giovedì 12 maggio 2011

Intervista a Pierluigi Potalivo, terza parte


A proposito di composizione per chitarra, Berlioz disse che comporre per chitarra classica era difficile perché per farlo bisognava essere innanzitutto chitarristi; questa frase è stata spesso usata come una giustificazione per l’esiguità del repertorio di chitarra classica rispetto ad altri strumenti come il pianoforte e il violino. Allo stesso tempo è stata sempre più “messa in crisi” dal crescente interesse che la chitarra (vuoi classica, acustica, elettrica, midi) riscuote nella musica contemporanea. Come compositore e chitarrista quanto ritieni che ci sia ancora di veritiero nella frase di Berlioz?

Tutto! La chitarra ha un’accordatura e un sistema di individuazione degli accordi molto particolari; va conosciuta, e quando conosciuta rivela sempre nuove combinazioni. Senza gli arrangiamenti di Segovia la maggior parte del repertorio più celebre sarebbe insuonabile, o non chitarristico. Quanto al repertorio tout court, quella giustificazione non regge. Cos’è una chitarra dell’Ottocento, dico fisicamente, vicino al piano e alle sue possibilità? Cos’è il suo volume, la proiezione della sua voce vicino a quella del violino? Che i chitarristi si diano pace: Bach è trascritto dal liuto e raramente suona bene sulle sei corde, con questi bassi che non tornano (molto meglio le Suites per violino); Giuliani, Sor e Aguado hanno grande sapienza chitarristica, ma solo sprazzi di genio che bisognerebbe sommare in totale per arrivare a un tema con variazioni di Beethoven. Il Romanticismo ci regala Coste e Regondi (pacchi che è meglio lasciare sotto l’albero, qualcun altro magari li prenderà..). Bisogna aspettare Tarrega e Barrios per vedere di nuovo all’opera due uomini che sanno trattare la chitarra. Le loro fortune sono legate però alle scuole nazionali, alla hispanidad. Llobet era un fine armonizzatore e trascrittore dei grandi Albeniz e Granados. Ecco la chitarra: sempre fatalmente intorno ai sommi. Enormi le occasioni perdute: De Falla, Ravel, Debussy, Mussorgskj, musicisti così affini all’universo sottile ma potentemente evocatore della chitarra, e dalle cui mani sarebbero usciti i veri capolavori del secolo. Ma di certo capolavori sono le Variazioni Op.7 di Sor, il Rondò di Aguado, l’Allegro dalla Sonata Op.15 di Giuliani, e soprattutto il Nocturnal di Benjamin Britten, i concerti di Rodrigo e il primo concerto di Castelnuovo-Tedesco, la Royal Winter Music di Henze, la Suite Compostelana di Mompou. Altri compositori, come gli ottimi Torroba e Ponce, hanno trovato nelle corde di Segovia il mezzo ideale. Ben vengano poi la chitarra elettrica, flamenca, etc. Che sarebbero le sei corde se orfane di Django Reinhardt, Ramon Montoya, Paco de Lucia, Pat Metheny, Jimy Hendrix e affidate alla sola Recuerdos de la Alhambra? Non si vive di soli the e pasticcini!...

Ho, a volte, la sensazione che nella nostra epoca la storia della musica scorra senza un particolare interesse per il suo decorso cronologico, nella nostra discoteca-biblioteca musicale il prima e il dopo, il passato e il futuro diventano elementi intercambiabili, questo non può comportare il rischio per un interprete e per un compositore di una visione uniforme? Di una “globalizzazione” musicale?

E’ quello che succede oggi, appunto, quando una cultura come quella europea classica tende al museo. Quando l’arte diventa enciclopedia e non trova forze per risollevarsi. Davvero, cominciare da Francesco da Milano e finire con Brower, passando per Sor e Tarrega rischia di rappresentare un’arte da buffet. In sostanza, tutto questo ha avuto certo un ruolo alcuni decenni fa, ma oggi, dal momento che le nostre discoteche-biblioteche esondano, che fare?

E' un bel problema .. la mia discoteca sta decisamente esondando! Ma non so resistere ... Più che una domanda .. questa è in realtà una riflessione: Luigi Nono ha dichiarato «Altri pensieri, altri rumori, altre sonorità, altre idee. Quando si ascolta, si cerca spesso di ritrovare se stesso negli altri. Ritrovare i propri meccanismi, sistema, razionalismo, nell’altro. E questo è una violenza del tutto conservatrice.» … Ora, la sperimentazione libera dal peso di dover ricordare?

La sperimentazione in sé non ha nulla di male, anzi presuppone audacia, senso del cambiamento. Quando sconfina nel ‘cazzeggio da dopolavoro’ (per citare di nuovo Carmelo Bene), per di più furbetto, che si nasconde dietro l’artificio dell’intellettualità, si commette di certo quella violenza conservatrice di cui parla Nono, cioè l’autoreferenzialità. Ma non c’è bisogno del celebre Silenzio di John Cage per tirarla in ballo, ogni pianista è in cuor suo fermamente convinto di suonare Schumann meglio di ogni altro al mondo. Nono ha ragione. Quando ascoltiamo una nuova Quinta di Beethoven storciamo il naso se un ritardato non coincide con la nostra incisione prediletta, così come quando paghiamo il biglietto per ascoltare Giuliani pretendiamo che sia quello che conosciamo. Una riscrittura offende il nostro bisogno di identità tra ciò che ascoltiamo e la rappresentazione sonora che già abbiamo: ebbene, tutto questo è puramente conservativo.

Qual è il ruolo dell’Errore nella tua visione musicale? Dove per errore intendo un procedimento erroneo, un’irregolarità nel normale funzionamento di un meccanismo, una discontinuità su una superficie altrimenti uniforme che può portare a nuovi sviluppi e inattese sorprese...

Ecco il naturale seguito di quanto appena detto sopra: la superficie uniforme è quella della nostra autoreferenzialità. L’immissione di un elemento irregolare la turba, nega il ‘ritrovamento di se stessi’ all’esterno, descritto da Nono. Essa è sempre conciliante, rassicurante, di stato, si potrebbe dire.

Nessun commento: