giovedì 14 maggio 2009

Il suono veloce di Gianluca Cavallo parte prima

La proposta futurista in campo musicale nasce dalla constatazione che la musica italiana (siamo nel 1910) era ridotta «ad una forma unica e quasi invariabile di melodramma volgare, da cui risulta l’assoluta inferiorità nostra di fronte all’evoluzione futurista della musica negli altri paesi». Sono parole del compositore Francesco Balilla Pratella (Manifesto dei musicisti futuristi), il quale utilizza l’aggettivo “futurista” con un’accezione decisamente ampia, estesa ben oltre il circolo marinettiano. Cita infatti quali musicisti futuristi tutti quei compositori che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, hanno rivoluzionato la composizione musicale: Richard Strauss con le sue armonie “dilatate”, imparentate in un certo senso con Wagner e Mahler, Claude Debussy e le sue armonie innovative, dettate dal puro gusto eufonico e dalla volontà di esprimere precisi sentimenti collegati a immagini e ancora Elgar, Musorgskij, Sibelius, Glazunov… Tuttavia, la musica del futurismo vero e proprio, avrebbe dovuto spingersi ancora più in là (le scale per toni interi di Debussy erano un «sistema nuovo, ma pur sempre sistema»). E’ strano che Pratella non citi la scuola viennese di Schönberg, che nella sperimentazione aveva fatto passi da gigante, ma è possibile che non la conoscesse.
Ecco cosa si propone il musicista futurista: la «libertà assoluta» nella sperimentazione; la «sintesi», ossia la concentrazione di sensazioni e avvenimenti in un ristretto ambito spazio-temporale; l’utilizzo dell’enarmonia (sperimentata da Silvio Mix e da Luigi Russolo), cioè l’utilizzo di intervalli inferiori al semitono, ed, infine, la poliritmia. Va detto che l’enarmonia era già stata sperimentata molte volte nella storia musicale: è chiaro che per i secoli antecedenti alla teorizzazione del buon temperamento di Andreas Werckmeister (1691) fosse prassi comune, ma venne riproposto già nel Rinascimento, per esempio dal Vicentino, nel suo trattato L’antica musica ridotta alla moderna pratica, il quale si fece anche costruire degli strumenti dimostrativi (l’arcicembalo e l’arciorgano) con tasti differenziati per diesis e bemolli (per capirci, il do diesis e il re bemolle erano intonati diversamente). Anche nella seconda metà dell’Ottocento vengono sperimentate da numerosi compositori minori le possibilità dell’enarmonia e tra Otto e Novecento sono investigate da Ives e Busoni, ancora prima dunque delle pretese di originalità avanzate dal futurismo.
Nel 1912 Pratella pubblica La distruzione della quadratura, in cui auspica l’adozione del «ritmo libero, senza simmetria, come nei versi liberi di Paolo Buzzi». Ma Pratella aderisce al futurismo un po’ per comodo, senza essere in realtà esattamente convinto di tutte le idee che Martinetti tentava di inculcare nella mente dei suoi seguaci, anche compositori di musica. Riccardo Baccelli scrisse a Pratella nel 1911, dopo aver letto, probabilmente, il Manifesto dei musicisti: «Io le ho già detto che sono d’accordo, e si capisce, ma non capisco la parola “futurismo”. Non credo che lei l’abbia capita come Martinetti, per il quale vuol dire apoteosi delle macchine ecc. ecc. Per lei dev’essere, credo, l’espressione lirica della liberazione dall’insegnamento senza fosforo e senza sangue dell’arte ufficiale e gazzettistica, è vero? E allora basta una vecchia parola, sincerità. E poi temo che le forme (non sue; del Martinetti) creino un’accademia più stretta della vecchia».
