TANTI AUGURI!!! BUON 2009!!!
mercoledì 31 dicembre 2008
martedì 30 dicembre 2008
La musica di Gabriel Estarellas e la chitarra di Antonino Scandurra
Circa un mese fa avevo recensito il bel disco di Gabriel Estarellas "Musica Contemporanea Espanola e Italiana para Guitarra" edito dalla Stradivarius, salutandolo come un felice connubio tra compositori iberici e italiani. Non sapevo che la relazione tra i nostri due paesi in realtà aveva nel disco relazioni ben più profonde!
A svelarcele è stato il liutaio Antonino Scandurra che ha rivelato al Maestro Angelo Barricelli che la chitarra usata in quel disco era opera sua! A testimonianza di questo felice rapporto tra un eccellente musicista e un grande liutaio pubblichiamo con grande piacere e soddisfazione copia del carteggio avvenuto tra i due in relazione alla chitarra che potete ascoltare nel disco. Un sincero grazie a Antonino Scandurra per averci dato questa possibilità!
Empedocle70
lunedì 29 dicembre 2008
Masterclasses 2009 Scuola di Chitarra della Fondazione Arts Academy
Cari amici Chitarristi,
sono lieto di comunicare le prossime Masterclasses 2009 programmate dalla Scuola di Chitarra della Fondazione Arts Academy:
GENNAIO
- 7/8: Giampaolo Bandini
- 9/10: Arturo Tallini
- 21-22: Stefano Palamidessi
FEBBRAIO
- 6/7: Arturo Tallini
- 12/13: Stefano Palamidessi
- 18/21: Pavel Steidl
- 19/20: Giampaolo Bandini
Tali incontri fanno parte di Corsi annuali tenuti dai Docenti ma sonoanche frequentabili come singole masterclass. Fra gli altri musicisti programmati entro luglio 2009 vi sono: Cristina Azuma, Frank Bungarten, François Laurent, Carles Pons, Eduardo Fernandez.
Per informazioni consultate il sito http://www.artsacademy.it/ dove potrete scaricare la brochure generale, la brochure individuale per ciascun docente ed effettuare l'iscrizione online.
Sperando di vedervi numerosi, ringrazio e saluto tutti
Stefano Palamidessi
Arts Academy - Accademia Internazionale di Musica in Roma
Orchestra Sinfonica - Fondazione Romaù
Via G.A. Guattani, 17 - 00161 Roma - Italia
Tel. +39.06.44252303 - Mobile: +39.328.3328689Fax: +39.06.233201924 / +39.06.44254767
LA FINESTRA DI FRONTE - UNA GIORNATA PARTICOLARE di Angela Cingottini
LA FINESTRA DI FRONTE - UNA GIORNATA PARTICOLARE.
Due finestre, due donne, una storia.
di Angela Cingottini
Il film di Ferzan Ozpetek ci riconduce a quello di Scola nella scelta di alcune tematiche fondamentali, ma sono soprattutto le scene in cui la macchina da presa indugia sui grandi condomini romani, sui cortili interni e, naturalmente ,sulle finestre che si aprono verso altre finestre ed esistenze, a dare l’input ai paralleli più immediati, appunto quelli di ordine scenico e,comunque, visivo.
Osserviamo ora però ,più da vicino, le tematiche . A trent’anni di distanza Ozpetek comincia il suo film là dove Scola lo ha finito. Ancora la Roma del nazifascismo: in Scola la collaborazione Mussolini -Hitler è agli inizi, in Ozpetek il fascismo è già fuorilegge e i nazisti imperversano su Roma con retate in tutte le direzioni. Nel primo film è Gabriele, colpevole di essere diverso,’ né marito, né padre,né soldato’ la vittima più diretta .Prelevato di notte da casa verrà, nella migliore delle ipotesi,mandato al confino. In Ozpetek il protagonista eredita la colpa di Gabriele e in più è anche ebreo Ma qui Davide, la vittima, sembra riscattarsi. Lo rivediamo anziano, la figura rispettabile,una buona posizione economica. Apprendiamo che ha avuto onorificenze per aver salvato molte persone dalle retate naziste,ma in realtà lui stesso ammette il suo fallimento perché, per rendere se stesso e la sua diversità accettabile agli altri ,non ha salvato per tempo la persona che amava,perdendola per sempre.
Un’analisi attenta necessitano le protagoniste femminili dei due film :entrambe a proprio modo vittime più o meno consapevoli delle loro situazioni famigliari .Dalle rispettive finestre tutte e due vedono, attraverso la finestra dell’appartamento di fronte ,un diverso modo di vivere ed una possibilità di evasione dalla propria condizione .Per Antonietta questo avviene per gradi e solo al termine di una giornata trascorsa insieme a Gabriele riconosce e ammette la sua insoddisfazione, mettendo in discussione tutta la sicurezza di madre,moglie e buona fascista ostentata fino a quel momento. Il segreto del rapporto nuovo con Gabriele le dà forza per cominciare a ritagliarsi uno spazio di esistenza veramente suo – sedersi in cucina a leggere un libro quando il marito è già andato a letto - . Ma dalla finestra Antonietta assiste anche al prelevamento di Gabriele dal suo appartamento e questo fatto determina la fine del suo tentativo di emancipazione:il libro da poco iniziato viene chiuso e riposto nella credenza, Antonietta se ne va stancamente a letto . Anche Giovanna,nel film di Ozpetek , ha sulle spalle una situazione pesante:non solo il ménage casalingo, ma anche il mantenimento della famiglia dipende in massima parte dal suo lavoro. Un lavoro che,oltretutto,non le piace. Ma non sembra avere altra scelta .Anche per lei,come per Antonietta,l’occasione al riscatto viene dall’inquilino dell’appartamento di fronte,ma mentre Antonietta ha bisogno delle sollecitazioni di Gabriele per arrivare a mettere in discussione la sua realtà , avendone avvertito tutta insieme la pesantezza e l’ingiustizia, Giovanna sente già distintamente di avere diritto ad una esistenza diversa . Una conoscenza incidentale,una giornata trascorsa insieme a Lorenzo in una sorta di indagine alla ricerca del presente e del passato di Davide, crea una complicità che sta per convincerla a iniziare un’altra vita partendo con Lorenzo. Non averlo fatto sembra un’altra sconfitta,ma è in realtà un inizio per la presa di coscienza di sé e per il riscatto:Giovanna lascia il lavoro sicuro, che non le piace e va come apprendista in una pasticceria iniziando così veramente un processo verso quella emancipazione che non potrà venirle né dall’indipendenza economica , né dal cambio di partner,ma solo dalla realizzazione di se stessa e dallo sviluppo delle proprie capacità..
Gli esiti diversi delle vicende che accomunano le due donne sono da ricondursi al realismo con cui entrambi i registi affrontano e propongono le due storie: sia Antonietta che Giovanna sono figlie e, contemporaneamente , emblemi del proprio tempo .Lo schema delle loro storie è quello comune a tantissime altre donne e sono semmai proprio gli esiti a farle apparire diverse, ognuna con una sua sorta di eroicità , ognuna vissuta all’interno della propria epoca.
Osserviamo da ultimo proprio l’affresco epocale in cui si muovono le due protagoniste: per Antonietta è la Roma delle parate fasciste e una gran massa di persone che si sposta tra il grande condominio e via dei Fori Imperiali , una famiglia numerosa, la portiera che sa tutto di tutti e che dispensa consigli comportamentali .La radio a tutto volume che trasmette la cronaca della sfilata e musiche di regime, impedendo l’ascolto di qualsiasi altro tipo di musica, è contemporaneamente realtà e metafora. Anche per Giovanna c’è un grande condominio di Roma; al posto delle sfilate fasciste il lavoro nella polleria industriale, la corsa al supermercato il fine settimana e la cena in pizzeria la sera con marito e figli, fra tanti altri che vanno in pizzeria dopo esser stati al supermercato. Non c’è più la portiera, ma c’è una simpatica amica lavoratrice immigrata che, anche lei, dispensa consigli, ovviamente diversi da quelli che la portiera dà ad Antonietta. La presenza dei lavoratori immigrati data con realismo questa storia degli anni 2000,così come le divise indossate dalla popolazione civile costituiscono l’elemento di più immediata identificazione epocale di Una giornata particolare . Le musiche, anche qui scelte in maniera appropriata ed elemento reale dell’azione identificano i periodi storici , mentre l’ultima canzone,Gocce di memoria,è l’espressione del monologo interno che la protagonista rivolge all’anziano Davide ormai morto. Questo monologo, che nel suo sviluppo e nel senso ricorda molto da vicino un passo da ‘Una donna’ di Sibilla Aleramo (1) , è l’elemento veramente nuovo presente in La finestra di fronte costituendone l’esito,in questo caso il superamento della condizione che faceva di Giovanna una vittima . Prendere coscienza di sé e avviarsi ,sia pure a piccoli passi ,verso una autorealizzazione le fa assumere atteggiamenti relazionali diversi e fa emergere un mondo di sentimenti che sembrava non aver spazio nella sua vita.
nota 1:
Per un opportuno raffronto si trascrivono i due testi:
‘…all’improvviso sento i tuoi gesti nei miei,ti riconosco nelle mie parole .Tutti quelli che se ne vanno ci lasciano sempre addosso un po’ di sé .E’questo il segreto della memoria?se è così,allora,mi sento più sicura. Perché so che non sarò mai sola.’(La finestra di fronte)
‘Le ore passate accanto alle spoglie di chi amammo non ci fanno veggenti;ma neppure ci prostrano,né ci tolgono il senso dell’esistenza che in noi continua .Sembra in quel punto di ereditare,coi doveri,anche le qualità di chi ci ha lasciati;ci si trova più ricchi,o di energia o di idealità o di amore. Ci si sente solidali coi vivi oltre che coi morti.’ S.Aleramo,Una donna.
Cit. da: Feltrinelli 2003,pp.135-136.
Pubblicato in: Carte di Cinema,n.15,p.60-61
Due finestre, due donne, una storia.
di Angela Cingottini
Il film di Ferzan Ozpetek ci riconduce a quello di Scola nella scelta di alcune tematiche fondamentali, ma sono soprattutto le scene in cui la macchina da presa indugia sui grandi condomini romani, sui cortili interni e, naturalmente ,sulle finestre che si aprono verso altre finestre ed esistenze, a dare l’input ai paralleli più immediati, appunto quelli di ordine scenico e,comunque, visivo.
Osserviamo ora però ,più da vicino, le tematiche . A trent’anni di distanza Ozpetek comincia il suo film là dove Scola lo ha finito. Ancora la Roma del nazifascismo: in Scola la collaborazione Mussolini -Hitler è agli inizi, in Ozpetek il fascismo è già fuorilegge e i nazisti imperversano su Roma con retate in tutte le direzioni. Nel primo film è Gabriele, colpevole di essere diverso,’ né marito, né padre,né soldato’ la vittima più diretta .Prelevato di notte da casa verrà, nella migliore delle ipotesi,mandato al confino. In Ozpetek il protagonista eredita la colpa di Gabriele e in più è anche ebreo Ma qui Davide, la vittima, sembra riscattarsi. Lo rivediamo anziano, la figura rispettabile,una buona posizione economica. Apprendiamo che ha avuto onorificenze per aver salvato molte persone dalle retate naziste,ma in realtà lui stesso ammette il suo fallimento perché, per rendere se stesso e la sua diversità accettabile agli altri ,non ha salvato per tempo la persona che amava,perdendola per sempre.
Un’analisi attenta necessitano le protagoniste femminili dei due film :entrambe a proprio modo vittime più o meno consapevoli delle loro situazioni famigliari .Dalle rispettive finestre tutte e due vedono, attraverso la finestra dell’appartamento di fronte ,un diverso modo di vivere ed una possibilità di evasione dalla propria condizione .Per Antonietta questo avviene per gradi e solo al termine di una giornata trascorsa insieme a Gabriele riconosce e ammette la sua insoddisfazione, mettendo in discussione tutta la sicurezza di madre,moglie e buona fascista ostentata fino a quel momento. Il segreto del rapporto nuovo con Gabriele le dà forza per cominciare a ritagliarsi uno spazio di esistenza veramente suo – sedersi in cucina a leggere un libro quando il marito è già andato a letto - . Ma dalla finestra Antonietta assiste anche al prelevamento di Gabriele dal suo appartamento e questo fatto determina la fine del suo tentativo di emancipazione:il libro da poco iniziato viene chiuso e riposto nella credenza, Antonietta se ne va stancamente a letto . Anche Giovanna,nel film di Ozpetek , ha sulle spalle una situazione pesante:non solo il ménage casalingo, ma anche il mantenimento della famiglia dipende in massima parte dal suo lavoro. Un lavoro che,oltretutto,non le piace. Ma non sembra avere altra scelta .Anche per lei,come per Antonietta,l’occasione al riscatto viene dall’inquilino dell’appartamento di fronte,ma mentre Antonietta ha bisogno delle sollecitazioni di Gabriele per arrivare a mettere in discussione la sua realtà , avendone avvertito tutta insieme la pesantezza e l’ingiustizia, Giovanna sente già distintamente di avere diritto ad una esistenza diversa . Una conoscenza incidentale,una giornata trascorsa insieme a Lorenzo in una sorta di indagine alla ricerca del presente e del passato di Davide, crea una complicità che sta per convincerla a iniziare un’altra vita partendo con Lorenzo. Non averlo fatto sembra un’altra sconfitta,ma è in realtà un inizio per la presa di coscienza di sé e per il riscatto:Giovanna lascia il lavoro sicuro, che non le piace e va come apprendista in una pasticceria iniziando così veramente un processo verso quella emancipazione che non potrà venirle né dall’indipendenza economica , né dal cambio di partner,ma solo dalla realizzazione di se stessa e dallo sviluppo delle proprie capacità..
Gli esiti diversi delle vicende che accomunano le due donne sono da ricondursi al realismo con cui entrambi i registi affrontano e propongono le due storie: sia Antonietta che Giovanna sono figlie e, contemporaneamente , emblemi del proprio tempo .Lo schema delle loro storie è quello comune a tantissime altre donne e sono semmai proprio gli esiti a farle apparire diverse, ognuna con una sua sorta di eroicità , ognuna vissuta all’interno della propria epoca.
Osserviamo da ultimo proprio l’affresco epocale in cui si muovono le due protagoniste: per Antonietta è la Roma delle parate fasciste e una gran massa di persone che si sposta tra il grande condominio e via dei Fori Imperiali , una famiglia numerosa, la portiera che sa tutto di tutti e che dispensa consigli comportamentali .La radio a tutto volume che trasmette la cronaca della sfilata e musiche di regime, impedendo l’ascolto di qualsiasi altro tipo di musica, è contemporaneamente realtà e metafora. Anche per Giovanna c’è un grande condominio di Roma; al posto delle sfilate fasciste il lavoro nella polleria industriale, la corsa al supermercato il fine settimana e la cena in pizzeria la sera con marito e figli, fra tanti altri che vanno in pizzeria dopo esser stati al supermercato. Non c’è più la portiera, ma c’è una simpatica amica lavoratrice immigrata che, anche lei, dispensa consigli, ovviamente diversi da quelli che la portiera dà ad Antonietta. La presenza dei lavoratori immigrati data con realismo questa storia degli anni 2000,così come le divise indossate dalla popolazione civile costituiscono l’elemento di più immediata identificazione epocale di Una giornata particolare . Le musiche, anche qui scelte in maniera appropriata ed elemento reale dell’azione identificano i periodi storici , mentre l’ultima canzone,Gocce di memoria,è l’espressione del monologo interno che la protagonista rivolge all’anziano Davide ormai morto. Questo monologo, che nel suo sviluppo e nel senso ricorda molto da vicino un passo da ‘Una donna’ di Sibilla Aleramo (1) , è l’elemento veramente nuovo presente in La finestra di fronte costituendone l’esito,in questo caso il superamento della condizione che faceva di Giovanna una vittima . Prendere coscienza di sé e avviarsi ,sia pure a piccoli passi ,verso una autorealizzazione le fa assumere atteggiamenti relazionali diversi e fa emergere un mondo di sentimenti che sembrava non aver spazio nella sua vita.
nota 1:
Per un opportuno raffronto si trascrivono i due testi:
‘…all’improvviso sento i tuoi gesti nei miei,ti riconosco nelle mie parole .Tutti quelli che se ne vanno ci lasciano sempre addosso un po’ di sé .E’questo il segreto della memoria?se è così,allora,mi sento più sicura. Perché so che non sarò mai sola.’(La finestra di fronte)
‘Le ore passate accanto alle spoglie di chi amammo non ci fanno veggenti;ma neppure ci prostrano,né ci tolgono il senso dell’esistenza che in noi continua .Sembra in quel punto di ereditare,coi doveri,anche le qualità di chi ci ha lasciati;ci si trova più ricchi,o di energia o di idealità o di amore. Ci si sente solidali coi vivi oltre che coi morti.’ S.Aleramo,Una donna.
