono e un sustain particolari. Era, nonostante gli anni, uno strumento molto vivo, con una voce calda, pronto a vibrare appena lo si sollecita. Nel restauro, con la sostituzione delle catene ed altri interventi, è stato riportato ad un equilibrio ideale ed è stato proprio in Inghilterra, a Manchester e Liverpool, che questa chitarra è tornata di nuovo e per la prima volta in pubblico nelle mie mani.

E.: Sono rimasto molto colpito dal disco dedicato alle musiche di Henze, frutto della collaborazione artistica con Jurgen Ruck, una collaborazione che continua dal 1990. Ce ne vuole parlare e magari anticipare qualche nuovo sviluppo musicale?

E.C.: Negli anni ho avuto la fortuna di suonare con tanti musicisti di grande valore. Ai Ferienkursen für Neue Musik di Darmstadt del 1988 ho incontrato Jürgen, che già avevo conosciuto ai corsi estivi di Oscar Ghiglia, e lì abbiamo scoperto una passione comune per la Nuova Musica. Così è nata l’idea di dar vita ad un duo dedicato principalmente a questo repertorio, commissionando ed eseguendo in prima assoluta opere di compositori con i quali eravamo in contatto. Ci siamo poi trovati accanto anche in opere contemporanee che prevedevano due chitarre nell’organico orchestrale, con la Chamber Orchestra of Europe, i Berliner Philarmoniker o la Deutsche Symphonie Orchester. Esperienze importanti con grandi direttori d’orchestra come Heinz Holliger, Kent Nagano e Claudio Abbado, che insieme ai concerti in duo hanno contribuito a rendere la nostra collaborazione profonda e duratura. Suonare insieme è un grande piacere, anche se alcune opere che abbiamo commissionato ci hanno messo a dura prova, per l’impegno e la difficoltà, come i pezzi di Klaus Ospald e Klaus Steffen Mahnkopf. Uno dei periodi più significativi del nostro lavoro insieme è stata la realizzazione di Memorias da El Cimarròn e di alcune arie dall’opera The English Cat per due chitarre, su invito e in collaborazione con Hans Werner Henze. Il risultato è stato un cd che ha vinto a Berlino l’Echo Klassik Preis 2000, e numerosi concerti nei quali questi nuovi lavori per due chitarre sono stati ascoltati, ed ora sono nel repertorio di altri duo chitarristici. Abbiamo già delle date per il 2009 e anche se la distanza tra Milano e Monaco non facilita gli incontri, la comunanza di intenti e direzione ci tengono sempre a stretto contatto.

E.: Cage, Carter, Riley, Reich …. Quale sarà il prossimo compositore che incrocerà il suo percorso musicale? Forse … Zappa?

E.C.: Come è noto amo molto la musica di Frank Zappa e ho suonato brani da The yellow Shark con l’Ensemble Modern e il Divertimento Ensemble. Ricordo Zappa dal vivo a Francoforte, durante le prove con l’Ensemble Modern mentre i vari brani di The yellow Shark stavano prendendo forma, una grande emozione essere lì anche solo ad assistere a quell’evento! Dopo la sua scomparsa, ho partecipato ad alcune serate a lui dedicate, con lavori scritti per la mia elettrica in suo omaggio, come Early Reflection di Giorgio Magnanensi, compositore italiano da anni attivo sulla scena musicale di Vancouver. Non so se ci sarà la possibilità di fare altro di Zappa…ma altri compositori americani interessanti, alcuni dei quali sembrano seguire la direzione da lui tracciata, non mancano. Da Sidney Corbett, che vive in Germania, a Scott Johnson, del quale abbiamo fatto in prima assoluta Americans –un lavoro davvero molto interessante, dove l’elettrica ha un ruolo molto importante- con Sentieri Selvaggi lo scorso anno, a Tim Brady, canadese, ottimo chitarrista elettrico lui stesso, del quale suggerirei l’ascolto di Playing Guitar:Symphony n.1. E poi vorrei ricordare Eve Beglarian e David Lang, che miei allievi ed ex allievi della Hochschule di Berna già hanno suonato nei loro diplomi e che spero presto di mettere in repertorio. Di Reich penso di suonare Guitar Phase e continua il mio lavoro su Cage. Come suggeriva John Cage nei suoi scritti, tengo la mia mente sveglia e allerta, o almeno cerco di farlo!
..segue..

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