Marinetti parve un po’ il “dittatore artistico” del movimento da lui fondato, e molti aderirono forse unicamente per farsi conoscere dal pubblico, dato che quella era la maggiore avanguardia (in Italia) e non parteciparvi avrebbe significato essere escluso dalla vita culturale del paese. Molti compositori presero parte a serate futuriste ed ebbero applicata, più o meno sovente, quell’etichetta, pur non aderendo esplicitamente al movimento (per esempio, Casella, Malipiero, Respighi o addirittura Bartok). Tuttavia ci furono, tra i compositori, anche marinettisti convinti: Silvio Mix e Luigi Russolo, per indicare i più importanti. Luigi Russolo è l’inventore degli intonarumori e teorico della musica rumorista. Lo stesso Pratella utilizzò in alcune composizioni questi nuovi strumenti, per esempio nel brano che rappresenta il volo e la caduta del protagonista in L’aviatore Dro, in cui si nota la contrapposizione tra «un gruppo di intonarumori» e «la massa formata dagli altri strumenti musicali. Scoppiatori e Ronzatori con parte scritta con chiarezza e precisione sia per la durata e sia per le altezze e varietà d’intonazione relative a ciascun intonarumore. (…) Il loro timbro non si unisce agli altri elementi sonori come materia eterogenea, ma vi si unisce come un nuovo elemento sonoro, emotivo ed essenzialmente musicale» (così Pratella presentava sulla rivista Lacerba la sua composizione al pubblico). Gli intonarumori coprivano un intervallo di circa una decima e avevano alcune tacche sulla parte superiore che indicavano, in linea di massima, l’intonazione dello strumento. Essi passavano da un tono all’altro glissando. Il primo di questi strumenti, costruito da Luigi Russolo e Ugo Piatti venne presentato al Teatro Storchi di Modena il 2 giugno 1913 per poi giungere a Genova e a Londra.
Luigi Russolo pubblicò nel 1913 il manifesto L’arte dei rumori, scritto in forma di lettera indirizzata a Pratella. «La vita antica fu tutta silenzio. Nel diciannovesimo secolo, coll’invenzione delle macchine, nacque il rumore. Oggi, il Rumore trionfa e domina sovrano sulla sensibilità degli uomini». Per Russolo «il suono musicale è anche troppo limitato nella varietà qualitativa dei timbri. Le più complicate orchestre si riducono a quattro o cinque classi di strumenti, differenti nel timbro del suono: strumenti ad arco, a pizzico, a fiato in metallo, a fiato in legno, a percussione. Cosicché la musica moderna si dibatte in questo piccolo cerchio, sforzandosi vanamente di creare nuove varietà di timbri. Bisogna rompere questo cerchio ristretto di suoni puri e conquistare la varietà dei “suoni-rumori”». E si spinge, da buon futurista, a “rinnegare” il passato affermando che «Beethoven e Wagner ci hanno squassato i nervi e il cuore per molti anni. Ora ne siamo sazi e godiamo molto più nel combinare idealmente i rumori di tram, di motori a scoppio, di carrozze e di folle vocianti, che nel riudire, per esempio, l’”Eroica” e o la “Pastorale”». Russolo definisce i luoghi da concerto tradizionali – riporto questa frase anche se non così importante, perché bellissima - «ospedali di suoni anemici» in cui «si opera una miscela ripugnante formata dalla monotonia delle sensazioni e dalla cretinesca commozione religiosa degli ascoltatori buddisticamente ebbri di ripetere per la millesima volta la loro estasi più o meno snobistica ed imparata».
Questi intonarumori si differenziarono poi in: ronzatori, ululatori, rombatori, crepitatori, stropicciatori, scoppiatori, gorgogliatori e sibilatori e ciascuno di questi poteva avere un’ estensione nel registro grave, medio o acuto. A Milano, a casa di Martinetti, vennero presentati questi strumenti alla presenza di Stravinskij, Profof’ev e del coreografo Diaghilev. E’ noto a tutti, tuttavia, che gli intonarumori ebbero breve vita, né i grandi russi sopracitati li utilizzarono mai, anche se Prokof’ev, in un suo articolo apparso sulla rivista “Muzyka”, parla diffusamente e con tono favorevole degli intonarumori di Russolo. Diaghilev collaborò con artisti futuristi alla realizzazione di alcuni balletti, in particolare con Fortunato Depero e Giacomo Balla (con quest’ultimo realizzò Feu d’artifice con scenografia plastica e musica di Stravinskij). Depero, invece, che avrebbe dovuto realizzare con Diaghilev Le chant du rossignol (sempre di Stravinskij), finì per abbandonare il progetto per dedicarsi ai suoi “balli plastici”, in cui al posto di ballerini e ballerine venivano usate marionette, e si trovò così a collaborare con Casella, Malipiero e Chemenon (pseudonimo quasi certamente di Bela Bartok). I balli plastici non ebbero però un grande successo.



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