Cit. da: Feltrinelli 2003,pp.135-136.
Pubblicato in: Carte di Cinema,n.15,p.60-61
domenica 28 dicembre 2008
MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna 27 novembre 2008 – 15 gennaio 2009
Collezioni mai viste. Sette autori per scoprire le facce in ombra delle collezioni del MAMbo
A cura di Maurizio Giuffredi, Fabio Fornasari, Fernando Torrente – Associazione 0gKcon Uliana Zanetti
MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna
MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna
27 novembre 2008 – 15 gennaio 2009
Il MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna presenterà, dal 27 novembre 2008 al 15 gennaio 2009, un ciclo di sette serate-incontro che sonderanno quegli aspetti degli ambienti e delle collezioni del MAMbo percepibili anche senza l’uso della vista.
Il progetto, intitolato “Collezioni mai viste” e curato da Maurizio Giuffredi, Fabio Fornasari, e Fernando Torrente dell’Associazione 0gK, si avvale della partecipazione di sette autori, uno per ciascuna serata, provenienti da diversi ambiti creativi, che proporranno interventi appositamente ideati o rielaborati per l’occasione: Stefano Bartezzaghi, Ugo Cornia, Ottonella Mocellin/Nicola Pellegrini, Paolo Nori, Salvatore Sciarrino/Lost Cloud Quartet, Giacomo Verde.
Il progetto, di natura sperimentale, intende dilatare e diversificare le possibilità di accesso al museo, esplorando ambiti inventivi e discorsivi comuni a vedenti e non vedenti.
Il progetto, intitolato “Collezioni mai viste” e curato da Maurizio Giuffredi, Fabio Fornasari, e Fernando Torrente dell’Associazione 0gK, si avvale della partecipazione di sette autori, uno per ciascuna serata, provenienti da diversi ambiti creativi, che proporranno interventi appositamente ideati o rielaborati per l’occasione: Stefano Bartezzaghi, Ugo Cornia, Ottonella Mocellin/Nicola Pellegrini, Paolo Nori, Salvatore Sciarrino/Lost Cloud Quartet, Giacomo Verde.
Il progetto, di natura sperimentale, intende dilatare e diversificare le possibilità di accesso al museo, esplorando ambiti inventivi e discorsivi comuni a vedenti e non vedenti.
Questi incontri permetteranno di concentrare l’attenzione sul lato non-visivo dell’arte, che dalle avanguardie a oggi ha assunto un’importanza sempre maggiore e che, talvolta, si manifesta in modo del tutto autonomo.
Lo sviluppo di una specifica abilità, allo stesso tempo corporea e mentale, che alcune opere richiedono, permette di ritrovare un sapere e un sentire che hanno fatto parte del nostro passato più lontano e che il primato pervasivo di una vista intesa come strumento unico di conoscenza ci ha portato a smarrire.
Quell’abilità che talvolta l’opera richiede è attivabile da ogni non vedente, il quale tuttavia crede, come gli hanno insegnato, di non poter entrare nei musei perché l’arte è solo visiva o, tuttalpiù, tattile.
In modo complementare un vedente pensa che l’unico modo di vedere sia percepire con gli occhi. Tra questi due estremi c’è un terreno comune, da esplorare attraverso una rinuncia a quell’abitudinarietà che porta a percepire le cose secondo modalità stereotipe. Un terreno in cui, passando attraverso le opere e l’ambiente che le ospita, sono possibili frequentazioni, incontri, scambi di sapere, costruzioni di nuove abilità.
sabato 27 dicembre 2008
venerdì 26 dicembre 2008
Masterclass Arturo Tallini 9 gennaio 2009 Roma
dal 9 Gennaio prima delle masterclass di Arturo Tallini "Fuori dai Canoni"
- 1. Il prudente modernismo: Il repertorio segoviano,
per informazioni
http://www.artsacademy.it/
Download programma
ORCHESTRA DI CHITARRE DE FALLA
prossimi concerti della
ORCHESTRA DI CHITARRE DE FALLA
direttore M° Pasquale Scarola
solista Gabriele Ceci ( violino )
musiche di: Vivaldi - Paganini - Strauss - Pereira - Bellinati - Scarola
Venerdì 2 Gennaio '09 ore 20.30 "
Auditorium AMGAS " Comune di Foggia
info:0881.776408
Martedì 6 Gennaio '09, ore 20.00 " Auditorium Comunale " Comune di CANOSA
info: 0883.610207
giovedì 25 dicembre 2008
mercoledì 24 dicembre 2008
Ravi Shankar: ragas and talas parte terza di Empedocle70
Di quel periodo Shankar conserva un ricordo assai poco mitico e al di là dell'effimera piacevolezza della fama raggiunta ammette di essere andato a vicino a perdere la testa, cosa che non è avvenuta soltanto grazie alla già considerevole esperienza di vita e professionale maturata negli anni Cinquanta in Europa. I giudizi sui "colleghi" dell'epoca dimostrano l'appartenenza a una cultura e a una spiritualità che, per quanto la si voglia rendere vicina, non è comunque la nostra.
Uno per tutti valga il parere su jimi Hendrix: «Ha un talento straordinario, ma non apprezzo quei gesti osceni che fa in coppia con la sua chitarra, il fatto di darle fuoco alla fine del concerto dopo averla cosparsa di benzina. Mi è sembrato di vivere un incubo, sono rimasto profondamente colpito. Per me lo strumento con cui suono ha qualcosa di sacro, non potrei mai fare cose simili».
Shankar comprende ben presto che quel perverso intreccio tra ingenuità e spontaneità giovanile e interesse del “sistema” a tradurlo in dollaroni non poteva che condurre a una rapida fine di quell'esperienza. Consapevolmente sceglie allora di rinunciare ai concerti per oltre un anno e mezzo, si licenzia dal mondo del rock proprio mentre è all'apice della celebrità e torna a immergersi, con atto purificatorio, nella tradizione.
Non si tratta però, contro ogni aspettativa logica, di una chiusura del cerchio. La giovinezza e il periodo in cui è avvenuta la formazione umana e artistica di Shankar non sono state a senso unico e immediatamente sulla “retta via” come la sua immagine odierna può far pensare. Quando nasce a
Benares nel 1920, Robindra (questo il suo vero nome) è il più giovane di cinque fratelli e complice l'assenza colpevole del padre, che è piuttosto benestante ma non si occupa della famiglia, cresce non proprio nell'oro. Uday il fratello più anziano ha però un talento spiccato per la danza e si trasferisce ben presto in Europa, dove sviluppa uno stile personale e mette in piedi un corpo di ballo indiano che si esibisce con regolarità anche in America: per i tempi una vera attrazione esotica con tanto di strumenti "bizzarri" d'accompagnamento, come vengono allora definiti dal pubblico occidentale il sitar, il sarod, le tabla e quant'altro. Nel 1930 l'intera famiglia Shankar si trasferisce perciò a Parigi, ai tempi capitale artistica del mondo, con un viaggio in battello che tocca prima Brindisi e poi Venezia. Il giovanissimo Ravi entra a far parte nella troupe del fratello in qualità di ballerino e musicista, e si trova a viaggiare con regolarità al di qua e al di là dell'Atlantico. Sarà per la prima volta a New York nel 1932 dove ascolta Cab Calloway al Cotton Club. Ravi cresce in fretta e, oltre ad appassionarsi alle tradizioni artistiche della sua terra per il tramite di Uday, non ha difficoltà ad apprezzare le piacevolezze della bella vita mondana all'occidentale, tra un albergo a cinque stelle e l'altro. Una inarrestabile e inevitabile frenesia lo pervade durante tutta la sua fasce adolescenziale sino a quando, toccato dalle parole e dalla figura di Baba Allauddin Khan, non decide di mettersi nelle sue mani. Baba, figura quasi leggendaria della musica indiana, è un polistrumentista e un didatta di indubbio valore che nel 1935 si era unito per un anno alla compagnia di danza di Uday. Ma è anche un guru, e a lui il diciottenne Shankax decide di affidarsi per sette lunghi anni, a partire dal suo ritorno in India nel 1938. Un training durissimo e ascetico, al limite del fanatismo, che il tirannico Baba, morto ultracentenario nel 1972 e padre dei più volte citato Ali Akbar Khan, non fa nulla per alleviare. Ma Ravi lo ringrazìerà per sempre, per avergli ridonato in un certo senso la vita e reso chiara la via da percorrere.
Nella scuola di Baba a Mahiar, nell'India centrale, Ravi impara soprattutto che non si deve fare musìca per divertimento o per guadagno, bensì in quanto formidabile strumento di devozione e di conoscenza interiore, e un bravo musicista non è chi arriva a stupire il pubblico con il suo virtuosismo ma chi riesce a essere tutt'uno con il raga che sta eseguendo. Si tratta della continua ricerca di un’estasi perfetta che in realtà non si riesce mai a raggiungere ma che dev'essere lo scopo da perseguire se si vuole verosimilmente comprendere lo spirito della musica.
Dopo essersi forgiato al gharana di Baba, negli anni Quaranta Shankar si produce in concerti radiofonici, lavora insieme a compagnie teatrali di Bombay, compone musica per balletti. Poi nel 1949 si trasferisce a Nuova Delhi dove assume l'incarico di direttore musicale di All India Radio e compie nuove esperienze con una sorta di orchestra nazionale. In seguito ha modo di collaborare con il regista Satyajit Ray per il quale scrive e dirige varie colonne sonore, a cominciare da quella, composta in una notte davanti alle immagini che scorrevano, per il capolavoro Patber Panchali (1955), primo film indiano a raggiungere con successo le sale occidentali. Il rapporto con il cinema darà ancora frutti interessanti negli anni a venire, basti pensare alla sua partecipazione alle musiche di Chappaqua (1966) di Corirad Rooks, di I due mondi di Cbarly (1968) di Ralph Nelson, di Gandhi (1982) di Richard Attenborough e per quella piccola gemma del cinema d'animazione che è A Chairy Tale (1956) dei canadese Norman McLaren.
Il Shankar di oggi, come detto all'inizio, non pare aver intenzione di gettare la spugna, e più che godersi la pensione e guardare sonnacchioso all'orizzonte si preoccupa di allevare altre generazioni di artisti. Nel 2002 è infatti sorta a Delhi la Shankar Foundation, ospitata in un accogliente e ampio edificio, un po' archivio un po' centro di ricerca per accogliere studenti da allevare secondo i crismi della tradizione musicale indiana. Non è la prima volta che Shankar si preoccupa di restituire quello che ha ricevuto nella sua fortunata e non comune esistenza (nel 1962 aveva aperto la Kinnara Music School a Bombay, replicata a Los Angeles cinque anni dopo), ma in questa sua tenacia di continuare a dare e ricevere sino a quando i suoi dei glielo consentiranno non si può fare a meno di ammirare la profonda umanità e spiritualità di un artista che ha segnato profondamente le vicende della musica del Novecento al di là di qualsivoglia barriera stilistica.
Empedocle70
Cd consigliati:
- Ravi Shankar in Venice, Edelweiss 1991
- Ragas & Talas, Angel 1964
- LIVE: Ravi Shankar at the Monterey International Pop Festival, Angel 1967
Uno per tutti valga il parere su jimi Hendrix: «Ha un talento straordinario, ma non apprezzo quei gesti osceni che fa in coppia con la sua chitarra, il fatto di darle fuoco alla fine del concerto dopo averla cosparsa di benzina. Mi è sembrato di vivere un incubo, sono rimasto profondamente colpito. Per me lo strumento con cui suono ha qualcosa di sacro, non potrei mai fare cose simili».
Shankar comprende ben presto che quel perverso intreccio tra ingenuità e spontaneità giovanile e interesse del “sistema” a tradurlo in dollaroni non poteva che condurre a una rapida fine di quell'esperienza. Consapevolmente sceglie allora di rinunciare ai concerti per oltre un anno e mezzo, si licenzia dal mondo del rock proprio mentre è all'apice della celebrità e torna a immergersi, con atto purificatorio, nella tradizione.
Non si tratta però, contro ogni aspettativa logica, di una chiusura del cerchio. La giovinezza e il periodo in cui è avvenuta la formazione umana e artistica di Shankar non sono state a senso unico e immediatamente sulla “retta via” come la sua immagine odierna può far pensare. Quando nasce a
Benares nel 1920, Robindra (questo il suo vero nome) è il più giovane di cinque fratelli e complice l'assenza colpevole del padre, che è piuttosto benestante ma non si occupa della famiglia, cresce non proprio nell'oro. Uday il fratello più anziano ha però un talento spiccato per la danza e si trasferisce ben presto in Europa, dove sviluppa uno stile personale e mette in piedi un corpo di ballo indiano che si esibisce con regolarità anche in America: per i tempi una vera attrazione esotica con tanto di strumenti "bizzarri" d'accompagnamento, come vengono allora definiti dal pubblico occidentale il sitar, il sarod, le tabla e quant'altro. Nel 1930 l'intera famiglia Shankar si trasferisce perciò a Parigi, ai tempi capitale artistica del mondo, con un viaggio in battello che tocca prima Brindisi e poi Venezia. Il giovanissimo Ravi entra a far parte nella troupe del fratello in qualità di ballerino e musicista, e si trova a viaggiare con regolarità al di qua e al di là dell'Atlantico. Sarà per la prima volta a New York nel 1932 dove ascolta Cab Calloway al Cotton Club. Ravi cresce in fretta e, oltre ad appassionarsi alle tradizioni artistiche della sua terra per il tramite di Uday, non ha difficoltà ad apprezzare le piacevolezze della bella vita mondana all'occidentale, tra un albergo a cinque stelle e l'altro. Una inarrestabile e inevitabile frenesia lo pervade durante tutta la sua fasce adolescenziale sino a quando, toccato dalle parole e dalla figura di Baba Allauddin Khan, non decide di mettersi nelle sue mani. Baba, figura quasi leggendaria della musica indiana, è un polistrumentista e un didatta di indubbio valore che nel 1935 si era unito per un anno alla compagnia di danza di Uday. Ma è anche un guru, e a lui il diciottenne Shankax decide di affidarsi per sette lunghi anni, a partire dal suo ritorno in India nel 1938. Un training durissimo e ascetico, al limite del fanatismo, che il tirannico Baba, morto ultracentenario nel 1972 e padre dei più volte citato Ali Akbar Khan, non fa nulla per alleviare. Ma Ravi lo ringrazìerà per sempre, per avergli ridonato in un certo senso la vita e reso chiara la via da percorrere.
Nella scuola di Baba a Mahiar, nell'India centrale, Ravi impara soprattutto che non si deve fare musìca per divertimento o per guadagno, bensì in quanto formidabile strumento di devozione e di conoscenza interiore, e un bravo musicista non è chi arriva a stupire il pubblico con il suo virtuosismo ma chi riesce a essere tutt'uno con il raga che sta eseguendo. Si tratta della continua ricerca di un’estasi perfetta che in realtà non si riesce mai a raggiungere ma che dev'essere lo scopo da perseguire se si vuole verosimilmente comprendere lo spirito della musica.
