mercoledì 9 febbraio 2011

Philip Glass: un tentativo di approccio di Empedocle70, terza parte


Tutti i brani sono pensati per un ensemble che, oltre a Gibson e allo stesso Glass, negli anni vedrà avvicendarsi personaggi quali Dickie Lan­dry, Art Murphy e Steve Chambers (già con Reich), fino a alle saltuarie ospitate di Frederic Rzewski, Richard Teitelbaum, David Behrman, e soprattutto fino all'entrata in pianta stabile della vocalist-compositrice Joan La Barbara, che inter­viene nel momento in cui Glass decide di aprire le sue composizioni alla voce. È dunque a questo ensemble che si deve la straordinaria resa delle opere appartenenti al biennio 1969-1970: capo­lavori come Music in Fifths, Music in Contrari.




Motion, Music in Similar Motion proiettano Glass nell'olimpo del minimalismo storico e rappresen­tano un deciso balzo in avanti rispetto agli eserci­zi del periodo immediatamente precedente. Costruiti attorno al suono inesorabile di quello che diventerà lo strumento d'elezione di Glass, vale a dire l'organo elettrico amplificato (che può essere in solo, come in Contrary Motion, oppure in trio, nella Similar Motion resa possente dalla contemporanea presenza di due sassofoni e un flauto), questi brani suonano radicali, disadorni e senza compromessi come nessun altro esperimento minimalista coevo. AI di là delle diverse tecniche che di volta in volta vengono esplorate sul tessu­to ripetitivo-additivo (moti contrari, moti paralleli ecc), a fare la differenza è prima di tutto il tono spietato, implacabile e scontroso delle esecuzio­ni. La precisione inumana degli strumentisti, il ritmo vertiginoso dei brani, l'ipnosi vagamente paranoide delle partiture, poco hanno in comune con le solari meditazioni di Riley o con l'eleganza formale di Reich: sono brani che semmai riman­dano - come già fu notato all'epoca - all'energia tutta sudore e sangue del rock, e la stessa imma­gine pubblica dell'ensemble contribuirà ad ali­mentare il parallelo. Con i loro capelli lunghi, la loro amplificazione portatile, i loro volumi assor­danti, e senza contare la presenza assidua (ben­ché forzata: il minimalismo, nei circoli colti, era ancora considerato eresia) nei 10ft piuttosto che nei locali rock, i membri del Philip Glass Ensem­ble si faranno la fama di micidiale macchina da guerra per tour de force dall'intensità inaudita, conquistandosi quindi l'ammirazione del pubbli­co giovane e l'inevitabile derisione da parte della comunità musicale uptown.




La vetta assoluta del periodo resta forse la splendida Music with Changing Parts, dalla lun­ghezza - almeno per gli standard glassiani del 1970 - inusitatamente lunga: da una a due ore di durata. Per la prima volta Glass apre a un grado, seppur marginale, di improvvisazione (gli esecu­tori sono liberi di tenere alcune note scelte, a sottolineare i particolari fenomeni acustici che si formano a partire dall'intricata trama di contrap­punti e armonie), e gli ormai caratteristici arpeg­gi della prima parte lasciano intendere una ten­sione emotiva sconosciuta agli austeri quadri "nero su nero" del 1969; la sfuriata motoristica che interviene a spezzare il languore iniziale, è una sorpresa che anticipa i movimenti di Music in 12 Parts, e in generale - per dimensioni ed archi­tettura - Changing Parts è un importante punto di passaggio tra il Glass radicale degli esordi, e quello massimalista di metà anni '70, giusto a un passo dai trionfi del periodo Einstein on the Beach.
Ancora nel 1971, le esecuzioni del Philip Glass Ensemble sono relegate in spazi e festival dichiaratamente estranei ai circuiti musicali uffi­ciali, e appartenenti semmai al mondo dell'arte e dell'avanguardia concettuale. L'ingresso ufficiale del minimalismo nel salotto buono della musica seria risale in effetti al 1973, quando Steve Reich presenta la sua Four Organs alla Carnegie Hall di New York, per un concerto-scandalo degno, secondo i critici, di figurare accanto alla prima della Sagra della Primavera. Glass arriva alla legittimazione mainstream l'anno dopo, quando finalmente la sua musica viene ospitata in una sala da concerto anziché nel solito 10ft per artisti bohemien: l'opera scelta è la mastodontica Music in Twelve Parts, scritta a più riprese nel triennio successivo a Music with Changing Parts, e dalla durata complessiva di quasi quattro ore.
Lavoro spesso e volentieri magniloquente, tenuto sul filo di un equilibrio delicatissimo tra gli stridori del periodo radicale e i progetti­ monstre della fase operistica, 12 Parts è probabilmente, se mai ce ne fosse una, la composizione più rappresentativa del Glass anni '70: lo stesso autore la intende come una specie di summa di quanto speri­mentato a partire dal 1968, e in effetti almeno i primi otto movimenti sono una parata, anche esaltante, di tutti quanti i trucchi, le intuizioni e gli effetti che da Two Pages hanno portato a Changing Parts; pagine di concitazione assoluta si alternano a distese ipnotiche per fiati e organo elettrico, i vocalizzi si accavallano tra le intelaiature dei virtuosismi strumentali, e le tirate a rotta di collo fanno il paio con una compostezza insolitamente sontuosa, quasi classicheggiante. Le quat­tro parti finali indicano soluzioni nuove, meno rigide che in passato e pericolosamente prossime a un'enfasi che, nell'ultimo movimento, si prende persino gioco del nemico di sempre, la scuola seria le: 12 Parts è insomma la celebrazione del minimalismo glassiano e il suo punto di non ritorno, e che sia iniziata una stagione nuova è a questo punto chiaro.

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