mercoledì 14 aprile 2010

Intervista a Florindo Baldissera e Vittorino Nalato, seconda parte


Ho notato che in concerto suonate anche musiche di Piazzolla. Premesso il mio amore viscerale per questo compositore, nella Storia del Tango su Evaristo Carriego Borges parla della natura rissosa del tango con queste parole “..io direi che il tango e la milonga esprimono in maniera immediata qualcosa che molte volte i poeti hanno voluto dire con parole: la convinzione che combattere possa essere una festa…” al di là del gioco poetico nascosto nelle parole di Borges voi come sentite il Tango?

V.N. Il tango mi appassiona molto, tanto da aver suonato per diversi anni in un gruppo composto da flauto, chitarra, contrabbasso e voce, con l'apporto di due ballerini. Il repertorio era costituito solamente da tanghi e milonghe. Una bella esperienza!

F.B. Va precisato che l’esecuzione di Piazzolla è un episodio molto marginale nella storia del Bach Guitar Duo, e che molto probabilmente non avrà un seguito, a meno che non si trovi un Preludio e Fuga del grande bandeonista adatto all’arrangiamento per 2 chitarre. Per quanto mi riguarda considero Piazzolla un grande e fondamentale autore del Novecento, che ha saputo creare un linguaggio di forza e comunicativa difficilmente riscontrabili in molta musica d’oggi. E il Tango è una finestra su un un mondo sensuale, caldo, umano e misterioso, che è in noi, sotto la cenere delle convenzioni, pronto a riesplodere nella sua sfolgorante bellezza…


Per Florindo Baldissera: Oltre al Duo Lei opera in diversi progetti: solista, voce e chitarra, flauto e chitarra, violino e chitarra, la vilhuela e il Fandango Guitar Quartet … come mai così tanti interessi e come cambia il suo modo di suonare a seconda dei diversi contesti?

F.B. Semplicemente perché mi diverte suonare in ogni contesto, purchè di qualità. E mi piace di più il dialogo musicale con altri interlocutori che il monologo. Non nascondo che in tal modo le opportunità lavorative si moltiplicano a dismisura. Recentemente ho inoltre imparato a suonare, per diletto, la vihuela. Quando ho potuto farmi ascoltare sono rimasto un po’ perplesso dal successo che ottenevo con facilità, senza le stressanti fatiche del recital chitarristico: ho apprezzato molto questa nuova dimensione. Tengo a precisare che comunque a mio avviso il recital di sola chitarra resta il momento professionale più alto e intenso. Richiede però grande caratura interpretativa!

Per Florindo Baldissera: In una sua intervista pubblicata sul web site di PsicoLAB - Laboratorio di ricerca e sviluppo in Psicologia intitolata La Paura del Pubblico tra i Musicisti (link http://www.psicolab.net/index.asp?pid=idart&cat=6&scat=282&arid=2328 ) Lei parla di “errori rossi” e “errori blu” aggiungendo anche che “I grandi interpreti sono solitamente grandi improvvisatori perchè quando c’è il vuoto di memoria colmano improvvisando certe lacune e – se uno vende bene il suo prodotto – riesce a convincere il suo pubblico, errori compresi!” possiamo riaprire questo tema? Ho notato infatti che la paura dell’errore in concerto è un problema molto diffuso tra i chitarristi classici mentre non sembra colpire con la stessa forza chi suona in altri ambiti (jazz, rock, blues, etc.) e che sembrano avere un atteggiamento più rilassato…

F.B. Suonare è una cosa fantastica! Rovinarlo con ansia, panico o peggio è un vero insulto! Ho cercato su di me e cerco di snidare in ogni modo le cause dell’insicurezza di molti chitarristi, in particolare nella fase di apprendistato. Mi sono quindi posto delle domande e delle risposte, che trovano ampio riscontro anche in studi di psicologia molto più accreditati delle mie modeste esperienze. Consiglio al proposito la lettura del libro di Christian Agrillo Suonare in pubblico (edizioni Carrocci).
In campi musicali in cui le altezze e durate dei suoni non rappresentano un problema, o in cui il linguaggio è semplice e ripetitivo, o in cui la gestualità è facilmente controllabile, l’ansia da prestazione si riduce in modo drastico. Anche perché non esiste un vero errore legato a una cattiva realizzazione estemporanea di un prodotto che doveva essere consegnato secondo un codice prestabilito. Se suonassi brani composti da me stesso probabilmente sarei rilassato (almeno finchè questi brani non fossero conosciuti da tutti!) perché essendo difficilmente riconoscibile, l’errore non rappresenterebbe una inquietante minaccia o una irresistibile e perniciosa sirena.
Ma cos’è infine l’errore? Potremmo affermare che esso è un apostrofo rosso o blu fra i pilastri che sostengono la struttura espressiva. Lo sbaglio non è nell’imperfezione ma in chi non la tollera o, peggio, in chi la vuole correggere ad ogni costo durante l’esecuzione!
Per semplificare chiamerei errore rosso quello grave, che spezza l’andamento del brano, che fa svanire la magica atmosfera che si andava creando, e errore blu, cioè lieve, quell’imperfezione che non nuoce al disegno d’insieme, e che comunque non è vissuta come un danno all’interpretazione.
In fondo un bravo interprete farà soltanto errori blu.

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