Dopo essersi forgiato al gharana di Baba, negli anni Quaranta Shankar si produce in concerti radiofonici, lavora insieme a compagnie teatrali di Bombay, compone musica per balletti. Poi nel 1949 si trasferisce a Nuova Delhi dove assume l'incarico di direttore musicale di All India Radio e compie nuove esperienze con una sorta di orchestra nazionale. In seguito ha modo di collaborare con il regista Satyajit Ray per il quale scrive e dirige varie colonne sonore, a cominciare da quella, composta in una notte davanti alle immagini che scorrevano, per il capolavoro Patber Panchali (1955), primo film indiano a raggiungere con successo le sale occidentali. Il rapporto con il cinema darà ancora frutti interessanti negli anni a venire, basti pensare alla sua partecipazione alle musiche di Chappaqua (1966) di Corirad Rooks, di I due mondi di Cbarly (1968) di Ralph Nelson, di Gandhi (1982) di Richard Attenborough e per quella piccola gemma del cinema d'animazione che è A Chairy Tale (1956) dei canadese Norman McLaren.
Il Shankar di oggi, come detto all'inizio, non pare aver intenzione di gettare la spugna, e più che godersi la pensione e guardare sonnacchioso all'orizzonte si preoccupa di allevare altre generazioni di artisti. Nel 2002 è infatti sorta a Delhi la Shankar Foundation, ospitata in un accogliente e ampio edificio, un po' archivio un po' centro di ricerca per accogliere studenti da allevare secondo i crismi della tradizione musicale indiana. Non è la prima volta che Shankar si preoccupa di restituire quello che ha ricevuto nella sua fortunata e non comune esistenza (nel 1962 aveva aperto la Kinnara Music School a Bombay, replicata a Los Angeles cinque anni dopo), ma in questa sua tenacia di continuare a dare e ricevere sino a quando i suoi dei glielo consentiranno non si può fare a meno di ammirare la profonda umanità e spiritualità di un artista che ha segnato profondamente le vicende della musica del Novecento al di là di qualsivoglia barriera stilistica.
Empedocle70
Cd consigliati:
- Ravi Shankar in Venice, Edelweiss 1991
- Ragas & Talas, Angel 1964
- LIVE: Ravi Shankar at the Monterey International Pop Festival, Angel 1967
martedì 23 dicembre 2008
Angelo Barricelli in concerto a Città della Pieve il 27 dicembre
Vi segnaliamo il concerto del Maestro e Direttore Artistico del Blog
Angelo Barricelli
a Città della Pieve
il 27 dicembre 2008
L'evento sarà ripreso dalle telecamere delle RAI RAdio Televisione Italiana
Ravi Shankar: ragas and talas parte seconda di Empedocle70
Il violinista Yéhudi Menuhin è probabilmente il primo artista di fama mondiale ad avvicinarsi a Shankar non in maniera superficiale e sulla spinta di un interesse che lo porta a mettersi in gioco su un piano paritario con le altre culture del mondo. Già nel 1952 Menuhin aveva avuto la possibilità di ascoltare in concerto Shankar a Nuova Delhi, ma alla coppia ci sarebbero voluti quattordici anni e il festival di Bath per poter far nascere l'occasione di prodursi in un duetto dal vivo. Un connubio segnato dai tre dischi di «West Meets East", un punto fermo nella storia dell'incrocio tra le culture, e foriero di altri incontri analoghi nei decenni successivi, dal Concertofor Sitar and Orchestra dei 1971 con André Previn ai Passages del 1990 con Philip Glass.
Però è stato l'avvicinamento al jazz il vero passo d'esordio, la prima collaborazione effettiva verificatasi tra Shankar e i musicisti occidentali. L’interesse in questo caso è reciproco e si spiega facilmente se si pensa alla grande importanza che l'improvvisazione riveste nella musica indiana. Shankar incontra dapprima il flautista Bud Shank, con il quale incide nel 1962 "Improvisations", poi il batterista Buddy Rich. Infine, dopo aver dato lezioni a Don Ellis, non può fare a meno di incrociare lo sguardo di John Coltrane. Shankar rimane assai colpito e turbato dal sassofonista, avverte il grido di dolore che fuoriesce dalle sue performance, si rende conto di avere di fronte un'anima inquieta e tormentata. John è in piena fase mistica, ha abbandonato le droghe, è divenuto vegetariano, si interessa di yoga, legge testi sacri indiani. A Shankar fa domande sulle scale dei raga, sul modo in cui gli esecutori indiani concepiscono l'improvvisazione. Nel 1967 pianificano di annullare tutti i loro impegni per sei settimane e di ritrovarsi a Los Angeles per approfondire la loro conoscenza e parlare di musica. Ma a quell'appuntamento Coltrane, che ha dato a suo figlio, anche lui brillante sassofonista, il nome Ravi, non giungerà mai. Shankar continuerà a ricordarlo e a descriverlo come un essere umile e gentile, rammaricandosi non poco per quell'incontro mancato che chissà a quali idee e innovazioni avrebbe potuto dar luogo.
Ravi Shankar & Yehudi Menuhin-Prabhati
Alla metà degli anni Sessanta il sitarista indiano si impone definitivamente all'attenzione del mondo della (contro)cultura occidentale: l’attenzione della beat generation e del flower power per le filosofie orientali e l'India in particolare contribuisce a rendere Shankar un’icona del movimento nel volgere di un lasso di tempo brevissimo. Fondamentalmente Shankar si ritrova a essere l'uomo giusto nel posto giusto in un'epoca assolutamente ricettiva verso il modello musical-esistenziale da lui veicolato. Egli in realtà non amava troppo e criticò spesso con parole dure il modo approssimativo con cui il suo paese veniva dipinto dalla cultura hippie, che fagocitava tantra, kamasutra, mantra, yoga, droghe e ammennicoli vari con disinvolta superficialitá (la propensione del periodo a considerare la droga come intimamente connessa alla cultura indiana lo mandava in bestia). Nel 1966 Shankar conosce George Harrison (che l'anno precedente aveva impiegato il sitar nella celeberrima Norwegian Wood giudicata da Shankar un brano «assolutamente spaventoso») a una riunione della Ayana Deva Angadi a Londra. E’ l’inizio di un’amicizia destinata a durare sino alla morte del chitarrista e nello stesso tempo l'avvio di una nuova era del pop. George che si stava appassionando alla filosofia e alla musica indiana, domanda a Shankar di istruirlo all'arte del sitar. Ravi è diretto come sempre e gli fa capire che non è esattamente come imparare a suonare la chitarra, e non basta avere un po’ di talento: Per il sitar ci vogliono anni e anni di disciplinata applicazione, l'esatto contrario di quell'approccio istintuale alla materia musicale che è la miglior caratteristica del rock.
In ogni caso quest'incontro segna il definitivo passaggio di Shankar allo status di star, testimoniato dalla sue esibizioni ai festival di Monterey (1967), Woodstock (1969) e al concerto per il Bangla Desh del 1971 organizzato dallo stesso Harrison con il contributo di Shankar, teatro anche di un gustoso episodio che rende bene l'idea approssimativa che i giovani occidentali, per quanto proprietari di una "coscienza allargata”, avevano all'epoca della musica indiana. Shankar e Ali Akbar Khan, che lo accompagnava nell'occasione, cercano l'accordatura dei loro rispettivi strumenti on stage prima di dare inizio all'esibizione. immancabile, al termine, scatta l'applauso entusiasta dei presenti. «Se apprezzate così tanto già l'accordatura spero vi piaccia ancora di più quando suoneremo» fu il commento tagliente di Ravi.
continua domani ....
Però è stato l'avvicinamento al jazz il vero passo d'esordio, la prima collaborazione effettiva verificatasi tra Shankar e i musicisti occidentali. L’interesse in questo caso è reciproco e si spiega facilmente se si pensa alla grande importanza che l'improvvisazione riveste nella musica indiana. Shankar incontra dapprima il flautista Bud Shank, con il quale incide nel 1962 "Improvisations", poi il batterista Buddy Rich. Infine, dopo aver dato lezioni a Don Ellis, non può fare a meno di incrociare lo sguardo di John Coltrane. Shankar rimane assai colpito e turbato dal sassofonista, avverte il grido di dolore che fuoriesce dalle sue performance, si rende conto di avere di fronte un'anima inquieta e tormentata. John è in piena fase mistica, ha abbandonato le droghe, è divenuto vegetariano, si interessa di yoga, legge testi sacri indiani. A Shankar fa domande sulle scale dei raga, sul modo in cui gli esecutori indiani concepiscono l'improvvisazione. Nel 1967 pianificano di annullare tutti i loro impegni per sei settimane e di ritrovarsi a Los Angeles per approfondire la loro conoscenza e parlare di musica. Ma a quell'appuntamento Coltrane, che ha dato a suo figlio, anche lui brillante sassofonista, il nome Ravi, non giungerà mai. Shankar continuerà a ricordarlo e a descriverlo come un essere umile e gentile, rammaricandosi non poco per quell'incontro mancato che chissà a quali idee e innovazioni avrebbe potuto dar luogo.
Ravi Shankar & Yehudi Menuhin-Prabhati
Alla metà degli anni Sessanta il sitarista indiano si impone definitivamente all'attenzione del mondo della (contro)cultura occidentale: l’attenzione della beat generation e del flower power per le filosofie orientali e l'India in particolare contribuisce a rendere Shankar un’icona del movimento nel volgere di un lasso di tempo brevissimo. Fondamentalmente Shankar si ritrova a essere l'uomo giusto nel posto giusto in un'epoca assolutamente ricettiva verso il modello musical-esistenziale da lui veicolato. Egli in realtà non amava troppo e criticò spesso con parole dure il modo approssimativo con cui il suo paese veniva dipinto dalla cultura hippie, che fagocitava tantra, kamasutra, mantra, yoga, droghe e ammennicoli vari con disinvolta superficialitá (la propensione del periodo a considerare la droga come intimamente connessa alla cultura indiana lo mandava in bestia). Nel 1966 Shankar conosce George Harrison (che l'anno precedente aveva impiegato il sitar nella celeberrima Norwegian Wood giudicata da Shankar un brano «assolutamente spaventoso») a una riunione della Ayana Deva Angadi a Londra. E’ l’inizio di un’amicizia destinata a durare sino alla morte del chitarrista e nello stesso tempo l'avvio di una nuova era del pop. George che si stava appassionando alla filosofia e alla musica indiana, domanda a Shankar di istruirlo all'arte del sitar. Ravi è diretto come sempre e gli fa capire che non è esattamente come imparare a suonare la chitarra, e non basta avere un po’ di talento: Per il sitar ci vogliono anni e anni di disciplinata applicazione, l'esatto contrario di quell'approccio istintuale alla materia musicale che è la miglior caratteristica del rock.
In ogni caso quest'incontro segna il definitivo passaggio di Shankar allo status di star, testimoniato dalla sue esibizioni ai festival di Monterey (1967), Woodstock (1969) e al concerto per il Bangla Desh del 1971 organizzato dallo stesso Harrison con il contributo di Shankar, teatro anche di un gustoso episodio che rende bene l'idea approssimativa che i giovani occidentali, per quanto proprietari di una "coscienza allargata”, avevano all'epoca della musica indiana. Shankar e Ali Akbar Khan, che lo accompagnava nell'occasione, cercano l'accordatura dei loro rispettivi strumenti on stage prima di dare inizio all'esibizione. immancabile, al termine, scatta l'applauso entusiasta dei presenti. «Se apprezzate così tanto già l'accordatura spero vi piaccia ancora di più quando suoneremo» fu il commento tagliente di Ravi.
continua domani ....
lunedì 22 dicembre 2008
Ravi Shankar: ragas and talas parte prima di Empedocle70
«Quando comincio a suonare un Raga, escludo tutto il mondo circostante e cerco di scavare nelle profondità del mio io. Dopo essermi isolato dall'esterno con controllo e concentrazione, varco la soglia del Raga con umiltà, rispetto e timore. Secondo me, un Raga è come un essere umano, ed è perciò necessario un lento processo per creare quell'intima unione tra musica e musicista.
Quando questa unione viene raggiunta, si creano una félicità ed un'estasi simili al momento supremo dell'atto d'amore o di adorazione".
"Nella musica classica indiana la parola 'composizione' ha un significato assai diverso da quella europea. Noi suoniamo con un vecchio sistema tradizionale. La forma melodica, il Raga, è una forma precisa, scientifica, sottile ed estetica. Esistono migliaia di Rágas, ognuno strettamente connesso ad un particolare momento del giorno o ad una stagione dell'anno. La durata è variabile, può essere di 5 come di 50 minuti, non esistono restrizioni. Dipende dalla situazione ambientale e dall'umore che il musicista avverte tra il pubblico. Scelgo sempre il Rága adatto all'occasione, e così rispondo al luogo e alla gente che ho intorno.
Una volta fissate determinate regole l'artista nel Ràga ha una libertà totale. Dentro la struttura di base, Alap, Jod, Gat, si può improvvisare a piacere... Nessuna cosa al mondo è più precisa e profonda del Rága indiano, disciplinato come un computer. Riflettendo su questo, l'occidente potrà comprendere meglio la nostra musica".
Ravi Shankar ‑ Venezia, aprile 1991 dal booklet del cd Ravi Shankar in Venice, Edelweiss 1991
Siano benedetti gli appassionati di musica e di live recordings, specie quelli di matrice britannica! Qualche giorno fa al ritorno dal lavoro ho trovato un prezioso pacchetto nella buca delle lettere con all’interno tre registrazioni live di Shankar, due delle quali dall’ultimo infinito tour del 2005 che, alla bella età di ottantacinque anni in compagnia della figlia Anoushka Shankar, anche lei al Sitar, Tanmoy Bose alle Tabla e Nick Abel e Peter McDonald alle Tambura, l’ha visto con entusiasmo giovanile e foga da rock band girare ogni angolo del mondo.
Anoushka Shankar - Concert for George (2003)
Da notare poi che non si era trattato di un tour d'addio alle scene, ma anzi di un altro increbibile atto di dedizione alla musica da parte di un artista che ancor oggi rimane un indispensabile punto di partenza per chiunque voglia penetrare i misteri della cultura musicale indostana, un’entità fondata sul raggiungimento di un perfetto equilibrio tra componenti fisiche, mentali, emotive e spirituali e con alla fine una morale interessante: l'influenza di Shankar è stata notevolmente più forte sulla musica occidentale che non sullo sviluppo della tradizione del suo paese. Quattro nomi celebri, Philp Glass, John Fahey, John Coltrane e George Harrison, sono la conferma palese dei fascino che Shankar ha saputo esercitare sul loro modo di intendere sia la vita sia l'universo dei suoni. Ma l'aver saputo incidere su personaggi così dissimili, ciascuno di essi principe di un genere musicale considerati, almeno sino agli anni Sessanta, agli antipodi tra loro come il minimalismo, l’avant folk, il jazz e il rock non può essere un semplice caso fortuito e conferma la personalità magnetica di Shankar e la sua visione musicale cosmopolita e aperta, elementi decisivi per la sua affermazione sulle scene internazionali. I critici e i musicologi indiani, in fondo gli unici a poter esprimere un giudizio compiuto e inappellabile sulle sue qualità artistiche, sono sempre stati unanimi nel ritenerlo sì un ottimo sitarista ma non il migliore in assoluto, titolo da suddividersi equamente tra gli scomparsi Vilayat Khan e Nikhil Banerjee, i quali hanno saputo introdurre innovazioni sia sul piano formale e stilistico sia nella meccanica stessa del sitar. Di Shankar, al contrario, si sottolinea piuttosto il purismo e l'ortodossia nell'approccio allo strumento, controbilanciato peraltro da un'innegabile tendenza a sperimentare nuove forme compositive (diversi raga oggi considerati dei classici sono di sua creazione). E saranno proprio queste ultime ad attirare in misura maggiore i musicisti occidentali dei più diversi ambiti, dando a Shankar l’investitura ufficiale di ambasciatore internazionale della musica indostana sin dagli anni Cinquanta, a partire da un tour sovietico del 1954 patrocinato da una missione culturale dello Stato indiano. L’anno seguente ha la possibilità di tenere concerti negli Usa ma inspiegabilmente vi rinuncia e il suo posto viene preso dal virtuoso di sarod Ali Akbar Khan che si esibisce a New York e in programmi televisivi oltre a registrare per la Emi. Pur non esistendo alcuna forma di rivalità tra i due, come testimonieranno in seguito molteplici prove discografiche comuni, Shankar si accorge presto dell'errore. Vi pone rimedio alla fine del 1956 allorché, in perfetta solitudine, intraprende un giro di concerti in Europa e America che suscitano forte interesse nel pubblico, come altrettanto riscuotono i suoi primi lp incisi nel 1957, il preludio a una carriera da front man che lo porterà d'ora in poi a girovagare senza sosta per il pianeta nei decenni a venire, anche se il legame con la propria terra non verrà mai meno e sarà continuamente riallacciato.
continua domani ....
Quando questa unione viene raggiunta, si creano una félicità ed un'estasi simili al momento supremo dell'atto d'amore o di adorazione".
"Nella musica classica indiana la parola 'composizione' ha un significato assai diverso da quella europea. Noi suoniamo con un vecchio sistema tradizionale. La forma melodica, il Raga, è una forma precisa, scientifica, sottile ed estetica. Esistono migliaia di Rágas, ognuno strettamente connesso ad un particolare momento del giorno o ad una stagione dell'anno. La durata è variabile, può essere di 5 come di 50 minuti, non esistono restrizioni. Dipende dalla situazione ambientale e dall'umore che il musicista avverte tra il pubblico. Scelgo sempre il Rága adatto all'occasione, e così rispondo al luogo e alla gente che ho intorno.
Una volta fissate determinate regole l'artista nel Ràga ha una libertà totale. Dentro la struttura di base, Alap, Jod, Gat, si può improvvisare a piacere... Nessuna cosa al mondo è più precisa e profonda del Rága indiano, disciplinato come un computer. Riflettendo su questo, l'occidente potrà comprendere meglio la nostra musica".
Ravi Shankar ‑ Venezia, aprile 1991 dal booklet del cd Ravi Shankar in Venice, Edelweiss 1991
Siano benedetti gli appassionati di musica e di live recordings, specie quelli di matrice britannica! Qualche giorno fa al ritorno dal lavoro ho trovato un prezioso pacchetto nella buca delle lettere con all’interno tre registrazioni live di Shankar, due delle quali dall’ultimo infinito tour del 2005 che, alla bella età di ottantacinque anni in compagnia della figlia Anoushka Shankar, anche lei al Sitar, Tanmoy Bose alle Tabla e Nick Abel e Peter McDonald alle Tambura, l’ha visto con entusiasmo giovanile e foga da rock band girare ogni angolo del mondo.
Anoushka Shankar - Concert for George (2003)
Da notare poi che non si era trattato di un tour d'addio alle scene, ma anzi di un altro increbibile atto di dedizione alla musica da parte di un artista che ancor oggi rimane un indispensabile punto di partenza per chiunque voglia penetrare i misteri della cultura musicale indostana, un’entità fondata sul raggiungimento di un perfetto equilibrio tra componenti fisiche, mentali, emotive e spirituali e con alla fine una morale interessante: l'influenza di Shankar è stata notevolmente più forte sulla musica occidentale che non sullo sviluppo della tradizione del suo paese. Quattro nomi celebri, Philp Glass, John Fahey, John Coltrane e George Harrison, sono la conferma palese dei fascino che Shankar ha saputo esercitare sul loro modo di intendere sia la vita sia l'universo dei suoni. Ma l'aver saputo incidere su personaggi così dissimili, ciascuno di essi principe di un genere musicale considerati, almeno sino agli anni Sessanta, agli antipodi tra loro come il minimalismo, l’avant folk, il jazz e il rock non può essere un semplice caso fortuito e conferma la personalità magnetica di Shankar e la sua visione musicale cosmopolita e aperta, elementi decisivi per la sua affermazione sulle scene internazionali. I critici e i musicologi indiani, in fondo gli unici a poter esprimere un giudizio compiuto e inappellabile sulle sue qualità artistiche, sono sempre stati unanimi nel ritenerlo sì un ottimo sitarista ma non il migliore in assoluto, titolo da suddividersi equamente tra gli scomparsi Vilayat Khan e Nikhil Banerjee, i quali hanno saputo introdurre innovazioni sia sul piano formale e stilistico sia nella meccanica stessa del sitar. Di Shankar, al contrario, si sottolinea piuttosto il purismo e l'ortodossia nell'approccio allo strumento, controbilanciato peraltro da un'innegabile tendenza a sperimentare nuove forme compositive (diversi raga oggi considerati dei classici sono di sua creazione). E saranno proprio queste ultime ad attirare in misura maggiore i musicisti occidentali dei più diversi ambiti, dando a Shankar l’investitura ufficiale di ambasciatore internazionale della musica indostana sin dagli anni Cinquanta, a partire da un tour sovietico del 1954 patrocinato da una missione culturale dello Stato indiano. L’anno seguente ha la possibilità di tenere concerti negli Usa ma inspiegabilmente vi rinuncia e il suo posto viene preso dal virtuoso di sarod Ali Akbar Khan che si esibisce a New York e in programmi televisivi oltre a registrare per la Emi. Pur non esistendo alcuna forma di rivalità tra i due, come testimonieranno in seguito molteplici prove discografiche comuni, Shankar si accorge presto dell'errore. Vi pone rimedio alla fine del 1956 allorché, in perfetta solitudine, intraprende un giro di concerti in Europa e America che suscitano forte interesse nel pubblico, come altrettanto riscuotono i suoi primi lp incisi nel 1957, il preludio a una carriera da front man che lo porterà d'ora in poi a girovagare senza sosta per il pianeta nei decenni a venire, anche se il legame con la propria terra non verrà mai meno e sarà continuamente riallacciato.
continua domani ....
domenica 21 dicembre 2008
Video: Giulio Tampalini
A. PIAZZOLLA: DOUBLE CONCERTO (1) Tampalini - Marini
A. PIAZZOLLA: DOUBLE CONCERTO (2) Tampalini - Marini
GIULIO TAMPALINI - Capriccio diabolico (Castelnuovo Tedesco) Turin - Italy
GIULIO TAMPALINI - G. Regondi "Air varié de l'opera de Bellini I Capuleti e i Montecchi"
A. PIAZZOLLA: DOUBLE CONCERTO (2) Tampalini - Marini
GIULIO TAMPALINI - Capriccio diabolico (Castelnuovo Tedesco) Turin - Italy
GIULIO TAMPALINI - G. Regondi "Air varié de l'opera de Bellini I Capuleti e i Montecchi"
sabato 20 dicembre 2008
venerdì 19 dicembre 2008
Frippertronics di Empedocle70 parte 2
Nella multidirezionalità che lo contraddistingue, quello che poi ha reso archetipicamente frìppiana la tecnica è il timbro della chitarra. In questo senso Frippertronics è un modo di suonare, un tipo di suono un timbro di chitarra, una strategia: il suono si reintegra, carica un drone al cui interno scintillano particelle, arriva all'esplosione, poi quando al musica si ferma, si rimane soli e salvi con la vibrazione del nostro timpano, a risuonare, lentamente.
”Tra l'aprile e l'agosto del 1979 ho affrontato una piccola tournée, mobile e spero intelligente in Europa e in Nord America, suonando di norma senza compenso in ristoranti, bar, uffici, negozi di dischi, piccoli cinematografi e centri o club. In genere introducevo uno di questi concerti frippertronici, improvvisati e assolutamente privi d'importanza, nel modo seguente. Le Frippertronics sono un tentativo di favorire il contatto umano nel luogo delle performance. Nel 1974 ho abbandonato i King Crimson per varie ragioni; dal punto di vista professionale, questo fatto era stato in gran parte risultato dalla sempre decrescente possibiltà di contatto tra pubblico e musicista. Ciò mi pareva causato da tre fattori principali: primo, la crescita dimensionale degli eventi rock; secondo, l'accettazione generale della musica rock come sport da parte degli spettatori; terzo, la relazione vampiresca tra pubblico e musicista. Tra gli altri scopi, le Frippertronics vogliono contraddire questi tre gradini in direzione dell'idiozia costruendo tre gradini di partecipazione a un mondo intelligente: primo, limitando le dimensione degli eventi a una scala tra 10 e 250 spettatori; secondo, invitando il pubblico a un ascolto attivo, che pone gli ascoltatori in posizione di uguale responsabilità rispetto al musicista; terzo, rinunciando ad essecondare le reciproche pretese, egocentrismi e presunzioni. In una situazione appropriata di ascolto attivo, abbandonando i tentavi di imprigionare l'evento su nastro o pellicola, esiste una buona possibilità che accada qualcosa di notevole.”
Video: Frippertronics
Empedocle70
”Tra l'aprile e l'agosto del 1979 ho affrontato una piccola tournée, mobile e spero intelligente in Europa e in Nord America, suonando di norma senza compenso in ristoranti, bar, uffici, negozi di dischi, piccoli cinematografi e centri o club. In genere introducevo uno di questi concerti frippertronici, improvvisati e assolutamente privi d'importanza, nel modo seguente. Le Frippertronics sono un tentativo di favorire il contatto umano nel luogo delle performance. Nel 1974 ho abbandonato i King Crimson per varie ragioni; dal punto di vista professionale, questo fatto era stato in gran parte risultato dalla sempre decrescente possibiltà di contatto tra pubblico e musicista. Ciò mi pareva causato da tre fattori principali: primo, la crescita dimensionale degli eventi rock; secondo, l'accettazione generale della musica rock come sport da parte degli spettatori; terzo, la relazione vampiresca tra pubblico e musicista. Tra gli altri scopi, le Frippertronics vogliono contraddire questi tre gradini in direzione dell'idiozia costruendo tre gradini di partecipazione a un mondo intelligente: primo, limitando le dimensione degli eventi a una scala tra 10 e 250 spettatori; secondo, invitando il pubblico a un ascolto attivo, che pone gli ascoltatori in posizione di uguale responsabilità rispetto al musicista; terzo, rinunciando ad essecondare le reciproche pretese, egocentrismi e presunzioni. In una situazione appropriata di ascolto attivo, abbandonando i tentavi di imprigionare l'evento su nastro o pellicola, esiste una buona possibilità che accada qualcosa di notevole.”
Video: Frippertronics
Empedocle70
giovedì 18 dicembre 2008
Frippertronics di Empedocle70 parte 1
Con Frippertronics si indica una tecnica di incisione che permette di produrre un tappeto sonoro a partire da una sola chitarra utilizzando ripetute sovraincisioni. Venne inventata da Brian Eno e Robert Fripp (da cui prende il nome) collegando tra loro due registratori a bobina Revox. Il suono prodotto dalla chitarra viene registrato sul primo registratore e inviato al secondo, dal secondo viene inviato nuovamente al primo in una specie di "ping-pong" sonoro in cui i suoni continuano a sovrapporsi e fondersi tra loro via via che il musicista suona. Un nastro che fluisce da un registratore a un altro, uno in playback l'altro in registrazione, e genera/contiene suoni , che si ripetono, si sovrappongono e mutano scomparendo gli uni negli altri: il risultato è un tappeto sonoro composto da note prolungate miste ad alcune appena accennate, spesso improvvisato e quindi sempre diverso.
Fripp parla di due Frippertronics “Ci sono due tipi di Frippertronics: pure e applicate. Le applicate si hanno quando sono usate assieme ad altri strumenti, come alternativa a orchestrazioni e arrangiamenti tradizionali, naturali o sintetizzati. Le pure si hanno quando sono usate per loro conto, e comprendono a loro volta due categorie: Frippertronics d'ambiente; nel senso dato da Brian Eno di musica che si può ignorare come ascoltare, e Frippertronics imperative, in cui la musica richiede attenzione perché la sua progressione sia convalidata.”
Alla fine dell'ascolto dei lavori in frippertronics si ha, infatti, la sensazione di contemplare un suono totale prodotto dall'overdubbing, dal neuro-accumulo di quanto è passato, nel corso dei tempo, attraverso le orecchie. L'impostazione di Fripp possiede una cultura delle differenze, fisiologicamente etica: la musica come apertura alla vita, come processo di generazione perpetua di onde sonore che si spargono nell'universo, e che possiede anche la disciplina, cosa assolutamente fuori moda e essenziale per capire e entrare nell’universo frìppiano. Un cosmo musicale, una filosofia dei suono‑logos che fa continuamente spazio a se stesso, che scompare come frequenza fisica stratificandosi, però, nella mente quale oggetto di meditazione: non è semplicemente un approccio stilistico o una metodologia compositiva, bensì un processo‑azione che genera musica. Che l'attività del chitarrista compositore rimanga vivace, ed esista, lo si può riscontrare con una visita al sito http://www.dgmlive.com/ ed una scorsa al ricchissimo archivio musicale di materiali inediti e di concerti nelle più svariate formazioni. Nel tempo i suoi Frippertronics si sono evoluti nei Soundscapes, definiti dallo stesso Fripp: «Le performance chiamate "Soundscape fanno parte di una serie che ha lo scopo di trovare nuovi modi in cui intelligenza e musica, definizione e scoperta, cortesia e reciprocità possano pervadere un' esibizione musicale da parte sia del musicista che dell' audience. Sono performance che continuano ad evolversi, a sorprendere, ad eccitare, ad educare . sono vere sin dal momente in cui vengono alla luce». Alla base di questo progetto è sempre l’ improvvisazione, Fripp genera con la sua chitarra delle strutture musicali improvvisate e fortemente governate dal tempo, dal luogo, dal pubblico e dalla risposta del performer a tutti questi elementi, prendendo la forma di lunghi pezzi meditativi costruiti tramite una graduale aggiunta di note, dalla durata variabile tra i dieci minuti e la mezz' ora.
Video: Robert Fripp - Frippertronics, Interview
Empedocle70
parte prima parte seconda
Fripp parla di due Frippertronics “Ci sono due tipi di Frippertronics: pure e applicate. Le applicate si hanno quando sono usate assieme ad altri strumenti, come alternativa a orchestrazioni e arrangiamenti tradizionali, naturali o sintetizzati. Le pure si hanno quando sono usate per loro conto, e comprendono a loro volta due categorie: Frippertronics d'ambiente; nel senso dato da Brian Eno di musica che si può ignorare come ascoltare, e Frippertronics imperative, in cui la musica richiede attenzione perché la sua progressione sia convalidata.”
Alla fine dell'ascolto dei lavori in frippertronics si ha, infatti, la sensazione di contemplare un suono totale prodotto dall'overdubbing, dal neuro-accumulo di quanto è passato, nel corso dei tempo, attraverso le orecchie. L'impostazione di Fripp possiede una cultura delle differenze, fisiologicamente etica: la musica come apertura alla vita, come processo di generazione perpetua di onde sonore che si spargono nell'universo, e che possiede anche la disciplina, cosa assolutamente fuori moda e essenziale per capire e entrare nell’universo frìppiano. Un cosmo musicale, una filosofia dei suono‑logos che fa continuamente spazio a se stesso, che scompare come frequenza fisica stratificandosi, però, nella mente quale oggetto di meditazione: non è semplicemente un approccio stilistico o una metodologia compositiva, bensì un processo‑azione che genera musica. Che l'attività del chitarrista compositore rimanga vivace, ed esista, lo si può riscontrare con una visita al sito http://www.dgmlive.com/ ed una scorsa al ricchissimo archivio musicale di materiali inediti e di concerti nelle più svariate formazioni. Nel tempo i suoi Frippertronics si sono evoluti nei Soundscapes, definiti dallo stesso Fripp: «Le performance chiamate "Soundscape fanno parte di una serie che ha lo scopo di trovare nuovi modi in cui intelligenza e musica, definizione e scoperta, cortesia e reciprocità possano pervadere un' esibizione musicale da parte sia del musicista che dell' audience. Sono performance che continuano ad evolversi, a sorprendere, ad eccitare, ad educare . sono vere sin dal momente in cui vengono alla luce». Alla base di questo progetto è sempre l’ improvvisazione, Fripp genera con la sua chitarra delle strutture musicali improvvisate e fortemente governate dal tempo, dal luogo, dal pubblico e dalla risposta del performer a tutti questi elementi, prendendo la forma di lunghi pezzi meditativi costruiti tramite una graduale aggiunta di note, dalla durata variabile tra i dieci minuti e la mezz' ora.
Video: Robert Fripp - Frippertronics, Interview
Empedocle70
parte prima parte seconda
martedì 16 dicembre 2008
Concerto balocco. Strani passatempi del Novecento di Girolamo De Simone parte seconda
Giochi automatici
L’invenzione dei primi carillon automatici risale al tredicesimo secolo; funzionavano grazie ad un rullo con cunei fissi o mobili. Il loro nome viene probabilmente dal latino ‘quatrinio’ perché pare avessero un meccanismo a quattro campanelle. Molte volte sono stati usati nella musica, ed una loro evoluzione ha propiziato l’invenzione di veri e propri strumenti musicali, come il pianoforte a rullo. L’altra evoluzione del carillon è stata ludica: furono creati automi, orologi, giocattoli meccanici capaci di suonare. Tra i più famosi automatismi giocherelloni c’è la pendola del pastore, costruita nel 1750 da Pierre Jacquet-Droz ed ora conservata al Palacio Nacional di Madrid. E’ uno dei tanti giocattoli usati per sorprendere con la musica. Così la descrive Piero Rattalino: In alto c’è un pastorello che suona il piffero... sotto il pastore due amorini sull’altalena; in basso, sotto il quadrante, un amorino con un uccello in mano, e una damina in atto di leggere un foglio di musica. Quando finiscono i rintocchi dell’ora, si sente suonare un carillon, mentre la damina si muove, battendo il tempo con la mano e inchinandosi; poi, l’uccello comincia a cantare... si mette quindi a suonare il pastorello, che soffia veramente nello strumento e muove le dita... a conclusione del tutto arriva un formidabile belato del montone. Oggi Keith Tippett usa il carillon nelle sue improvvisazioni. Lo colloca all’interno della cassa armonica del pianoforte, in modo tale che possa essere ripreso dai microfoni, ed interagire con le corde lasciate libere dagli smorzatori; il risultato è un gioco di armonici nel quale si mescola una melodia meccanica, in genere notissima, con altri suoni acuti, fuori contesto, che inventano improbabili contrappunti, e complicano la lettura verticale delle trame melodiche. Il carillon interagisce anche con la velocità dell’improvvisazione live: quando sta per scaricarsi rallenta inesorabilmente... Anche John Cage si è dedicato ai carillon, concependo tra il 1948 ed il 1967 un intero ciclo intitolato Music for Carillon nn. 1/5. Cage si è spesso rivolto a stratagemmi giocondi, come nella Suite per Toj Piano (1948), per pianoforte giocattolo, nella scia degli studi per pianoforte preparato, o come in Empty Mind, testo per un gioco d’ascolto. Un vero e proprio ‘mecanium’, concezione molto ardita ed originale, è stato inventato da Pierre Bastien, che utilizzando pezzi del meccano costruisce nuovi strumenti musicali e scrive per essi inediti pezzi. Bastien raggiunge risultati interessanti, una musica che fonde ascendenze africane, il jazz delle origini e la minimal, come avviene nel disco Musiques machinales (1993, Saxophon & musique innovatrices, 11, place Jean-Jaurès - F 42000 St. Etienne). Ultima filiazione della musica-giocattolo è forse quella prodotta su cd-rom. Qui spiccano Love e Digital Tragedy (1997) di Michael Nyman, scritte per il video game Enemy Zero, e pubblicate in versione cartacea da Music Sales. Brian Eno ha prestato giocattoli al gruppo dei Simian, che ne hanno fatto largo uso in un recentissimo acclamato disco intitolato We are your friends.
Giochi teatrali
Il più interessante teorico della necessità di mantenere un approccio giocoso al suono è il fiorentino Giuseppe Chiari, figura di spicco di Fluxus. Ha scritto Il Gioco (ora in “Musica Et Cetera”, Edizioni dell’Ortica, 1994), considerato un classico del genere, nel quale si legge: Qual è la forza del gioco? / La sua forza è l’isola. / Il gioco ignora dal momento in cui inizia il mondo intorno. / Per definizione. Per convenzione. / Si gioca. E basta. L’uso di giocattoli può realizzarsi, ad esempio, nel brano/happening di Chiari Teatrino per pianoforte e oggetti (realizzato da Frederic Rzwski a New York 1963, Firenze 1964, Koeln 1965, Berlino 1965). Giocattoli sonori sono usati da Giancarlo Cardini, ne La festa dei rumori, un antico esperimento, ed in altre composizioni. Il suo lavoro merita particolare attenzione: pianista extracolto e raffinato, interprete prediletto dai grandi autori dell’avanguardia sperimentalistica, come compositore si è sempre ritagliato uno spazio originale, fuori dalle mode del momento. I suoi lavori sono delicati e preziosi, come dimostra La stanza degli incanti per pianoforte, fiori, luci, oggetti e giocattoli sonori (1987). Nella didascalia del brano si legge: Stanza degli incanti e dei sogni. Stanza reale e stanza interiore. Spazio intimo, chiuso. Rituali fantastici, teneri e giocosi - con decorativi fogli colorati di carta velina appesi al pianoforte, biglie gettate dentro un bicchiere pieno d’acqua, un mazzo di fiori riflesso in uno specchio, girandole musicali... Nella musica: non-sviluppo, ripetitività, circolarità. Frammenti iterati senza sosta, quasi come formule magiche, o come il roteare di un caleidoscopio. Più orientato verso il teatro musicale, invece, è il brano Neo-Haiku Suite per pianoforte, fiori, luci, oggetti e due esecutori (per inciso i due esecutori storici, con tanto di kimono, sono stati lo stesso Cardini e Sylvano Bussotti). Numerose composizioni ed esecuzioni di Cardini sono pubblicate da Materiali Sonori di Firenze (http://www.matson.it/)
Giochi di repertorio
Il verbo ‘jouer’ in francese sta sia per ‘giocare’ che per ‘suonare uno strumento’, come del resto l’equivalente inglese “play”. Molti titoli sono ‘giocati’ sull’ambivalenza delle due azioni ‘suonare/giocare’, carattere ibrido che conferisce alla musica stessa un carattere ludico, e che assume via via i contorni di citazione, scherzo, gioco per gli occhi o ricamo canonico per divertire i bambini. Tenendo conto di questo doppio significato è possibile tentare una carrellata sulla produzione contemporanea. In area colta, una sequenza di ‘giochi’: Jeux de la nuit per ensemble strumentale (Edipan), Jeux de l’aube per violoncello e chitarra (edizioni Pcc-Assisi), Jeux du midi per clarinetto e quartetto d’archi (Edipan), Jeux des enfants selon Bruegel per chitarra, tutti scritti fra il 1985 e il 1987 da Fernando Sulpizi, compositore perugino d’adozione, erede della scuola di Vito Frazzi e autore anche di Ludus teatrali, di molta musica per bambini e di un pezzo che gioca con i nomi di note forme musicali, All’improvviso per divertimento uno scherzo. Un Play sax ha scritto Franco Balliana (Sonzogno); e quattro Playtime (alcuni pubblicati da Edipan) per differenti organici sono firmati dal compositore Fernando Mencherini, scomparso nel 1997, allievo di Walter Branchi e propugnatore della necessità di un nuovo rinascimento strumentale. Un Girotondo, per quartetto di chitarre, è di Giuseppe Zanaboni; un secondo Girotondo è quello di Bruno Zanolini, questa volta per coro infantile, pubblicato nel ricco catalogo della Suvini Zerboni. Un terzo Girotondo, in triplice versione, è l’opera in due atti di Fabio Vacchi, libera elaborazione di Roberto Roversi da Reigen di Schnitzler (Ricordi). E ancora: la forma del ‘divertimento’ è stata trattata da Ivan Fedele, in Divertimento (1981, Suvini Zerboni) e da Massimo Coen, Piera Pistono, Bruno Nicolai, Gianni Luporini, Mauro Bortolotti (Links, divertimento per archi) e numerosi altri compositori; Microdivertimenti per organico strumentale, di Aurelio Samorì; Pastorale e divertimento per pianoforte a quattro mani (1969) di Matilde Capuis (Curci), compositrice di origini napoletane particolarmente nota in Germania: il titolo però allude alla forma del brano più che ad un programma, cosa che accade anche per moltissimi ‘scherzi’, tra cui quello scritto nel 1984 da Giuseppe Manzino per organo a quattro mani. Franco Piva ha prodotto nel 1985 le Sonatine giocose concertanti per ensemble strumentale, eseguite tra l’altro alla New York University, e le Sonatine giocose che possono essere adattate al pianoforte, al clavicembalo o al fortepiano. Ha poi composto delle Variazioni giocose concertanti per quindici strumenti ed una tetralogia giocosa intitolata Novo Anphiparnaso. Tre giochi op 58 per flauto e chitarra sono del versatile ed acuto Dimitri Nicolau. E ancora: Puzzle sonore di Leo Kupper; Giochi di Miriam Quaquero; Players di Paolo Renosto; Solo Play di Frederic Rzewski; Gioco a cinque e Tempus Ludendi di Giancarlo Schiaffini; ‘a pazziella ‘mmano ‘e creature di Gianni Trovalusci; Trottola di Ruggero Laganà; Carillon de Vòtre Faust per cinque pianoforti preparati, di Daniele Lombardi; Organon, ad mensura ludendum et semplicitate di Roberto Lupi. Il tracciato si chiude, naturalmente, con The game is over di Marco Tutino.
Girolamo De Simone
Questo articolo è stato pubblicato sullo 'Speciale ultrasuoni su musica e giocattoli' n. 49, Il Manifesto del 14 dicembre 2002
L’invenzione dei primi carillon automatici risale al tredicesimo secolo; funzionavano grazie ad un rullo con cunei fissi o mobili. Il loro nome viene probabilmente dal latino ‘quatrinio’ perché pare avessero un meccanismo a quattro campanelle. Molte volte sono stati usati nella musica, ed una loro evoluzione ha propiziato l’invenzione di veri e propri strumenti musicali, come il pianoforte a rullo. L’altra evoluzione del carillon è stata ludica: furono creati automi, orologi, giocattoli meccanici capaci di suonare. Tra i più famosi automatismi giocherelloni c’è la pendola del pastore, costruita nel 1750 da Pierre Jacquet-Droz ed ora conservata al Palacio Nacional di Madrid. E’ uno dei tanti giocattoli usati per sorprendere con la musica. Così la descrive Piero Rattalino: In alto c’è un pastorello che suona il piffero... sotto il pastore due amorini sull’altalena; in basso, sotto il quadrante, un amorino con un uccello in mano, e una damina in atto di leggere un foglio di musica. Quando finiscono i rintocchi dell’ora, si sente suonare un carillon, mentre la damina si muove, battendo il tempo con la mano e inchinandosi; poi, l’uccello comincia a cantare... si mette quindi a suonare il pastorello, che soffia veramente nello strumento e muove le dita... a conclusione del tutto arriva un formidabile belato del montone. Oggi Keith Tippett usa il carillon nelle sue improvvisazioni. Lo colloca all’interno della cassa armonica del pianoforte, in modo tale che possa essere ripreso dai microfoni, ed interagire con le corde lasciate libere dagli smorzatori; il risultato è un gioco di armonici nel quale si mescola una melodia meccanica, in genere notissima, con altri suoni acuti, fuori contesto, che inventano improbabili contrappunti, e complicano la lettura verticale delle trame melodiche. Il carillon interagisce anche con la velocità dell’improvvisazione live: quando sta per scaricarsi rallenta inesorabilmente... Anche John Cage si è dedicato ai carillon, concependo tra il 1948 ed il 1967 un intero ciclo intitolato Music for Carillon nn. 1/5. Cage si è spesso rivolto a stratagemmi giocondi, come nella Suite per Toj Piano (1948), per pianoforte giocattolo, nella scia degli studi per pianoforte preparato, o come in Empty Mind, testo per un gioco d’ascolto. Un vero e proprio ‘mecanium’, concezione molto ardita ed originale, è stato inventato da Pierre Bastien, che utilizzando pezzi del meccano costruisce nuovi strumenti musicali e scrive per essi inediti pezzi. Bastien raggiunge risultati interessanti, una musica che fonde ascendenze africane, il jazz delle origini e la minimal, come avviene nel disco Musiques machinales (1993, Saxophon & musique innovatrices, 11, place Jean-Jaurès - F 42000 St. Etienne). Ultima filiazione della musica-giocattolo è forse quella prodotta su cd-rom. Qui spiccano Love e Digital Tragedy (1997) di Michael Nyman, scritte per il video game Enemy Zero, e pubblicate in versione cartacea da Music Sales. Brian Eno ha prestato giocattoli al gruppo dei Simian, che ne hanno fatto largo uso in un recentissimo acclamato disco intitolato We are your friends.
Giochi teatrali
Il più interessante teorico della necessità di mantenere un approccio giocoso al suono è il fiorentino Giuseppe Chiari, figura di spicco di Fluxus. Ha scritto Il Gioco (ora in “Musica Et Cetera”, Edizioni dell’Ortica, 1994), considerato un classico del genere, nel quale si legge: Qual è la forza del gioco? / La sua forza è l’isola. / Il gioco ignora dal momento in cui inizia il mondo intorno. / Per definizione. Per convenzione. / Si gioca. E basta. L’uso di giocattoli può realizzarsi, ad esempio, nel brano/happening di Chiari Teatrino per pianoforte e oggetti (realizzato da Frederic Rzwski a New York 1963, Firenze 1964, Koeln 1965, Berlino 1965). Giocattoli sonori sono usati da Giancarlo Cardini, ne La festa dei rumori, un antico esperimento, ed in altre composizioni. Il suo lavoro merita particolare attenzione: pianista extracolto e raffinato, interprete prediletto dai grandi autori dell’avanguardia sperimentalistica, come compositore si è sempre ritagliato uno spazio originale, fuori dalle mode del momento. I suoi lavori sono delicati e preziosi, come dimostra La stanza degli incanti per pianoforte, fiori, luci, oggetti e giocattoli sonori (1987). Nella didascalia del brano si legge: Stanza degli incanti e dei sogni. Stanza reale e stanza interiore. Spazio intimo, chiuso. Rituali fantastici, teneri e giocosi - con decorativi fogli colorati di carta velina appesi al pianoforte, biglie gettate dentro un bicchiere pieno d’acqua, un mazzo di fiori riflesso in uno specchio, girandole musicali... Nella musica: non-sviluppo, ripetitività, circolarità. Frammenti iterati senza sosta, quasi come formule magiche, o come il roteare di un caleidoscopio. Più orientato verso il teatro musicale, invece, è il brano Neo-Haiku Suite per pianoforte, fiori, luci, oggetti e due esecutori (per inciso i due esecutori storici, con tanto di kimono, sono stati lo stesso Cardini e Sylvano Bussotti). Numerose composizioni ed esecuzioni di Cardini sono pubblicate da Materiali Sonori di Firenze (http://www.matson.it/)
Giochi di repertorio
Il verbo ‘jouer’ in francese sta sia per ‘giocare’ che per ‘suonare uno strumento’, come del resto l’equivalente inglese “play”. Molti titoli sono ‘giocati’ sull’ambivalenza delle due azioni ‘suonare/giocare’, carattere ibrido che conferisce alla musica stessa un carattere ludico, e che assume via via i contorni di citazione, scherzo, gioco per gli occhi o ricamo canonico per divertire i bambini. Tenendo conto di questo doppio significato è possibile tentare una carrellata sulla produzione contemporanea. In area colta, una sequenza di ‘giochi’: Jeux de la nuit per ensemble strumentale (Edipan), Jeux de l’aube per violoncello e chitarra (edizioni Pcc-Assisi), Jeux du midi per clarinetto e quartetto d’archi (Edipan), Jeux des enfants selon Bruegel per chitarra, tutti scritti fra il 1985 e il 1987 da Fernando Sulpizi, compositore perugino d’adozione, erede della scuola di Vito Frazzi e autore anche di Ludus teatrali, di molta musica per bambini e di un pezzo che gioca con i nomi di note forme musicali, All’improvviso per divertimento uno scherzo. Un Play sax ha scritto Franco Balliana (Sonzogno); e quattro Playtime (alcuni pubblicati da Edipan) per differenti organici sono firmati dal compositore Fernando Mencherini, scomparso nel 1997, allievo di Walter Branchi e propugnatore della necessità di un nuovo rinascimento strumentale. Un Girotondo, per quartetto di chitarre, è di Giuseppe Zanaboni; un secondo Girotondo è quello di Bruno Zanolini, questa volta per coro infantile, pubblicato nel ricco catalogo della Suvini Zerboni. Un terzo Girotondo, in triplice versione, è l’opera in due atti di Fabio Vacchi, libera elaborazione di Roberto Roversi da Reigen di Schnitzler (Ricordi). E ancora: la forma del ‘divertimento’ è stata trattata da Ivan Fedele, in Divertimento (1981, Suvini Zerboni) e da Massimo Coen, Piera Pistono, Bruno Nicolai, Gianni Luporini, Mauro Bortolotti (Links, divertimento per archi) e numerosi altri compositori; Microdivertimenti per organico strumentale, di Aurelio Samorì; Pastorale e divertimento per pianoforte a quattro mani (1969) di Matilde Capuis (Curci), compositrice di origini napoletane particolarmente nota in Germania: il titolo però allude alla forma del brano più che ad un programma, cosa che accade anche per moltissimi ‘scherzi’, tra cui quello scritto nel 1984 da Giuseppe Manzino per organo a quattro mani. Franco Piva ha prodotto nel 1985 le Sonatine giocose concertanti per ensemble strumentale, eseguite tra l’altro alla New York University, e le Sonatine giocose che possono essere adattate al pianoforte, al clavicembalo o al fortepiano. Ha poi composto delle Variazioni giocose concertanti per quindici strumenti ed una tetralogia giocosa intitolata Novo Anphiparnaso. Tre giochi op 58 per flauto e chitarra sono del versatile ed acuto Dimitri Nicolau. E ancora: Puzzle sonore di Leo Kupper; Giochi di Miriam Quaquero; Players di Paolo Renosto; Solo Play di Frederic Rzewski; Gioco a cinque e Tempus Ludendi di Giancarlo Schiaffini; ‘a pazziella ‘mmano ‘e creature di Gianni Trovalusci; Trottola di Ruggero Laganà; Carillon de Vòtre Faust per cinque pianoforti preparati, di Daniele Lombardi; Organon, ad mensura ludendum et semplicitate di Roberto Lupi. Il tracciato si chiude, naturalmente, con The game is over di Marco Tutino.
Girolamo De Simone
Questo articolo è stato pubblicato sullo 'Speciale ultrasuoni su musica e giocattoli' n. 49, Il Manifesto del 14 dicembre 2002
lunedì 15 dicembre 2008
III Festival Internazionale di Chitarra Città di Monterotondo - ultimi concerti
III Festival Internazionale di Chitarra Città di Monterotondo.
Sabato 20 Dicembre
Alle 21.00 a Palazzo Orsini – Sala ConsiliareConcerto di
Michel Tirabosco (Flauto di Pan) e Antonio Dominguez (Chitarra)
Martedi 23 Dicembre
Sabato 20 Dicembre
Alle 21.00 a Palazzo Orsini – Sala ConsiliareConcerto di
Michel Tirabosco (Flauto di Pan) e Antonio Dominguez (Chitarra)
Martedi 23 Dicembre
alle 21.00 a Palazzo Orsini – Sala Consiliare- Chiusura del Festival -
Concerto di Arturo Tallini e gli
artisti del Coro dell’Accademia Nazionale di Santa CeciliaMarta Vulpi, Simonetta Pelacchi, Roberto Valentini, Francesco Toma – Roberta De Nicola voce recitante
Concerto di Arturo Tallini e gli
artisti del Coro dell’Accademia Nazionale di Santa CeciliaMarta Vulpi, Simonetta Pelacchi, Roberto Valentini, Francesco Toma – Roberta De Nicola voce recitante
Concerto balocco. Strani passatempi del Novecento di Girolamo De Simone parte prima
Con molto piacere ringraziamo, per aver concesso al nostro blog la pubblicazione di questo articolo, Girolamo De Simone, musicista e musicologo, considerato tra i principali esponenti delle avanguardie italiane legate alla musica di frontiera.
Invitiamo senz'altro chi volesse approfondire la conoscenza della sua poliedrica figura di compositore, pianista e 'agitatore culturale, come anche ama definirsi, a visitare il suo sito:
http://www.girolamodesimone.com/
Erik Satie, nella raccolta dedicata agli Sport e divertimenti, pubblicata nel 1919 ma composta ben cinque anni prima, raccoglie passatempi e giochi di società, avvalendosi delle illustrazioni di Charles Martin (ora reperibili in un volume pubblicato dalla Dover, New York, 1992): Le Feu d’artifice (Il gioco... pirotecnico); La Balancoire (l’altalena); Les Quatre-coins (i quattro cantoni); Colin-Maillard (moscacieca); Le traineau (lo slittino) e numerosi giochi sportivi, tra cui golf, yachting, tennis... Si tratta di piccoli brani della durata di una sola pagina, con incisi abbastanza ripetitivi nell’inconfondibile stile ironico dell’ispiratore del Gruppo dei Sei. I disegni di Martin, godibilissimi, richiamano nello stile grafico le... avventure del Signor Bonaventura! I testi aggiunti da Satie tra i righi musicali mostrano la passione dei circoli culturali dell’epoca per le poesie Haiku. Ecco quello di “Moscacieca”: «Cerchi bene, signorina / Colui che l’ama non è lontano / Com’è pallido: le labbra gli tremano / Le viene da ridere? / Lui si tiene il cuore con tutte e due le mani / Ma lei passa oltre senza accorgersene». Ed i “I quattro cantoni”: «I quattro topi / Il gatto / I topi stuzzicano il gatto / Il gatto si stira / Si allunga / Il gatto è in posizione». Ognuno di questi testi, qui proposti nella versione di Ornella Volta, viene sottolineato dalla musica, e spesso gli interpreti ne danno lettura nonostante una ironica proibizione dell’autore.
Giochi di natura
Il medesimo alone sprigionato dal nonsense, un clima etnico, lo si ritrova nei numerosi strumenti a vento usati per evocare spiriti buoni o divulgare ovunque, grazie agli elementi sottili, i propri desideri e le proprie preghiere, come nel caso dei mille stendardi del Tibet. Carillon a vento, dall’emissione di suoni casuali ma armonici, sono tipici dell’oriente; arpe eolie erano già diffuse dal Diciottesimo secolo, corde e casse armoniche dal suono variabile a seconda dell’intensità del soffio; carillon ad acqua con campane di porcellana potevano funzionare nei parchi e nei giardini, mescolandosi al gioco dell’acqua. L’acqua, scodelle rovesciate con lentezza studiata, ha un ruolo primario anche nella musica sufi: Oruc Guvens ha un suo “suonatore d’acqua” che costella di ancestrali risciacqui gli ipnotici Maqam tradizionali (Red Edizioni).
Antesignani del gioco tintinnante dei carillon furono nel Settecento Matthias Van den Gheyen e Pothoff, mentre nel con il jeu de timbres, vale a dire con le campane del glockenspiel, si cimentarono insigni compositori, da Haendel (Saul) a Mozart (Flauto magico), da Meyerbeer (Africaine) a Mahler (Settima sinfonia). Ad Haendel si deve anche l’utilizzo di veri fuochi d’artificio in Fireworks Music, ed al padre di Mozart, Leopold, la celebre Sinfonia dei giocattoli.
Non deve essere stato difficile, giunti ai primi del Novecento, recepire l’influenza dell’Oriente, almeno quanto oggi gli occidentali ne prendono le distanze: Debussy, Satie, Fauré soggiacciono alle effusività e coloriture etniche. Maurice Ravel scrive uno splendido brano, Jeux d’eau (1901) che suggerisce il movimento cristallino dell’acqua, disegnando con la mano destra, sugli acuti pianoforte, un elaborato ricamo di suoni cesellati come gocce. Jeux d’eau anticipa Debussy, ed è molto più evocativo di tanta musica a programma; il testo riporta una citazione tratta da Henry de Régnier: Dieu fluvial riant de l’eau qui le chatouille...
Giochi di fuochi e carte
Igor Stravinskij è uno dei musicisti del Novecento che, anche attraverso l’uso della citazione stilistica, rende centrale la tematica del gioco. Feu d’artifice (fuochi d’artificio, 1908) scritto nell’ultimo periodo di tirocinio con Rimskij-Korsakov è un gioco pirotecnico che, combinato in un concerto con lo Scherzo fantastico, fu capace di conquistare al russo l’attenzione di Sergej Diaghilev, e di lanciarlo verso la celebrità dei Balletti russi a Parigi.
Importante è poi Jeu de cartes (New York 1937), nel quale l’arte della citazione ironica raggiunge risultati sorprendenti e parossistici, attraverso riferimenti a Mozart, Rossini, Ciaikovski.
Un gioco più concettuale, ma non meno importante ai fini della scommessa teorica che poneva, ed in parte risolveva, fu quello di Paul Hindemith, che nell’epico Ludus Tonalis realizza un percorso alternativo a quello di Schoenberg, erigendo una sorta di ‘eterna ghirlanda’ concettuale a mo’ di sbarramento della dilagante moda dodecafonica, con Ernest Ansermet, Dmitri Schostakovic ed Igor Stravinskij.
continua domani...
Invitiamo senz'altro chi volesse approfondire la conoscenza della sua poliedrica figura di compositore, pianista e 'agitatore culturale, come anche ama definirsi, a visitare il suo sito:
http://www.girolamodesimone.com/
Concerto balocco. Strani passatempi del Novecento
Quanta musica è stata concepita quasi per gioco? Quali brani mantengono la promessa didascalica di ‘scherzo’ o ‘divertimento’? Il catalogo è ricco, non resta che tuffarci nella produzione del Novecento, un ludus epidermico, talvolta razionalistico, un tracciato che parte dal 1901 e arriva fino al 2002.
Giochi in società
Erik Satie, nella raccolta dedicata agli Sport e divertimenti, pubblicata nel 1919 ma composta ben cinque anni prima, raccoglie passatempi e giochi di società, avvalendosi delle illustrazioni di Charles Martin (ora reperibili in un volume pubblicato dalla Dover, New York, 1992): Le Feu d’artifice (Il gioco... pirotecnico); La Balancoire (l’altalena); Les Quatre-coins (i quattro cantoni); Colin-Maillard (moscacieca); Le traineau (lo slittino) e numerosi giochi sportivi, tra cui golf, yachting, tennis... Si tratta di piccoli brani della durata di una sola pagina, con incisi abbastanza ripetitivi nell’inconfondibile stile ironico dell’ispiratore del Gruppo dei Sei. I disegni di Martin, godibilissimi, richiamano nello stile grafico le... avventure del Signor Bonaventura! I testi aggiunti da Satie tra i righi musicali mostrano la passione dei circoli culturali dell’epoca per le poesie Haiku. Ecco quello di “Moscacieca”: «Cerchi bene, signorina / Colui che l’ama non è lontano / Com’è pallido: le labbra gli tremano / Le viene da ridere? / Lui si tiene il cuore con tutte e due le mani / Ma lei passa oltre senza accorgersene». Ed i “I quattro cantoni”: «I quattro topi / Il gatto / I topi stuzzicano il gatto / Il gatto si stira / Si allunga / Il gatto è in posizione». Ognuno di questi testi, qui proposti nella versione di Ornella Volta, viene sottolineato dalla musica, e spesso gli interpreti ne danno lettura nonostante una ironica proibizione dell’autore.
Giochi di natura
Il medesimo alone sprigionato dal nonsense, un clima etnico, lo si ritrova nei numerosi strumenti a vento usati per evocare spiriti buoni o divulgare ovunque, grazie agli elementi sottili, i propri desideri e le proprie preghiere, come nel caso dei mille stendardi del Tibet. Carillon a vento, dall’emissione di suoni casuali ma armonici, sono tipici dell’oriente; arpe eolie erano già diffuse dal Diciottesimo secolo, corde e casse armoniche dal suono variabile a seconda dell’intensità del soffio; carillon ad acqua con campane di porcellana potevano funzionare nei parchi e nei giardini, mescolandosi al gioco dell’acqua. L’acqua, scodelle rovesciate con lentezza studiata, ha un ruolo primario anche nella musica sufi: Oruc Guvens ha un suo “suonatore d’acqua” che costella di ancestrali risciacqui gli ipnotici Maqam tradizionali (Red Edizioni).
Antesignani del gioco tintinnante dei carillon furono nel Settecento Matthias Van den Gheyen e Pothoff, mentre nel con il jeu de timbres, vale a dire con le campane del glockenspiel, si cimentarono insigni compositori, da Haendel (Saul) a Mozart (Flauto magico), da Meyerbeer (Africaine) a Mahler (Settima sinfonia). Ad Haendel si deve anche l’utilizzo di veri fuochi d’artificio in Fireworks Music, ed al padre di Mozart, Leopold, la celebre Sinfonia dei giocattoli.
Non deve essere stato difficile, giunti ai primi del Novecento, recepire l’influenza dell’Oriente, almeno quanto oggi gli occidentali ne prendono le distanze: Debussy, Satie, Fauré soggiacciono alle effusività e coloriture etniche. Maurice Ravel scrive uno splendido brano, Jeux d’eau (1901) che suggerisce il movimento cristallino dell’acqua, disegnando con la mano destra, sugli acuti pianoforte, un elaborato ricamo di suoni cesellati come gocce. Jeux d’eau anticipa Debussy, ed è molto più evocativo di tanta musica a programma; il testo riporta una citazione tratta da Henry de Régnier: Dieu fluvial riant de l’eau qui le chatouille...
Giochi di fuochi e carte
Igor Stravinskij è uno dei musicisti del Novecento che, anche attraverso l’uso della citazione stilistica, rende centrale la tematica del gioco. Feu d’artifice (fuochi d’artificio, 1908) scritto nell’ultimo periodo di tirocinio con Rimskij-Korsakov è un gioco pirotecnico che, combinato in un concerto con lo Scherzo fantastico, fu capace di conquistare al russo l’attenzione di Sergej Diaghilev, e di lanciarlo verso la celebrità dei Balletti russi a Parigi.
Importante è poi Jeu de cartes (New York 1937), nel quale l’arte della citazione ironica raggiunge risultati sorprendenti e parossistici, attraverso riferimenti a Mozart, Rossini, Ciaikovski.
Un gioco più concettuale, ma non meno importante ai fini della scommessa teorica che poneva, ed in parte risolveva, fu quello di Paul Hindemith, che nell’epico Ludus Tonalis realizza un percorso alternativo a quello di Schoenberg, erigendo una sorta di ‘eterna ghirlanda’ concettuale a mo’ di sbarramento della dilagante moda dodecafonica, con Ernest Ansermet, Dmitri Schostakovic ed Igor Stravinskij.
continua domani...
domenica 14 dicembre 2008
Museo Zauli: Un probabile umore dell’idea QUATTRO SCULTORI DEL DOPOGUERRA: FONTANA, LEONCILLO, VALENTINI, ZAULI
Un probabile umore dell’idea
QUATTRO SCULTORI DEL DOPOGUERRA:
FONTANA, LEONCILLO, VALENTINI, ZAULI
A cura di Flaminio Gualdoni
Catalogo Silvana Editoriale
OPENING
GALLERIA BIANCONI MILANO giovedì 6 novembre ore 18.00-21.00
MUSEO CARLO ZAULI FAENZA sabato 29 novembre dalle ore 18.30
Galleria Bianconi, Via Fiori Chiari 18, Milano
07 novembre – 25 novembre 2008
dal mar alla dom 10.30-13.00/14.00-19.00;
lun solo su app
tel 02 7200703
Museo Carlo Zauli, Via Croce 6, Faenza
30 novembre – 29 dicembre 2008
dal mar al ven 15.00-18.00; sab e dom 10.00-13.00/15.00-18.00;
lun chiuso
tel 0546 22123
La Galleria Bianconi e il Museo Carlo Zauli sono lieti di presentare la mostra "Un probabile umore dell’idea. Quattro scultori del dopoguerra: Fontana, Leoncillo, Valentini , Zauli”, curata da Flaminio Gualdoni e corredata da un catalogo edito da Silvana Editoriale.
La mostra si inserisce come uno dei momenti principali della nuova stagione artistica della Galleria Bianconi che mira ad estendere la propria indagine sull’arte moderna e contemporanea dando vita ad una serie di progetti tesi da un lato ad approfondire un‘analisi critico - storica sulle arti visive del secondo ’900, dall’altro a scoprire come alcune caratteristiche dell’arte di tale periodo si riflettano oggi sull’opera di giovani contemporanei.
Si tratta di un ambizioso progetto il cui carattere marcatamente storicistico e quasi istituzionale è sottolineato dalla co-partecipazione del Museo Carlo Zauli di Faenza anch’esso sede - dal 29 novembre al 29 dicembre - dell’evento; scelta legata sia al fatto che il Museo è dedicato ad uno dei protagonisti della mostra, ma soprattutto connessa al forte valore simbolico della città di Faenza, epicentro professionale comune a tutti e quattro gli artisti.
La mostra ruota intorno a quattro grandi scultori nel periodo del dopoguerra, Fontana, Leoncillo, Valentini , Zauli e mostra il filo doppio che li lega, partendo proprio dal suo titolo “Un probabile umore dell’idea”.
La particolare definizione di Emilio Villa sulla vicenda dell’arte italiana nel secondo dopoguerra esprime quell’idea di scultura che unisce i quattro grandi maestri: la ricerca di una scultura non più prigioniera dei propri protocolli formali, scaturita da un diverso rapporto con la materia, che si trasforma in vitale alito poetico, per offrire uno spaccato, sia eterogeneo che armonioso, della scultura del secondo ‘900.
Nel passaggio tra gli anni ’50 e ’60 vengono a confronto due generazioni risolutive le quali si pongono la questione della ricerca di “una scultura necessaria e capace di farsi corpo plastico dotato di senso” e che superi la definizione martiniana di “Scultura Lingua Morta”.
Da qui nasce l’idea del confronto proposto dalla mostra fra Fontana, Leoncillo, Valentini e Zauli.
La mostra esplora il percorso che muove dalla lezione dei due grandi maestri, Fontana con il suo rapporto di profonda intimità con la materia, d’una complicità quasi erotica, e Leoncillo che sa vedere un nuovo oggetto nella materia trasformata con stratificazioni, solchi e strappi, che in realtà sono quelli del nostro essere più intimo. Attraverso le loro opere, il percorso espositivo porta in evidenza il substrato necessario e fondante che negli anni ’60 porta all’opera di Nanni Valentini e Carlo Zauli, che pur fedeli al linguaggio della terra, determinano schiusure decisive nel dibattito scultoreo, alla ricerca di quelle “forme, colori e materiali che possano suscitare direttamente un’emozione”.
In mostra, tra gli altri, pezzi molto significativi come Concetto Spaziale (1962) di Fontana, un inedito, mai pubblicato e presentato per la prima volta in una mostra, l’evocativo San Sebastiano (1963) di Leoncillo, il concettuale Cubo (1976) di Valentini e il fluente e oscuro Arata (1976) di Zauli.
La mostra, è accompagnata da due speciali eventi.
Il 19 novembre il concerto dell'Open DUO Around presso la Galleria Bianconi alle ore 19.00.
La coppia Open Duo collabora già da tempo con realtà appartenenti al mondo delle Arti Visive, esibendosi con consuetudine, fra l'altro, presso importanti Musei d'Arte italiani, come la GAM di Torino. Open Duo, composto dai musicisti Donato D'Antonio alla chitarra e Roberto Noferini al violino, propone per l'occasione brani di Ibert, Paganini, Ravel, Bartok, Aki, Piazzola.
Il 1 dicembre alle 0re 19.00 la conferenza di Flaminio Gualdoni presso il Museo Carlo Zauli.
QUATTRO SCULTORI DEL DOPOGUERRA:
FONTANA, LEONCILLO, VALENTINI, ZAULI
A cura di Flaminio Gualdoni
Catalogo Silvana Editoriale
OPENING
GALLERIA BIANCONI MILANO giovedì 6 novembre ore 18.00-21.00
MUSEO CARLO ZAULI FAENZA sabato 29 novembre dalle ore 18.30
Galleria Bianconi, Via Fiori Chiari 18, Milano
07 novembre – 25 novembre 2008
dal mar alla dom 10.30-13.00/14.00-19.00;
lun solo su app
tel 02 7200703
Museo Carlo Zauli, Via Croce 6, Faenza
30 novembre – 29 dicembre 2008
dal mar al ven 15.00-18.00; sab e dom 10.00-13.00/15.00-18.00;
lun chiuso
tel 0546 22123
La Galleria Bianconi e il Museo Carlo Zauli sono lieti di presentare la mostra "Un probabile umore dell’idea. Quattro scultori del dopoguerra: Fontana, Leoncillo, Valentini , Zauli”, curata da Flaminio Gualdoni e corredata da un catalogo edito da Silvana Editoriale.
La mostra si inserisce come uno dei momenti principali della nuova stagione artistica della Galleria Bianconi che mira ad estendere la propria indagine sull’arte moderna e contemporanea dando vita ad una serie di progetti tesi da un lato ad approfondire un‘analisi critico - storica sulle arti visive del secondo ’900, dall’altro a scoprire come alcune caratteristiche dell’arte di tale periodo si riflettano oggi sull’opera di giovani contemporanei.
Si tratta di un ambizioso progetto il cui carattere marcatamente storicistico e quasi istituzionale è sottolineato dalla co-partecipazione del Museo Carlo Zauli di Faenza anch’esso sede - dal 29 novembre al 29 dicembre - dell’evento; scelta legata sia al fatto che il Museo è dedicato ad uno dei protagonisti della mostra, ma soprattutto connessa al forte valore simbolico della città di Faenza, epicentro professionale comune a tutti e quattro gli artisti.
La mostra ruota intorno a quattro grandi scultori nel periodo del dopoguerra, Fontana, Leoncillo, Valentini , Zauli e mostra il filo doppio che li lega, partendo proprio dal suo titolo “Un probabile umore dell’idea”.
La particolare definizione di Emilio Villa sulla vicenda dell’arte italiana nel secondo dopoguerra esprime quell’idea di scultura che unisce i quattro grandi maestri: la ricerca di una scultura non più prigioniera dei propri protocolli formali, scaturita da un diverso rapporto con la materia, che si trasforma in vitale alito poetico, per offrire uno spaccato, sia eterogeneo che armonioso, della scultura del secondo ‘900.
Nel passaggio tra gli anni ’50 e ’60 vengono a confronto due generazioni risolutive le quali si pongono la questione della ricerca di “una scultura necessaria e capace di farsi corpo plastico dotato di senso” e che superi la definizione martiniana di “Scultura Lingua Morta”.
Da qui nasce l’idea del confronto proposto dalla mostra fra Fontana, Leoncillo, Valentini e Zauli.
La mostra esplora il percorso che muove dalla lezione dei due grandi maestri, Fontana con il suo rapporto di profonda intimità con la materia, d’una complicità quasi erotica, e Leoncillo che sa vedere un nuovo oggetto nella materia trasformata con stratificazioni, solchi e strappi, che in realtà sono quelli del nostro essere più intimo. Attraverso le loro opere, il percorso espositivo porta in evidenza il substrato necessario e fondante che negli anni ’60 porta all’opera di Nanni Valentini e Carlo Zauli, che pur fedeli al linguaggio della terra, determinano schiusure decisive nel dibattito scultoreo, alla ricerca di quelle “forme, colori e materiali che possano suscitare direttamente un’emozione”.
In mostra, tra gli altri, pezzi molto significativi come Concetto Spaziale (1962) di Fontana, un inedito, mai pubblicato e presentato per la prima volta in una mostra, l’evocativo San Sebastiano (1963) di Leoncillo, il concettuale Cubo (1976) di Valentini e il fluente e oscuro Arata (1976) di Zauli.
La mostra, è accompagnata da due speciali eventi.
Il 19 novembre il concerto dell'Open DUO Around presso la Galleria Bianconi alle ore 19.00.
La coppia Open Duo collabora già da tempo con realtà appartenenti al mondo delle Arti Visive, esibendosi con consuetudine, fra l'altro, presso importanti Musei d'Arte italiani, come la GAM di Torino. Open Duo, composto dai musicisti Donato D'Antonio alla chitarra e Roberto Noferini al violino, propone per l'occasione brani di Ibert, Paganini, Ravel, Bartok, Aki, Piazzola.
Il 1 dicembre alle 0re 19.00 la conferenza di Flaminio Gualdoni presso il Museo Carlo Zauli.
Silvia Zanchi Website
Vi segnaliamo con piacere l'apertura del sito internet della nostra amica liutaia Silvia Zanchi a cui vanno tutti i nostri auguri e complimenti per le sue belle chitarre:
ORCHESTRA DI CHITARRE DE FALLA in concerto Adria 21 dicembre
Chiesa S. Angelo
Comune di ANDRIA ( Ba )
- domenica 21 Dicembre 2008 , ore 19.00
concerto della
ORCHESTRA DI CHITARRE DE FALLA
direttore Pasquale Scarola
solista Viviana Savino - soprano
musiche di
S. Bach - A. Vivaldi - J.Strauss - A. Barrios - G.Gershwin
info: 0803715158
VISITA IL SITO
http://www.orchestradichitarredefalla.it/
Comune di ANDRIA ( Ba )
- domenica 21 Dicembre 2008 , ore 19.00
concerto della
ORCHESTRA DI CHITARRE DE FALLA
direttore Pasquale Scarola
solista Viviana Savino - soprano
musiche di
S. Bach - A. Vivaldi - J.Strauss - A. Barrios - G.Gershwin
info: 0803715158
VISITA IL SITO
http://www.orchestradichitarredefalla.it/
sabato 13 dicembre 2008
Guitars from Vesevo II Edizione: Ciro Carbone in Concerto AlTorchio sabato 20 dicembre
IlTorchio e Blog Chitarra e Dintorni
presentano
Guitars from Vesevo II Edizione
Ciro Carbone in Concerto
sabato 20 dicembre ore 20.30
Programma
Francisco Tarrega
Adelita
Recuerdos de l’ Alhambra
Capricho Arabe
Rosita
N. Paganini
La Clochette
Raffaele Viviani
(arrangiamento per chitarra di Ciro Carbone)
A’ tirata d’ ‘a rezza
G. De Curtis - E De Curtis
(arrangiamento per chitarra di Ciro Carbone)
Torna a Surriento
G. Lama – L. Bovio
Francisco Tarrega
Adelita
Recuerdos de l’ Alhambra
Capricho Arabe
Rosita
N. Paganini
La Clochette
Raffaele Viviani
(arrangiamento per chitarra di Ciro Carbone)
A’ tirata d’ ‘a rezza
G. De Curtis - E De Curtis
(arrangiamento per chitarra di Ciro Carbone)
Torna a Surriento
G. Lama – L. Bovio
(arrangiamento per chitarra di Ciro Carbone)
Reginella
Nicolardi – E. A. Mario
(arrangiamento per chitarra di Ciro Carbone)
Tammuriata nera
Antonio Ruiz Pipò
Canciòn y danza n°1
Antonio Lauro
El Marabino, Angostura, Natalia,Tatiana
Ignacio “Indio” Figueredo
Los Caujaritos
Reginella
Nicolardi – E. A. Mario
(arrangiamento per chitarra di Ciro Carbone)
Tammuriata nera
Antonio Ruiz Pipò
Canciòn y danza n°1
Antonio Lauro
El Marabino, Angostura, Natalia,Tatiana
Ignacio “Indio” Figueredo
Los Caujaritos
SpazioTorchio
via colonnello Aliperta
Parco degli Aromi
Somma Vesuviana (NA)
www.iltorchio.org
via colonnello Aliperta
Parco degli Aromi
Somma Vesuviana (NA)
www.iltorchio.org
giovedì 11 dicembre 2008
Recensione di FilmWorks XX: Sholem Aleichem di John Zorn di Empedocle70
Questa volta l'orecchio e l'attenzione di John Zorn si concentrano sulla figura carismatica di Sholem Aleichem, vero nome Shalom Rabinovitz, nato a Perevalsk, Ucraina nel 1859 e scomparso a New York nel 1916, scrittore di lingua yiddish, autore di romanzi sulla vita nei ghetti dell'Europa centrale, fine satirico, raffinato novelliere delle tristi realtà est-europee all’inizio del XX secolo, diventato famoso al pubblico grazie al suo, ormai celeberrimo, Tewjè, lattaio protagonista di una lunga serie libraria fra il 1894 e il 1916, personificazione delle difficoltà quotidiane sopportate da un individuo medio che, nonostante tutto, riesce a superarle grazie al gioco, allo scherzo e all’amore. Comicità sì, ma sempre pervasa da un’aurea nera, da un chiaroscuro umorale molto particolare.
In questo caso egli viene omaggiato da un documentario, successivamente musicato dallo stesso Zorn che, come da sua consuetudine da un po’ di anni a questa parte per la collana Filmworks, si “limita” a scrivere le musiche lasciandolo poi suonare ad altri eccellenti musicisti di chiara estrazione ebraica che orbitano attorno alla sua figura carismatica.
Complimenti a Zorn che continua implacabile nella sua opera di sperimentazione abbinata al linguaggio cinematografico attraverso colonne sonore realizzate per film underground, piccoli cortometraggi ed autobiografie d’impatto mediatico pressoché nullo. Un lavoro indefesso e maniacale che arriva a pochi mesi dal precedente, notevole “The Rain Horse” e che è già stato seguito dal capitolo XXI della saga Filmworks intitolato “Belle de Nature - The New Rijksmuseum”.
Zorn non si espone come musicista, ma in compenso troviamo dei nomi strepitosi, dei veri virtuosi come Rob Burger alla fisarmonica, Carol Emanuel all’arpa e addirittura il Masada String Trio al completo.
Per questo disco Zorn ha inventato per noi una musica leggera e allo stesso tempo multiforme ed umorale. Inevitabile porre dei confronti non tanto fra lo scrittore ed il film, quanto fra la personalità di Aleichem ed il suo "commento" musicale. Ecco dunque che questo eterno contrasto, questo strambo retrogusto dolceamaro tipico della prosa di Aleichem si rispecchia pienamente in questi dodici, nuovi, differenti temi. L’apertura è fulminante: in “Shalom, Sholem!” fisarmonica e violoncello si rincorrono e si intrecciano, sfumando malinconicamente su un tappeto di respiro assai più ampio e concentrando così, in poco più di due minuti, una quantità di immagini visive impressionante.
Eccezionale è il lavoro di Carol Emanuel: “Nekubolim”, di una profondità e di uno spessore musicale impressionanti, si eleva ulteriormente proprio grazie all’arpista statunitense, che ne arricchisce la struttura con luminose trine semplicemente bellissime all’ascolto. Lo stesso accade per “Mamme Loshen”, più crepuscolare e cadenzata, klezmer screziato di sirtaki, nulla da contestare anche in “Lucky Me, I’m An Orphan!”, dal tessuto semplice e vibrante, con un violino libero di svariare per ogni dove. Musica quindi piacevole, lontana da certi manierismi e eccessi sperimentali a cui Zorn ci ha, piacevolmente, abituato nel corso della sua carriera. Musica leggera da ascoltare e bere di un fiato solo, senza annoiarsi e, forse, senza troppo impegnarsi in congetture, voli interpretativi, analisi dietrologiche.
Attendo con ansia il prossimo volume.
In questo caso egli viene omaggiato da un documentario, successivamente musicato dallo stesso Zorn che, come da sua consuetudine da un po’ di anni a questa parte per la collana Filmworks, si “limita” a scrivere le musiche lasciandolo poi suonare ad altri eccellenti musicisti di chiara estrazione ebraica che orbitano attorno alla sua figura carismatica.
Complimenti a Zorn che continua implacabile nella sua opera di sperimentazione abbinata al linguaggio cinematografico attraverso colonne sonore realizzate per film underground, piccoli cortometraggi ed autobiografie d’impatto mediatico pressoché nullo. Un lavoro indefesso e maniacale che arriva a pochi mesi dal precedente, notevole “The Rain Horse” e che è già stato seguito dal capitolo XXI della saga Filmworks intitolato “Belle de Nature - The New Rijksmuseum”.
Zorn non si espone come musicista, ma in compenso troviamo dei nomi strepitosi, dei veri virtuosi come Rob Burger alla fisarmonica, Carol Emanuel all’arpa e addirittura il Masada String Trio al completo.
Per questo disco Zorn ha inventato per noi una musica leggera e allo stesso tempo multiforme ed umorale. Inevitabile porre dei confronti non tanto fra lo scrittore ed il film, quanto fra la personalità di Aleichem ed il suo "commento" musicale. Ecco dunque che questo eterno contrasto, questo strambo retrogusto dolceamaro tipico della prosa di Aleichem si rispecchia pienamente in questi dodici, nuovi, differenti temi. L’apertura è fulminante: in “Shalom, Sholem!” fisarmonica e violoncello si rincorrono e si intrecciano, sfumando malinconicamente su un tappeto di respiro assai più ampio e concentrando così, in poco più di due minuti, una quantità di immagini visive impressionante.
Eccezionale è il lavoro di Carol Emanuel: “Nekubolim”, di una profondità e di uno spessore musicale impressionanti, si eleva ulteriormente proprio grazie all’arpista statunitense, che ne arricchisce la struttura con luminose trine semplicemente bellissime all’ascolto. Lo stesso accade per “Mamme Loshen”, più crepuscolare e cadenzata, klezmer screziato di sirtaki, nulla da contestare anche in “Lucky Me, I’m An Orphan!”, dal tessuto semplice e vibrante, con un violino libero di svariare per ogni dove. Musica quindi piacevole, lontana da certi manierismi e eccessi sperimentali a cui Zorn ci ha, piacevolmente, abituato nel corso della sua carriera. Musica leggera da ascoltare e bere di un fiato solo, senza annoiarsi e, forse, senza troppo impegnarsi in congetture, voli interpretativi, analisi dietrologiche.
Attendo con ansia il prossimo volume.
Empedocle70
mercoledì 10 dicembre 2008
Recensione di La musica di Toru Takemitsu di Peter Burt di Empedocle70
BURT Peter
La musica di Toru Takemitsu
BMG RICORDI 2003
pp.263
Questo è senz’altro un libro eccellente e indispensabile per chiunque voglia avvicinarsi e cercare di capire la musica di Toru Takemitsu. Per esplicita scelta dell’autore, il libro prende in esame solo le composizioni che il musicista giapponese ha destinato alla sala da concerto, tralasciando la produzione per il cinema, per la radio e in generale relative ad un repertorio più leggero. Il punto centrale dell’analisi svolta da Peter Burt sembra essere l’integrazione tra le diverse visioni culturali, quella occidentale e quella giapponese svolta da Takemitsu e come punto di partenza per la sua analisi è il collocare le idee del compositore giapponese in un quadro più ampio di relazione storiche, sociali ed ambientali. Il libro infatti inizia focalizzando lo sguardo sul modo in cui il Giappone negli ultimi tre secoli ha affrontato il rapporto con l’Occidente, evidenziando le strutture portanti della cultura giapponese, sulla base della teoria coniata dallo storico Arnold Toynbee che spiega i tipi di pensiero "progressivo" o "ricettivo" presenti nel paese con le espressioni "erodesca" e "zelotista": il primo si riferisce al tentativo di conoscere ed applicare le strategie dell’avversario, il secondo mira a mettere in campo con scrupolosa esattezza la propria tattica arroccandosi così in posizioni tradizionali. Burt si serve di queste due opposte visioni “strategiche” per descrivere l’evoluzione della musica di Takemitsu: dal periodo degli studi della musica occidentale in cui il compositore quasi rinnega le proprie origini, ai contatti con John Cage e al conseguente recupero della sua radice giapponese fino al tentativo di integrare le due tradizioni.
Burt ipotizza che il rifiuto della tradizione giapponese da parte di Takemitsu, almeno in una fase iniziale, sia riconducibile all'associazione della musica giapponese alla cultura militarista, all’estetica totalitaristica da regime che era stato imposto in Giappone, così come in Italia e Germania. E' in questo humus culturale che cresce Takemitsu, che assume grandi dosi di musica occidentale sotto forma di Debussy, Messiaen, Franck, Fauré, riconosciuti tutti come modelli del compositore giapponese. Eppure con il passare del tempo non solo si ammorbidisce la sua posizione nei confronti della musica tradizionale, assimilata inconsciamente sottopelle (ad esempio attraverso l'utilizzo di strutture pentatoniche tipicamente tradizionali), ma anche approcciando le tendenze più legate all'avanguardia che in Europa sta ricostruendo la tabula rasa lasciata dalla guerra. In particolare l'interesse di Takemitsu si concentra sulla musica elettronica e sulla musica concreta, vissuta quest'ultima come vettore di associazioni descrittive, che guideranno il compositore direttamente alla maturazione di capacità spendibili con buoni esiti anche in campo cinematografico. Le esperienze nelle radio e con il gruppo Jikken Kobo individuano una storia ancora poco nota dalle nostre parti, di recente esplorata in modo arguto e divertente da Julian Cope all’inizio del suo libro Japrocksampler.
La carriera di Takemitsu viene qui ricostruita in 12 tappe-capitoli: il Requiem, le avventure seriali, le esplorazioni timbriche, l'indeterminazione cageinana, modernismo/pentatonia/tonalità, un oceano senza Oriente e Occidente. Ogni capitolo contiene dettagliate analisi musicologiche, melodiche e armoniche e confronti accurate tra le diverse opere e i diversi periodi compositivi attraversati da Takemitsu e le opere dei compositori a cui lui guardava come modelli (Messiaen in particolare), guidando il lettore attraverso la carriera e il percorso musicale del compositore giapponese. Completano il lavoro un catalogo delle opere e una bibliografia molto dettagliate.
Uno punto di rammarico, a mio avviso, la totale mancanza di una discografia e in particolare di qualche consiglio su quale incisione ascoltare. Possibile che a un super esperto come Peter Burt sia mancato il coraggio di dirci quali dischi di Takemitsu vale la pena acquistare?
Burt ipotizza che il rifiuto della tradizione giapponese da parte di Takemitsu, almeno in una fase iniziale, sia riconducibile all'associazione della musica giapponese alla cultura militarista, all’estetica totalitaristica da regime che era stato imposto in Giappone, così come in Italia e Germania. E' in questo humus culturale che cresce Takemitsu, che assume grandi dosi di musica occidentale sotto forma di Debussy, Messiaen, Franck, Fauré, riconosciuti tutti come modelli del compositore giapponese. Eppure con il passare del tempo non solo si ammorbidisce la sua posizione nei confronti della musica tradizionale, assimilata inconsciamente sottopelle (ad esempio attraverso l'utilizzo di strutture pentatoniche tipicamente tradizionali), ma anche approcciando le tendenze più legate all'avanguardia che in Europa sta ricostruendo la tabula rasa lasciata dalla guerra. In particolare l'interesse di Takemitsu si concentra sulla musica elettronica e sulla musica concreta, vissuta quest'ultima come vettore di associazioni descrittive, che guideranno il compositore direttamente alla maturazione di capacità spendibili con buoni esiti anche in campo cinematografico. Le esperienze nelle radio e con il gruppo Jikken Kobo individuano una storia ancora poco nota dalle nostre parti, di recente esplorata in modo arguto e divertente da Julian Cope all’inizio del suo libro Japrocksampler.
La carriera di Takemitsu viene qui ricostruita in 12 tappe-capitoli: il Requiem, le avventure seriali, le esplorazioni timbriche, l'indeterminazione cageinana, modernismo/pentatonia/tonalità, un oceano senza Oriente e Occidente. Ogni capitolo contiene dettagliate analisi musicologiche, melodiche e armoniche e confronti accurate tra le diverse opere e i diversi periodi compositivi attraversati da Takemitsu e le opere dei compositori a cui lui guardava come modelli (Messiaen in particolare), guidando il lettore attraverso la carriera e il percorso musicale del compositore giapponese. Completano il lavoro un catalogo delle opere e una bibliografia molto dettagliate.
Uno punto di rammarico, a mio avviso, la totale mancanza di una discografia e in particolare di qualche consiglio su quale incisione ascoltare. Possibile che a un super esperto come Peter Burt sia mancato il coraggio di dirci quali dischi di Takemitsu vale la pena acquistare?
Empedocle70
Video: Rain Tree - Toru Takemitsu
martedì 9 dicembre 2008
Video di Arturo Tallini - Live
Maderna - Serenata per un satellite
Ginastera Sonata 1-2
Ginastera Sonata 3-4
Un'improvvisazione
Ginastera Sonata 1-2
Ginastera Sonata 3-4
Un'improvvisazione
lunedì 8 dicembre 2008
Opere di Marco Murru in Concerto
Auditorium Conservatorio Cagliari 12 novembre 2008
Pianoforte: Francesca Carta
Violino: Corrado Masoni
"La Bufera"
"Toccata per Pf solo"
http://it.youtube.com/user/MarcoMurruComposer
Marco Murru, nato a Cagliari nel 1983, si è diplomato in chitarra al conservatorio di Trieste. Durante i suoi studi ha approfondito lo studio della chitarra classica con Masterclass e seminari tenuti da figure di grande rilievo in ambito nazionale e internazionale tra cui John Williams, Hopkinson Smith, Tilmann Hoppstock, Giovanni Puddu, Giampaolo Bandini, Giulio Tampalini, Pierluigi Corona, Roberto Masala, e si è specializzato in musica antica e intavolature di liuto, vihuela e chitarra con Franco Fois. La passione per la musica Rock-blues lo ha spinto ad approfondire lo studio della chitarra elettrica e moderna suonando nella Jazz Band di Paolo Carrus a Cagliari, e frequentando seminari con chitarristi di chiara fama come Alex Britti e Irio de Paola. E' stato ospite della trasmissione televisiva "Musica Maestro" diretta da Giorgio Baggiani, trasmessa su Sardegna 1. E' vincitore assoluto del 2° premio al 1° Concorso nazionale di interpretazione chitarristica svoltosi nella città di Quartu (Ca) indetto dallassociazione Andres Segovia nel 2001. Studia composizione da diversi anni con Gianluigi Mattietti, Angelo Guaragna ed Emilio Capalbo coi quali è attualmente iscritto al secondo anno del triennio di Composizione nel Conservatorio G. P. Palestrina di Cagliari . Ha frequentato diversi Masterclass e seminari anche nel campo della composizione con figure di spicco tra cui Azio Corghi, Roman Vlad, M. Van Der AA, Fabio Vacchi , Luis de Pablo e per quanto riguarda la composizione chitarristica Carlo Carfagna, Leo Brower, Carlo Domeniconi e Roland Dyens. I suoi pezzi sono stati eseguiti in diverse manifestazioni musicali in diverse città italiane tra cui Roma, Pescara, Genova , Bari e Cagliari (Festival Spaziomusica 2007). Per quanto riguarda la didattica è stato titolare delle cattedre di chitarra classica e moderna nella scuola civica di Domusnovas (Ca) dal 2003 al 2006 e insegna strumento in diverse scuole medie a indirizzo musicale nella provincia di Cagliari. Contemporaneamente è stato attivo in diversi laboratori chitarristici e musicali in diverse scuole elementari della sua città e attualmente insegna chitarra classica e moderna da diversi anni nella suola privata New Roland Ism di Cagliari, attiva dal 1990. È stato inoltre, per diverse edizioni, in giuria in concorsi regionali di esecuzione chitarristica rivolti ai giovani.
Pianoforte: Francesca Carta
Violino: Corrado Masoni
"La Bufera"
"Toccata per Pf solo"
http://it.youtube.com/user/MarcoMurruComposer
Marco Murru, nato a Cagliari nel 1983, si è diplomato in chitarra al conservatorio di Trieste. Durante i suoi studi ha approfondito lo studio della chitarra classica con Masterclass e seminari tenuti da figure di grande rilievo in ambito nazionale e internazionale tra cui John Williams, Hopkinson Smith, Tilmann Hoppstock, Giovanni Puddu, Giampaolo Bandini, Giulio Tampalini, Pierluigi Corona, Roberto Masala, e si è specializzato in musica antica e intavolature di liuto, vihuela e chitarra con Franco Fois. La passione per la musica Rock-blues lo ha spinto ad approfondire lo studio della chitarra elettrica e moderna suonando nella Jazz Band di Paolo Carrus a Cagliari, e frequentando seminari con chitarristi di chiara fama come Alex Britti e Irio de Paola. E' stato ospite della trasmissione televisiva "Musica Maestro" diretta da Giorgio Baggiani, trasmessa su Sardegna 1. E' vincitore assoluto del 2° premio al 1° Concorso nazionale di interpretazione chitarristica svoltosi nella città di Quartu (Ca) indetto dallassociazione Andres Segovia nel 2001. Studia composizione da diversi anni con Gianluigi Mattietti, Angelo Guaragna ed Emilio Capalbo coi quali è attualmente iscritto al secondo anno del triennio di Composizione nel Conservatorio G. P. Palestrina di Cagliari . Ha frequentato diversi Masterclass e seminari anche nel campo della composizione con figure di spicco tra cui Azio Corghi, Roman Vlad, M. Van Der AA, Fabio Vacchi , Luis de Pablo e per quanto riguarda la composizione chitarristica Carlo Carfagna, Leo Brower, Carlo Domeniconi e Roland Dyens. I suoi pezzi sono stati eseguiti in diverse manifestazioni musicali in diverse città italiane tra cui Roma, Pescara, Genova , Bari e Cagliari (Festival Spaziomusica 2007). Per quanto riguarda la didattica è stato titolare delle cattedre di chitarra classica e moderna nella scuola civica di Domusnovas (Ca) dal 2003 al 2006 e insegna strumento in diverse scuole medie a indirizzo musicale nella provincia di Cagliari. Contemporaneamente è stato attivo in diversi laboratori chitarristici e musicali in diverse scuole elementari della sua città e attualmente insegna chitarra classica e moderna da diversi anni nella suola privata New Roland Ism di Cagliari, attiva dal 1990. È stato inoltre, per diverse edizioni, in giuria in concorsi regionali di esecuzione chitarristica rivolti ai giovani.
domenica 7 dicembre 2008
I Fotografi e la Chitarra Classica
Foto di omerix
Galleria Flickr: http://www.flickr.com/photos/alfonso-errico/
Foto di casimir62
Galleria Flickr: http://www.flickr.com/photos/30232634@N00/
Foto di aghia.sophie
Galleria Flickr: http://www.flickr.com/photos/aghia_sophie/
Foto di biancoreartico
Galleria Flickr: http://www.flickr.com/photos/biancoreartico/
Foto di Mr Korn Flakes
Galleria Flickr: http://www.flickr.com/photos/mrkornflakes/
Galleria Flickr: http://www.flickr.com/photos/alfonso-errico/
Foto di casimir62
Galleria Flickr: http://www.flickr.com/photos/30232634@N00/
Foto di aghia.sophie
Galleria Flickr: http://www.flickr.com/photos/aghia_sophie/
Foto di biancoreartico
Galleria Flickr: http://www.flickr.com/photos/biancoreartico/
Foto di Mr Korn Flakes
Galleria Flickr: http://www.flickr.com/photos/mrkornflakes/
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